Il giorno in cui il mondo smette di comprare
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Il giorno in cui il mondo smette di comprare

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Il giorno in cui il mondo smette di comprare

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I primi ad accorgersi che qualcosa è cambiato sono i commessi dei negozi: quel giorno stanno clamorosamente mancando gli obiettivi di vendita. Poche ore dopo i responsabili di zona mandano resoconti preoccupati ai loro capi. Il giorno successivo gli addetti ai magazzini dei maggiori siti di shopping online vedono i loro ritmi frenetici rallentare. Nel giro di pochi giorni il colore del cielo cambia con il calare delle emissioni di anidride carbonica. Il mondo ha smesso di comprare: non è l'inizio di un romanzo distopico; è l'unica cosa che può salvare noi e la Terra.Parliamoci chiaro: è lo stile di vita basato su un consumo costante la causa principale del collasso ecologico. Siamo disposti ad avviare trasformazioni radicali su scala globale per rendere più verde e sostenibile il nostro stile di vita, ma non a diminuire i nostri acquisti, quello no, è l'ultimo tabù. Se smettiamo di comprare, dicono politici ed economisti, sarà una catastrofe, la fine della nostra società e di milioni di posti di lavoro. Ma è davvero così?Per rispondere a questa domanda, J.B. MacKinnon ha attraversato il pianeta parlando con gli ultimi cacciatori-raccoglitori africani, con dirigenti dell'industria della moda e con chi lavora negli stabilimenti tessili in Bangladesh, con pubblicitari più o meno pentiti e membri di comunità autosufficienti, con chi produce oggetti usa e getta e chi li cura come prodotti artigianali. Ha visitato gli ultimi luoghi degli Stati Uniti in cui i negozi sono chiusi la domenica; ha attraversato città in cui, avendo tagliato l'illuminazione artificiale, si è tornati ad ammirare le stelle; ha scoperto insospettabili sacche di resistenza al consumo nel cuore del Giappone ipertecnologico.Ridurre i nostri consumi non è un processo indolore, ma è possibile, necessario e non rimandabile se vogliamo interrompere la spirale distruttiva che sta devastando le nostre vite e la Terra. Il giorno in cui il mondo smette di comprare è la proposta di un futuro diverso, un futuro che inizia da una nostra semplice decisione: devo davvero premere il pulsante «acquista»?

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788865769706
Argomento
Economia
parte terza
Adattamento
11. Un attaccamento alle cose, non più debole,
ma più forte
La lampadina che ha illuminato il deposito della stazione numero 6 dei Vigili del Fuoco di Livermore, California, negli ultimi centoventi anni non si esaurirà mai. Al contrario, è destinata a «scadere». Quando succederà, di certo non verrà gettata via, e nemmeno riciclata. Sarà «messa a riposo».
«Occorre usare la terminologia corretta» mi diceo Tom Bramell, ex vicecapo del dipartimento oggi in pensione, accompagnando queste parole con una leggera risata. Quando ho parlato con lui, talmente tagliato per il ruolo del pompiere da avere occhi e capelli color cenere, e un perenne ansito da prolungata inalazione di fumo («ogni giorno consumo una scatola intera di pastiglie per la tosse»), era ormai il più eminente storico dell’illuminazione di Livermore. Quella lampadina è stata praticamente sempre accesa a partire dal 1901; nel 2015, aveva superato il milione di ore di servizio, rendendola, secondo i Guinness World Records, quella che più di tutte al mondo aveva lavorato. La si poteva vedere anche online, e aveva fan ovunque. Una lampadina che, per durata, aveva già superato diverse webcam.
Le parti e i materiali che la componevano e la rendevano così duratura sono una sorta di mistero, e per una semplice ragione: non si può sezionare una lampadina che è sempre accesa. Ecco quanto sappiamo di lei: è stata fabbricata più o meno nel 1900 dalla Shelpby Electric, in Ohio, secondo una progettazione dell’inventore franco-americano Adolphe Chaillet. Il filamento di carbonio che la compone ha orientativamente lo spessore di un capello umano, come quelli, di norma in tungsteno, che si trovano nelle moderne lampadine. Era pensata per sviluppare sessanta watt, anche se di fatto spandeva nei sei garage della stazione la luce di un lume da camera. Sono stati studiati prodotti simili della Shelby della stessa annata, per cercare di capirne di più. Tuttavia è venuto fuori che in quel periodo l’azienda stava sperimentando diversi modelli.
L’aspetto più sorprendente di questo manufatto è che è a incandescenza, e questo significa dal punto di vista pratico che produce l’iridescenza riscaldando il filamento, fino a quando, arroventato, non comincia a brillare. Come mettere del fuoco in una bottiglia, per dirla gergalmente. Si tratta della stessa tecnologia ancora oggi utilizzata per produrre delle lampadine, le stesse che fastidiosamente si consumano in tempi brevissimi e che siamo costretti a comprare e ricomprare. Inserite una normale lampadina a incandescenza comprata in un qualunque negozio, e aspettatevi che possa durare per, all’incirca, un migliaio di ore. Se la lasciate accesa a tempo pieno, la probabile data di morte è circa quarantadue giorni dopo l’accensione.
«Oggi non costruiamo le cose perché durino» mi ha detto Bramell, e di certo parlava a nome di tutti noi.
In molti sembrano essere d’accordo su questo, ovvero che i prodotti che noi tutti acquistiamo al giorno d’oggi siano soggetti a quello che l’economista Robert Solow, citando un anonimo amico tedesco, ha chiamato Das Gesetz der Verschlechtigung aller Dinge, per noi la «legge del deterioramento di ogni cosa». Eppure dobbiamo essere sicuri che non si tratti solo di nostalgia di un passato immaginario. Oppure è davvero così, cioè che i prodotti che compriamo oggi sono di qualità peggiore di quelli che acquistavamo cinque, dieci o anche vent’anni fa?
«Per i prodotti di consumo, mi sento di dire che è decisamente vero» mi ha detto David Enos, scienziato dei materiali ad Albuquerque, nel New Mexico. Enos, che lavora per i Sandia National Laboratories, quelli che si prendono cura delle riserve nucleari degli Stati Uniti, è specializzato proprio nella durata dei manufatti. Il suo lavoro è quello di produrre oggetti che possano resistere, anche in condizioni estreme, per periodi di tempo molto lunghi. Per esempio, ha studiato come realizzare container che possano essere immagazzinati all’interno di una montagna, in una atmosfera di vapore puro, per il lasso di tempo necessario perché le scorie nucleari si decompongano fino a diventare materiale inerte e inoffensivo. «Per quel sito, puntiamo a una cornice temporale di centinaia di migliaia, milioni di anni» mi spiega.
All’inizio della sua carriera, tuttavia, Enos aveva un altro impiego e si occupava di circuiti elettrici per stampanti a getto d’inchiostro. Quei macchinari avevano venti milionesimi di pollice di oro posizionati sopra le tracce di rame per impedirne la corrosione. «A grandezze di venti micropollici, ovvero 0,00005 centimetri, stai giocando sul filo del rasoio, se si va sotto quel limite, la durata dell’oggetto precipita molto rapidamente» ha continuato Enos. E voi sapete cosa succede a quel punto: la stampante smette di funzionare, e vi tocca comprarne una nuova.
Se l’azienda usasse venticinque micropollici di oro sulle tracce dei circuiti elettrici, la stampante sarebbe molto più affidabile, precisa Enos. Il problema però è che non sarebbero in tanti a comprarla, questo perché il macchinario concorrente, quello con solo venti micropollici d’oro, costerebbe meno. «È la nostra attuale mentalità, compriamo le cose meno dispendiose possibili» mi dice Enos. «Possiamo costruire un telefono cellulare che duri dieci anni? Nessun problema. Di sicuro disponiamo della tecnologia necessaria. I costi però iniziano a farsi sempre più alti. E nessuno vuole arrivare a spendere cinque o diecimila euro per un cellulare dicendo: ehi, questo telefono mi durerà dieci anni. Il grosso delle persone dicono: va bene, anzi benissimo, non mi importa; tanto tra due o tre anni ne voglio prendere un altro.»
Tutto questo però muta il giorno in cui il mondo smette di comprare, quando invece la scelta di orientarsi sui prodotti a lunga durata diventa quella di buon senso. Se il tuo obiettivo è cercare di comprare il minor numero possibile di cellulari o stampanti nel corso della tua vita, sarai ben disposto all’idea di spendere di più per un telefono o una stampante che duri nel tempo. Vuoi comprare meno cose, ma vuoi comprarle migliori.
Sfortunatamente, non abbiamo certezza di come funzioni nei fatti un’economia basata su queste tipologie di prodotto.
Il lungo viaggio che va dalle buone e durature lampadine come quella appesa al soffitto della stazione dei vigili del fuoco di Livermore e arriva a quelle monouso che troviamo oggi nei negozi comincia nel 1924. Quell’anno i rappresentanti delle più grandi società di illuminazione del mondo – e tra queste ci sono molti nomi a noi familiari come Philips, Osram e General Electric – si incontrarono in Svizzera per dare vita al Phoebus, probabilmente il primo cartello aziendale di portata globale. All’epoca gli esperti stavano riuscendo a incrementare stabilmente la durata delle lampadine, un processo che stava creando, secondo la definizione di un membro senior del Phoebus, una «palude» nel volume di affari delle vendite. Una volta che tutti avessero riempito le loro case di lampadine a lunghissima durata, difficile che qualcuno avrebbe avuto necessità di comprarne di nuove.
Le aziende associate al Phoebus stabilirono di ridurre la durata delle lampade, portandola a uno standard di mille ore. Più di trent’anni dopo, nel 1960, Vance Packard, un giornalista scandalistico, rese popolare l’espressione «obsolescenza programmata» per descrivere il deliberato tentativo dei costruttori di progettare i propri prodotti in modo da esaurirsi in tempi brevi, di smettere di funzionare, di rompersi e di non poter essere riparati, o altrimenti di essere superati o obsoleti. La decisione presa dal cartello del Phoebus, quella di accorciare la vita delle lampadine, viene considerata uno dei primi esempi di obsolescenza programmata su scala industriale.
È facile assegnare alla Phoebus il ruolo del grande consorzio complottista di uomini d’affari malvagi. A dire il vero, è proprio così che compare nel romanzo di Thomas Pynchon, L’arcobaleno della gravità, nel quale questa misteriosa organizzazione invia un agente munito di guanti rivestiti di amianto e di tacchi alti venti centimetri per far fuori le lampadine dure a morire, quelle che violano il limite delle mille ore di servizio. «[…] assicurarsi che […] nessuna lampadina abbia una durata operativa più lunga del normale» scrive Pynchon, trasformando la standardizzazione del prodotto in una metafora di oppressione e di conformismo sociale. «Potete ben immaginare che cosa potrebbe succedere sul mercato, altrimenti…»
Quando tuttavia venne stabilito lo standard della lampadina da mille ore, l’obsolescenza programmata non era un segreto. Al contrario, veniva discussa perché rappresentava una soluzione a un problema sempre più spinoso. La Rivoluzione industriale stava rendendo possibile la produzione di enormi quantità di beni in tempi brevi e a costi contenuti. Eppure, se una fabbrica avesse sfornato prodotti di qualità e di lunga durata, nel giro di poco ci sarebbe stata poca domanda per gli stessi beni che la fabbrica forniva al mercato. Economisti e uomini d’affari iniziarono a sostenere che, a meno che non si producessero bare, l’idea di vendere a qualcuno un prodotto una sola volta fosse pessima sotto il profilo della redditività e decisamente antieconomica. Certo, la società si sarebbe arricchita, si dissero, se avessero cercato un equilibrio tra una minore qualità e un tasso di vendita più elevato. (All’epoca non ci si preoccupava granché di esaurimento delle risorse o della distruzione dell’ambiente.) Alla fine degli anni venti, il modello di vendita ripetuta era ormai così popolare che un finanziere di primo piano ribattezzò l’obsolescenza «il nuovo Dio» dell’elitè imprenditoriale americana.
In tutto lo spettro politico era possibile individuare accesi sostenitori dei prodotti a breve durata. Giles Slade, nel suo volume intitolato Made to Break, ha rintracciato le origini dell’espressione «obsolescenza programmata». La prima occorrenza che ha trovato compare in un pamphlet del 1932, intitolato appunto «Ending the Depression through Planned Obsolescence», un volumetto che inquadrava i prodotti con una breve vita come un vantaggio per la classe operaia. Nel 1936, un saggio dello stesso tenore comparve nella rivista Printer’s Ink, affermando che i prodotti durevoli fossero «antiquati» e ammonendo: «Se la merce non si esaurisce alla svelta, le fabbriche saranno sprecate, la gente disoccupata».
Queste tesi tipiche dell’epoca della Depressione, sintetizzate da un opinionista del settore economico del tempo nella forma di una «sana e genuina filosofia della libera spesa e del libero spreco», sono diventate un’altra parte cruciale della moderna economia del consumo. Non compreremo un prodotto una sola volta, ma continueremo ad acquistarlo di nuovo, ancora e ancora, nel corso della nostra vita. Shopping, e ancora shopping. Il consumo ripetuto è ormai elemento integrante di ogni oggetto che acquistiamo, e l’obsolescenza è divenuta, come ha ben chiarito Slade, «un punto fermo della coscienza americana».
Trent’anni fa è emersa una nuova tecnologia che ha seriamente minacciato l’obsolescenza pianificata. Si trattava di quel tipo di prodotto che avremmo proprio voluto in una società del deconsumo: durevole, efficiente sotto il profilo energetico, sotto ogni aspetto migliore dell’oggetto che avrebbe dovuto sostituire. E aveva la forma, di nuovo, di una lampadina.
Il primo diodo capace di emettere luce venne presentato nella struttura delle General Electric di Syracuse, nello Stato di New York, nel 1962, ma fu solo negli anni novanta che i led riuscirono a produrre della luce bianca con una efficienza energetica superiore rispetto alle lampadine a incandescenza. Si tratta di una tecnologia autenticamente rivoluzionaria, al punto che l’adozione del nuovo sistema viene considerato un passaggio essenziale per il rallentamento del cambiamento climatico.
Si tratta di lampadine capaci di una durata leggendaria. Il blocco costitutivo principale della tecnologia led è un semiconduttore, ed è facile progettare i semiconduttori perché durino nel tempo. Lampadine che garantiscono 50 000 ore di attività non sono un’eccezione – se vi dimenticate di spegnerli, quegli aggeggi vanno avanti per quasi sei anni. I negozi di ferramenta hanno lampadine a led che più spesso offrono una durata, ancora sensazionale, di 25 000 ore. In una normale famiglia americana, ogni singola lampadina resta accesa per circa 1,6 ore ogni giorno. In condizioni normali quindi, una lampadina a led del tutto ordinaria svolgerebbe la sua funzione per quarantadue anni.
Nel 2019, il settore della vendita delle lampadine a led era in vorticosa espansione, il che appariva anche come un segno del fatto che la vicenda del deconsumo non doveva necessariamente portare a un crollo; avrebbe infatti potuto accendere la scintilla di una «crescita buona», una situazione in cui le imprese creavano prodotti di alta qualità che avrebbero sostituito la robaccia usa e getta del passato. Che cresca ciò che buono, e che si ritragga ciò che non è.
I led, tuttavia, hanno anche mostrato che la crescita buona non potrebbe durare per sempre. L’industria dell’illuminazione ha un’espressione, «socket saturation», che descrive il momento in cui il grosso della lampadine a incandescenza e di breve durata sparse per il mondo verrano svitate dai loro supporti e sostituite dai più durevoli led. A quel punto, almeno in teoria, il mondo intero smetterà di comprare lampadine. E che succederà all’industria dell’illuminazione se le lampadine di ognuno di noi durano per metà della nostra vita? Fabien Hoelzenbein, analista del mercato dell’illuminazione di base a Londra, sintetizza così: «Una domanda che vale un miliardo di dollari».
Verso la fine degli anni dieci di questo secolo, la «socket saturation» sembrava ormai dietro l’angolo. Invece non si è mai verificata, perché la tecnologia led è stata assimilata dalla cultura del consumo. Abbiamo già visto un modo in cui questo fenomeno si è realizzato: abbiamo preso i soldi risparmiati attraverso i led e li abbiamo utilizzati per comprare un sacco di lampade in più. Poi, secondo la stessa logica con cui le lampadine a incandescenza di lunga durata sono state seguite a stretto giro, negli anni Venti, da quelle a breve durata, così alle lampadine led durevoli sono seguite quelle a led, ma a breve durata. Una profusione di nuovi fabbricanti, perlopiù localizzati nei paesi asiatici, ha rapidamente abbassato i costi e la qualità. Una tecnologia durevole si stava trasformando in una usa e getta.
«Su eBay puoi comprare lampadine di qualità così infima che quando le avviti rischi davvero di beccarti una scossa» mi ha detto Hoelzenbein. E ha aggiunto di aver ricevuto dalla Cina informazioni su persone che hanno acquistato in offerta lampadine a led vendute al chilo, ben sapendo che tra tutte alcune avrebbero funzionato e altre decisamente no.
Alcuni governi hanno imposto degli standard minimi per la durata dell...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Prologo
  4. Parte prima. I primi giorni
  5. Parte seconda. Il crollo
  6. Parte terza. Adattamento
  7. Parte quarta. Trasformazione
  8. Epilogo
  9. Ringraziamenti
  10. Bibliografia