Gloria Steinem: la battaglia per un “femminismo popolare”
di Deborah Ardilli*
Un intervallo di quasi vent’anni separa “In Praise of Women’s Bodies”, originariamente apparso nell’aprile del 1982 sulle colonne di Ms. e presentato qui per la prima volta in traduzione italiana, da “I Was a Playboy Bunny”, l’articolo che nel 1963 regala a Gloria Steinem un’improvvisa, ancorché per molti versi ingrata, notorietà.1 Fra le due date si dispiega quel fragoroso risveglio del movimento femminista passato agli annali sotto la denominazione di “seconda ondata”.2 Alla fine degli anni Sessanta, negli Stati Uniti, la forza trainante di questa rinascita proviene da un arcipelago di gruppi e collettivi animati da donne che si definiscono femministe “radicali”, spesso provviste di un’esperienza politica pregressa nel movimento per i diritti civili e in quello studentesco, il più delle volte profondamente amareggiate dallo sciovinismo maschile incontrato nelle formazioni della Nuova Sinistra. A distinguerle dalle associazioni femminili già attive sul terreno dell’emancipazione è la scelta di non accontentarsi più delle rivendicazioni avanzate nel contesto della battaglia per la parità di trattamento giuridico, come pure dell’analisi sottesa allo sforzo di integrare le donne al mainstream statunitense. Numericamente minoritarie, ma capaci di iniziative di forte impatto simbolico e responsabili di quella fondamentale innovazione costituita dall’introduzione della pratica dell’autocoscienza, le femministe radicali irrompono sulla scena politica con tutta la determinazione necessaria a far tracimare nella sfera “personale” e a ormeggiare nella concretezza del vissuto la presa di coscienza della contraddizione fra i sessi. È grazie a questa componente se corpo e sessualità entrano a pieno diritto nel novero delle questioni dotate di dignità politica, anche a dispetto della caparbia resistenza opposta dall’ala più moderata del movimento delle donne – rappresentata da Betty Friedan e da quante avevano fondato insieme a lei la NOW (National Organization for Women) nel 1966 – timorosa di guastarsi la reputazione e di alienarsi le simpatie maschili con incursioni troppo temerarie in un ambito tradizionalmente sottratto alla discussione pubblica.
A quella stagione di rivolgimenti ancorata all’assunto secondo cui “il personale è politico” appartiene anche il tentativo steinemiano, perseguito soprattutto attraverso la tortuosa avventura editoriale della rivista Ms., di creare un “femminismo popolare” iniettando negli interstizi della cultura di massa contenuti propri del femminismo radicale. Con una tiratura fra le 400 e le 500 mila copie, e un pubblico stimato nell’ordine dei tre milioni di lettrici, a partire dal 1972 Ms. si presenta in effetti come un’anomalia editoriale, distinta dalle pubblicazioni di movimento deliberatamente collocate ai margini del circuito commerciale, come off our backs o No More Fun and Games, ma non per questo assimilabile alla stampa femminile mainstream. A caratterizzare la rivista, che si qualifica come un «forum aperto» e dichiara l’intenzione di «ampliare i confini filosofici che femministe coraggiose e radicali stanno cercando di esplorare», è la fiducia nella possibilità di sfruttare a proprio vantaggio le forze di mercato in modo tale da abbinare una nitida istanza antipatriarcale a una circolazione del messaggio su vasta scala.3 L’ambizione che muove il progetto, in altre parole, è quella di riformare il circuito della stampa periodica femminile, facendo lievitare presso un’ampia platea di lettrici una coscienza di gruppo finalizzata non già a creare nuove nicchie di consumo, ma a resistere agli imperativi di una cultura androcentrica. Ed è precisamente questa ricerca di contaminazione fra radicalità e popolarità, alla lunga punteggiata da una serie di contraddizioni che alcuni settori del movimento delle donne non avrebbero mancato di rilevare (talvolta anche con punte di asprezza polemica particolarmente aggressive),4 la cifra costante dell’impegno di Steinem nel corso degli anni Settanta.
Ciò non significa, per altro verso, che si debbano attendere gli anni Settanta per sorprendere Steinem intenta a ragionare su questioni che si sarebbero rivelate di capitale importanza per la seconda ondata femminista. Se oggi, per il grande pubblico, la figura fortemente mediatizzata della “femminista più famosa degli Stati Uniti” è associata soprattutto alla battaglia per la ratifica dell’ERA (Equal Rights Amendment) e agli scontri con l’Eagle Forum della conservatrice Phyllis Schlafly, di recente portati sul piccolo schermo dalla serie televisiva Mrs. America,5 “In Praise of Women’s Bodies” riprende, con altri accenti, un filo di riflessione sulla politica del corpo che ha segnato gli esordi dell’attività giornalistica di Steinem. Su questi primi passi della fondatrice di Ms. nel campo della politica del corpo vale la pena spendere preliminarmente qualche parola. ...