Omaggio a Giancarlo Vigorelli
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Omaggio a Giancarlo Vigorelli

Brani scelti da La terrazza dei pensieri

  1. 69 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Omaggio a Giancarlo Vigorelli

Brani scelti da La terrazza dei pensieri

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Informazioni sul libro

Da Svevo a Pasternak, da Pavese e Parise a Moravia e De Beauvoir, quattordici affascinanti profili di grandi scrittori e poeti pubblicati da Giancarlo Vigorelli tra il 1966 e il 1967, testimonianze preziose e grandi pezzi di critica letteraria. Un tributo al grande intellettuale e critico letterario in occasione del centenario della sua nascita. "Ha lasciato tanto Vigorelli. Ha lasciato tanto soprattutto a chi non se n'è accorto. Ha lasciato un'idea di cultura e di civiltà, di bontà e di amore che solo la letteratura - quella viva, quella d'azione, non quella polverosa di saggi e saggisti- è riuscita a dare." (dalla nota introduttiva di Gian Paolo Serino)

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788898475131

Pavese e lo scaccomatto dell’amore

La prima pagina del Mestiere di vivere fa subito pensare che ne stanno dietro altre, ha il senso e lo dà di un discorso interrotto e riattaccato: “Che qualcuna delle ultime poesie sia convincente, non toglie importanza al fatto che le compongo con sempre maggior indifferenza e riluttanza…”; invece altre pagine anteriori a quel 6 ottobre 1935, non sono state trovate. Dunque, dobbiamo ritenere che prima del confino a Brancaleone Calabro, dove era arrivato il 5 agosto, Pavese non abbia mai tenuto un diario? Né, se l’ha scritto, è da sospettare che l’abbia distrutto, perché Pavese conservava tutto, non buttava via niente, sopratutto se erano materiali intimi.
Questo primo volume dell’epistolario, curato con ogni merito da Lorenzo Mondo, con la collaborazione di Calvino e di Lajolo, Lettere: 1924-1944 (Einaudi, 1966), nell’attesa del secondo [ora è uscito], ha tra le altre risorse il vantaggio di anticipare di dieci anni certe verità, e le confidenze spesso atroci, del Mestiere di vivere: le Lettere, quindi, oltre ad integrare il diario, ed a farlo più vero e veridico di quanto non si sospettasse, ne risultano il retroterra o piuttosto la sabbia mobile.
Nella vita di Pavese scritta da Lajolo, Il vizio assurdo, un bel numero di queste lettere dell’adolescenza e della giovinezza le avevamo già lette, scoprendovi sopratutto quella ossessione del suicidio che assediandolo da ragazzo non l’abbandonerà più; si ricorderà, tra le altre, la lettera a Mario Sturani del 9 gennaio del ’27, seguita dalla poesia della rivoltella: “…L’ho riposta – allora, ancora calda, entro la tasca – e ho ripreso la via… – immaginavo – il sussulto tremendo che darà – nella notte che l’ultima illusione – e i timori mi avranno abbandonato – e me l’appoggerò contro una tempia – per spaccarmi il cervello”. Sarà invece un tubetto di sonniferi, ma eseguirà il gesto tentato e sospeso a più riprese; qui, nelle lettere dei primi anni, la volontà e la voluttà di darsi la morte con le proprie mani riaffiora spesso, e sempre da un subbuglio di dannata impotenza di vita, d’amore, di creazione. Già nella prima lettera del 4 novembre 1924 – aveva sedici anni – così si raffigurava davanti a Sturani: “Che basti spezzare con la briglia la nuca al cavallo lo seppi sempre, ma la mia croce è la convinzione che il mio cavallo è uno di quei tanti, ossuti, impotenti, delle vetture da piazza”. Senza metafore, era ancora più disperato, più spietato: pianto, agonia, morte, e “il desiderio d’una donna viva; – spirito e carne, da poterla stringere – senza ritegno e scuoterla, avvinghiato - il mio corpo al suo corpo sussultante…”; pessimi versi liceali del ’25, come questi altri del ’26: “Senza una donna da serrarmi al cuore! – mai l’ebbi e mai l’avrò…”. O quando le ebbe, in qualsiasi epoca della vita, non riuscì mai a mettere d’accordo i sentimenti e i sensi, crollando da una avventura all’altra perdutamente, sempre fuori dalla realtà, inseguendo immagini spesso di cattiva letteratura e anche di brutto cinema. Vedeva una donna e se ne innamorava, durò così per tutta la vita, delirando a vuoto, predestinatamente masochista: “Così ho vissuto struggendomi per X. [era Mae Bush, vista in “Femmine folli” di Stroheim], così per venire a tempi più alla mano, mi sono esaltato per quella Wilma Banky [vista in “La figlia dello sceicco”] e per la XX…”, questo è un elenco-lampo d’un’altra lettera sempre allo Sturani del ’26, rincarato da questo commento, in una lettera al Curti, 6 ottobre 1926: “Sono la mia debolezza le innamorate, e il bello è che non ne ho mai avuta neppure una, e più bello ancora è che quasi tutte le donne che mi passano accanto mi danno un giro alla testa e un pugno al cuore. Sono diventato una bestia feroce: ah le donne! Non sono che un giocattolo io in mano alle donne e dire che non ne ho ancora conosciuta nessuna! (…). Pensa che starei al supplizio della corda pur di conoscerne una da vicino. Non mica il corpo. Ci son le statue greche e le puttane per quello. Ma l’anima, l’anima, un po’ d’anima che mi dica che non è vero che io sia un nulla nel mondo, ma che valgo un affetto, un po’ d’interessamento almeno. Macché! Mi si risponde che non so ballare e che non ho maniere…”. Non furono soltanto sfoghi giovanili. Durò così tutta la vita. Infatti, l’amore più intero della sua vita – la famosa “donna dalla voce rauca” – gli dirà di peggio: “Continua a far versi, Cesare: a letto non ci sai fare”. Anche Strindberg s’era sentito dire le stesse parole dalle sue donne: e un cauto raffronto, diari alla mano, tra i due, sarebbe da fare.
Non vorrei – anche per rispetto, per pietà – andare troppo avanti in queste citazioni. D’altra parte, queste Lettere scandagliano giorno per giorno, come un pre-diario, tutta la sua vita e gli anni dell’apprendistato. Qualcuno ha detto che era giusto lasciarle nei cassetti dei destinatari, per non mettere in pubblico tutte le miserie, e le miserabilità, di Pavese. Ma è lo stesso Pavese che ha messo mano a queste rivelazioni, perché di ogni lettera, anche la più puerile, egli ha sempre conservate minute e copie: confesso anzi che non lo sospettavo così letterato da avere ordinato da sé tutte le sue carte, maniacamente, senza mai buttare via niente, neppure certe ingenue lettere da adolescente provinciale in un misto di Vita Nova di Dante e di Mimì Bluette di Da Verona… Ma la ragione vera, più che una concessione alla vanità letteraria, doveva essere quella dell’idea fissa del suicidio: il povero Pavese era sempre in procinto di farla finita, colpi di rivoltella, rubinetti del gas, e perciò aveva il puntiglio di lasciarsi dietro le pezze giustificative di quel gesto rimandato ma fatale; inoltre c’era il gusto masochista di rovistare tra le rovine dei suoi amori, compiangersi e deridersi, comunque inchiodarsi da vivo nella cassa da morto e ascoltare la musica rotta, rauca del suo cuore prima di scendere nel silenzio.
Questa è l’unica spiegazione che può essere data davanti al fatto che Pavese s’era fatto da sé il suo archivio, trattandosi un po’ da postumo, nella speranza di sopravvivere domani avendo dovuto rifiutare di vivere ieri. Ogni tanto, è da credere, Pavese rituffava il cuore in queste carte, constatando che il male saliva, gli amori falliti si ripetevano a catena, la sfida del suicidio era sempre più dietro le spalle. Ancora al Curti, il 22 ottobre del ’26, aveva detto: “O tornerò cristiano fervente o mi ammazzerò o diventerò matto o mi adatterò alla vitaccia: questo è il continuo balletto che suonano le mie idee. Non credo più a nulla, non valgo nulla, sono meschino, abbietto”. Anche quando si innamorò di Milly – la cara soubrette che in quegli stessi giorni era amata dal principe di Piemonte, e ne parlava tutta Torino – sfiorò il suicidio: “Sono tre mesi – lettera a Sturani dell’8 aprile ’27 – che ho vissuto in passione continua: tira, molla; lo faccio, non lo faccio. Fa una paura tremenda quello sconquasso sanguinoso del cervello molliccio e della scatola. Coll’ultimo innamoramento, quello della ballerina, mi era parso di essere giunto definitivamente al punto, ma non ne ho avuto il coraggio…”.
Sono tre le lettere a Milly. Fa male dirlo, ma va detto, sono povere lettere esaltate e smarrite, da arrossire a leggerle; chiunque altro, anche senza essere scrittore, le avrebbe stracciate; Pavese no, le ha custodite gelosamente, e forse non batteva ciglio neanche quando a rileggerle si trovava di fronte a una identificazione con Da Verona: “Lei, una sera di febbraio leggeva sul tram, verso casa, Mimì Bluette. Se ha letto quel libro, e se Lei è davvero come io l’ho immaginata, deve sentire tutta l’umile immensità di ciò che le offro…”. Nelle tre lettere, per quasi un anno, non chiedeva che di avere qualche riga di risposta: “Una sua parola, almeno, mi è necessaria come a lei è necessaria la musica per creare il suo sogno vivo. Mi risponda, per pietà, signorina…”: si sarebbe accontentato, feticisticamente, di mettere tra le sue carte, come una vittoria, un bigliettino autografo di Milly, forse senza chiedere di più; anche perché nel frattempo aveva incontrato una ragazza torinese dalla “faccia libidinosa”, che si lasciava baciare, e un po’ lo baciava, e lo “studente di diciannove anni” (così diceva di sé) scriveva a lei lettere struggenti consolandola di avere un “grande amore per un altro”, più che consolare se stesso di vedersela tolta sotto gli occhi: “Piangerei di vergogna e dolore fremente se lui dovesse soffrire per noi. Io che ti amo, ti adoro di una passione disperata, so quanto sarebbe terribile una rovina così grande. Un colpo di rivoltella. Non altro…”.
Adesso che queste lettere sono di pubblico dominio, sembra di mancare al suo estremo invito (che era però trascritto, come si sa, da Majakovskij) di non fare “troppi pettegolezzi” ad andare a metterle sotto le lenti d’ingrandimento; eppure non c’è altra via, se si vuole scandagliare a fondo la sua vita e insieme la sua opera, violarne i misteri ma non tradirne la immagine vera, sia del Pavese uomo, sia del Pavese scrittore; e qui nelle Lettere, in questo primo volume almeno, non si sa dire quale dei due sia più in ritardo a farsi avanti. Della sua formazione di scrittore, dicono ben poco queste lettere d’ingenuo romanticismo, tanto quel perenne stato di strazio in cui viveva ne era lo stimolo da una parte, ma dall’altra anche il freno, e spesso il deviamento rovinoso. Contano quasi soltanto le numerose lettere in inglese ad Antonio Chiuminatto a ragguagliarci un po’ sul suo lavoro, sui primi interessi verso la letteratura americana; e più avanti, quando sgobba da Einaudi o per altri editori, al ritorno dal confino e fino alla guerra, è facile tenergli dietro nelle prime scelte, nei gusti, nelle fatiche (vedi i carteggi con Alicata, Muscetta, Pintor, Vittorini, Vicari) e si assiste alle vicende dei primi suoi libri; ma per guardargli dentro al male, al “vizio assurdo”, per scoprire da dove viene lo scaccomatto della sua povera vita umiliata bisogna proprio fare una lettura diagnostica su quelle cartelle cliniche che sono le sue tragiche (e, talvolta, comiche) lettere d’amore, o comunque le lettere alle sue donne, comprese quelle così sobrie, scontrose, amare alla sorella Maria, l’unico specchio onesto della sua vita.
Lasciamo da parte – le sole ad essere di un alto tono umano, e dove lo scrittore vince sull’uomo – le lettere a Fernanda Pivano; ma non bisogna perdere una r...

Indice dei contenuti

  1. Biografia
  2. Ricordi di Giancarlo – Di Carla Tolomeo
  3. Sìììì, valeva la pena – Di Gian Paolo Serino
  4. Svevo sotto tutela
  5. Ungaretti e Blake
  6. Montale democratico
  7. Giacomo Debenedetti
  8. Pavese e lo scaccomatto dell’amore
  9. Quasimodo: dare e avere
  10. Vittorini europeo a vent’anni
  11. Moravia “vecchio” e Moravia “giovane”
  12. Il primo Parise
  13. Lettere inedite di Baudelaire
  14. Bulgakov: Cristo al Cremlino
  15. Simone de Beauvoir e le “belle immagini”
  16. Pasternak e Siniavskij
  17. Chi è Kosinski?