La vita di Cola di Rienzo
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Cola di Rienzo, al secolo Nicola di Lorenzo Gabrini o in romanesco medievale Cola de Rienzi (Roma, 1313 – Roma, 8 ottobre 1354), è stato un condottiero, tribuno e studioso italiano. È rimasto nella storia perché, nel tardo medioevo, tentò di instaurare nella città di Roma straziata dai conflitti tra il popolo e i baroni una forma di Comune. In omaggio alla storia antica della città e per ricollegarsi ad essa si autodefiniva "l'ultimo dei tribuni del popolo". I mini-ebook di Passerino Editore sono guide agili, essenziali e complete, per orientarsi nella storia del mondo. A cura di Antonio Ferraiuolo.

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Informazioni

Editore
Passerino
Anno
2021
ISBN
9791220869539
Argomento
History
Categoria
World History

LA VITA DI COLA DI RIENZO


I.

L'uomo comunale viveva incorporato alla sua famiglia alla sua consorteria alla sua maestranza alla sua parte, in quella guisa che la figura sbozzata di basso rilievo aderisce alla vena del sasso, resta prigione della forza compatta onde nasce. Ma già l'acerrima arte dantesca aveva scolpito figure di tutto tondo, girato grandi ossature umane in attitudini di sdegno solitario, staccato d'ogni banda e fissato in piedestallo la prestanza dell'Eretico disceso da Catilina; ed esso l'artiere grifagno dalla gota macra aveva anco gittato di bronzi, nel più tristo fuoco delle passioni civiche, la sua propria statua e sollevàtala di contro alla Città e al Fato, visibile per sempre sul folto dei secoli come le torri di Dite rosse nella notte infernale.
Il Poema per lui composto era il più duro atto di volontà che compiere si potesse in terra da un eroe rimasto solo con gli Elementi e con i suoi Pensieri. Le due mani della creatura terrestre fatta a imagine della Divina Mente non avevano mai operato nel tempo medesimo un prodigio duplice con tal fermezza. Come il venerando restauratore dell'Impero occidentale e liberator della Chiesa, l'alunno di Vergilio reggeva nell'una mano un mondo chiuso e crociato ma nell'altra non la verga dell'oro, sì bene la chiave protesa ad aprir la porta di un mondo caldo di natività urgenti. Quel tirannico spirito, cui fu bello aversi fatta parte per sé stesso, annunciava l'avvento delle volontà singolari, l'esaltazione della virtù soverchiatrice, l'amore effrenato del predominio e della gloria. Come quel suo magnanimo Uberti dalla cintola in su fuor dell'avello roggio, così dalla fornace scoperchiata degli odii cittadini cominciavano a drizzarsi col petto e con la fronte i dominatori.
Pareva che, nel suolo già calpesto dalla Lupa e sorvolato dall'Aquila marzia, imbevute di sangue le radici innumerevoli delle genti fossero per produrre alla cima dell'arbore umana fiori più larghi, frutti più pesanti. Per ovunque apparivano anime spaziose, ardue stature, volti d'aspro risalto. La Tirannide e la Libertà si combattevano con l'unghie e coi rostri, entrambi della razza di Anteo giganteggiando ché, atterrate, ribalzavano con furor novello; e aveano fatto voto di ricementar torri e palagi l'una col sangue dell'altra come quell'antico di murar suo tempio con cranii d'uomini. Nella vicenda degli insediamenti e degli abbattimenti, delle congiure e dei riscatti, delle cacciate e dei racquisti, le virtù si moltiplicavano, il nerbo del braccio e dell'ingegno s'accresceva ognora più di possa e di destrezza, la gioia selvaggia di vincere o di morire ampliava il torace cui pareva angusto il giaco.
Forme di vita politica variissime si creavano, alternandosi, intricandosi, soprapponendosi. Appetivano la novità i popoli come le greggi il sale. Frequenti come le violenze erano le dedizioni. Uguccione riceveva Pisa in dono, prendeva Lucca per forza. In breve giro di tempo Firenze offeriva sé a Roberto d'Angiò, al Duca di Calabria, a Gualtieri di Brenna; poi di sùbito si rivendicava in libertà, traeva i grandi dal palagio, rifermava sopra loro gli ordini di giustizia, dava la signoria alle ventuna capitudini dell'arte, in poco più d'un anno mutava quattro stati di reggimento, per tante rivolture passava dalla saviezza del Re da sermone alla mattezza di Messer Andrea bestia. Ma il cittadino costretto a vivere così tra tirannia e stato franco superava in durizia il ferro battuto tra incudine e martello. E se i serragli e le guernigioni di logge e di torri in piazza in crocicchio e in capo di ponte mettevano a pruova ogni ardire e ogni astuzia, l'esilio esaltava la volontà eroica in supremo: l'esilio che già del provvido Priore di Parte Bianca aveva fatto l'Ulisse cristiano, meravigliosamente avido di conoscenza, solo veleggiante su l'oceano d'Eternità.
Or, costituite le Signorìe, si riaccendeva l'amor del vivere ornato. I vincitori, detersi dall'eccidio e assisi, accoglievano con umanità la Poesia e l'Eloquenza ospiti in toga aulica o in saio volgare. Pareva che Federico di Svevia risuscitasse ai Ghibellini esempio di cortesia cavalleresca. Già il Polentano amico di Dante aveva composto suoi dolci sonetti; or di mordere anco in rima dilettavasi Castruccio dalla rossa capelliera. Già Franceschino Malaspina aveva nominato il fosco fuoruscito procurator di pace al Vescovo di Luni; or Giovanni Visconti e il secondo Galeazzo commettevano ambascerie solenni a Francesco Petrarca. E il nato di gente nuova, con la scorta dei cavalieri colonnesi, recando tra le salmerie la porpora regia donatagli da Re Roberto, entrava trionfalmente in Roma vedova.

II.

Roma pativa tutti i mali, quasi che sopra la Donna dei regni si fossero abbattute le desolazioni e abominazioni annunciate dal ruggito dei profeti alle città di Giuda stese nella vergogna. Distrutta la magnificenza della sua forza; cadute a terra le statue della sua gloria; la fame e la strage indizii della vita rimasta nell'immensa ruina. Il lamento che la diserta faceva in sul limo del suo fiume non era udito dal Pontefice là nella ventosa Avignone intento a stimar con bilancia d'orafo se ogni fiorini otto gli dessero il peso legittimo di una oncia d'oro.
Miserabile e formidabile l'aspetto dell'Urbe quale si rispecchiò negli occhi ceruli del settimo Arrigo giunto alla Porta del Popolo con sì ricco sogno e sì scarso arnese. Un drama più grande che quello cotidiano delle fazioni furenti vi si svolgeva espresso dalle pietre e dal suolo. La funebre voracità dell'Agro, non placata da tanto pasto secolare, pareva che stesse per inghiottire i Fori i Templi i Teatri gli Archi le Terme, tutti i testimonii venerandi che la Republica e l'Imperio con sì stabile fondamento avevan radicato nel tufo primiero.
La bellezza dell'Urbe si faceva sotterranea, discendendo a poco a poco nel silenzio degli asfodeli verso i Mani degli Scipioni e de' Cesari che l'avean creata a imagine della magnanimità loro. Gli sterpeti le vigne gli orti le paludi occupavano i luoghi tra ruina e ruina. Ma, come più andavan profondandosi nel lento seppellimento le moli illustri, la superbia dei nuovi ottimati soprapponeva al marmo scolpito la muraglia rozza di cotto e riconquistava il cielo con le torri inespugnabili che parevano i nudi fantasmi dei colossi antichi. Un'orrida città di guerra cresceva, irta di offese, sul composto lineamento di quella che aveva potuto acquietarsi contemplando l'orbe trionfato. Coi ruderi del Teatro di Pompeo costruivano la rocca gli Orsini; i Pierleoni con quelli del Teatro di Marcello. I Margani e gli Stazii si afforzavano nel Circo Flaminio, i Millini ed i Sanguigni nello Stadio di Domiziano.
Poggiata al fulvo travertino del Colosseo la cittadella dei Frangipani comprendeva in una cintura di torri gli Archi di Giano, di Tito, di Costantino, il Septizonio e gli altri palagi imperiali, e le vestigia sante della Roma quadrata, e forse i santuarii dedicati al culto dei primi Eroi indigeti. Tenevano i Colonnesi il Mausoleo d'Augusto e tutta la valle tra il Monte Pincio e il Quirinale; i Savelli tutto l'Aventino; i Caetani parte dell'Isola Tiberina e il battifolle inalzato intorno al sepolcro di Cecilia Metella, ch'ebbe nome Capo-di-bove dai bucranii, ove il saettame era accumulato intorno al sarcofago illeso della sposa di Crasso.
Rivale in potenza all'opere dei Frangipani la cittadella dei Conti abbracciava i Fori d'Augusto di Nerva e di Cesare ergendo incontro al Campidoglio sopra una base di macigni ciclopici la massa tetragona della torre mastra murata di cotto in tre ripiani con guernimento di merli bertesche e piombatoi, l'altissimo dei propugnacoli dominatore di tutta la cerchia, degno d'esser comparato per robustezza austera alle più valide arci della Republica. In tal selva nemica entrava Arrigo, attonito, coi suoi duemila cavalli e coi tre cardinali legati che dovevano incoronarlo. E dal maggio al giugno combatté di torre in torre, di bastita in bastita, di serraglio in serraglio, vanamente, per giungere al Vaticano che Giovanni d'Acaia e gli ottimati guelfi gli contendevano. Per giorni e giorni il sangue arrossò le vie, il fuoco arse le case, i cumuli degli uccisi abbarrarono i ponti: la chiericìa in piastra e maglia con spuntoni e corsesche armeggiò nei crocicchi; il vescovo di Liegi fu fatto prigione, gettato vivo in groppa d'un giannetto come soma, ammazzato dalla ferocia d'un balestriere di Catalogna; i palagi degli Orsini in Campo de' Fiori furono messi a sacco; i frati francescani diedero il convento di Araceli in potere dei Bavari. Ma il Castel Sant'Angelo resisteva ad ogni assalto, precludendo la via al limitare degli Apostoli. Stanco e scorato, il Re chiese ai Cardinali che lo coronassero in Laterano. Quando alfine, dopo la cerimonia non lieta, bianco vestito e in zazzera discese dal caval bianco e sedette a convito su l'Aventino, egli udì gazzarra che le masnade orsine menavano a piè del colle, vide bolzoni e quadrella volar su le mense tratti dalle balestre guelfe. E certo ripensò con mestizia quel globo aureo, insegna dell'Impero, da Benedetto VIII offerto a un altro Arrigo; ch'era pien di cenere.

III.

Gran tempo di poi corse voce che, compita l'incoronazione in Laterano, all'Imperatore biondo troppo dolesse di partirsi da Roma senz'aver pur veduto la faccia della Casa di Pietro, e ch'ei ricorresse all'astuzia del travestimento per appagare il suo desiderio pio, essendo il quartiere guardato dalle milizie del principe d'Acaia e tutti asserragliati gli sbocchi circostanti. Corse voce che in abito di romeo, condotto da un paesano pratico delle vie, ei s'ardisse di passare per steccati fossi e barre ingannando i presidii e riescisse così a penetrare nella Basilica; ma che non tanto fosse coperto l'inganno da non destar qualche sospetto nei più occhiuti. Onde subitamente si levò rumore tra le genti guelfe, e fu fatta custodia in ogni capo di strada e ad ogni porta, e da banditori messe furono grossissime taglie addosso al Tedesco.
Il quale ebbe modo di ridursi col suo compagno alla taverna d'un tavernaio nominato Rienzo, su la ripa del Tevere fra le mulina, dietro San Tomaso dei Cenci, sotto la Sinagoga. E quivi passò la notte, e poi più giorni si rimase celato fingendosi infermo, sinché i nemici non deposero il sospetto e non rallentarono la vigilanza. E quivi era una fresca donna e piacente chiamata Maddalena, moglie dell'oste, che lavava panni a prezzo e portava acqua alle case; e lontano era in quei giorni il marito. E nella primavera dell'anno vegnente nacque di costei un figliuol maschio; cui fu imposto il nome di Nicolaio. E poiché, partitosi l'Imperatore, il buon Latino che aveva condotto il romeo alla taverna non si tenne dal cianciare, l'acquaiuola conobbe d'aver dato in luce un bastardo di sangue imperiale.

IV.

Di questa favola si valse Cola negli anni della vanagloria quando mirava a rendere perpetua la sua signoria; ma, in verità, egli nacque d'infima plebe né mai poté cancellare da sé il marchio plebeo, ché anzi ne restò impresso ogni suo atto insino alla morte. E, mentre vagiva nella culla quegli che doveva esperimentar poi così crudamente la volubilità delle sorti e la fugacità dei sogni, l'Imperatore mòssosi di Pisa per andare a oste contro l'Angioino scendeva da cavallo a Buonconvento e coricato sul suo letto da campo rendeva lo spirito grave di grandi disegni e di più grandi speranze, là nelle lugubri maremme fumide di febbre sotto l'ardore d'agosto, veleggiando invano sul mare etrusco le settanta galee di Lamba Doria.
Visse Cola l'infanzia triste nella casa tiberina, su i ginocchi della madre che sfioriva in lento male, tra i vapori del fiume limoso, sbigottendo egli allo strepito delle risse e al baccano delle gozzoviglie onde risonava la taverna di Rienzo. E, quando la madre passò di vita, fu egli mandato a stare in Anagni con un suo parente contadino; dove rimase fino al ventesimo anno, incolto e solitario ma già agitato dal flutto delle sue passioni e delle sue imaginazioni, in quella terra che serbava il ricordo dell'oltraggio di Sciarra e del cruccio di Bonifacio. Qual fuoco ardeva dentro dalla cerchia, laggiù, in fondo alla pianura deserta che chiudevano i Monti Prenestini e i Laziali accesi dal vespro? Sciarra Colonna, colui che aveva osato trascinar pel braccio il Caetani vacillante sotto il peso della tiara, non era stato eletto capitano del Popolo e condottiero delle milizie? Di tratto in tratto giungevano le novelle. I Romani avevano cacciato i grandi, riformato la città, chiamato Sciarra che la reggesse col consiglio di cinquantadue popolani, mandato ambasciatori a papa Giovanni in Avignone minacciandolo che, s'ei non fosse tornato con la corte, avrebber ricevuto a signore il Bavaro. Tornava dunque dall'esilio il papa? Non tornava. Cinque galee di Genovesi per mandato del re Roberto erano alla foce del Tevere acciocché non entrasse vettovaglia in città per la via del mare. Rotti erano i trattati? Il principe Giovanni e il cardinal degli Orsini con messer Napoleone avevano rotto le mura del giardino di San Pietro nella Città Leonina, per entrare con fanti e cavalli. Il popolo aveva sonato a stormo la campana di Campidoglio, e alle sbarre fatte gran battaglia s'era combattuta, e il principe e il legato s'eran posti in salvo con danno e disonore. E il Bavaro non veniva? Volevano dargli la signoria senza patti? Sciarra Colonna l'aveva chiamato. Ora passava la Maremma con grande affanno e tempo crudo e scarsità di grasce. Giungeva a Viterbo, si moveva per alla volta di Roma, aveva seco Castruccio duca di Lucca con molta moneta. Oh popolo semplice! I cinquantadue buoni uomini disputavano su i patti; e Sciarra in segreto ordinava e trattava la venuta di Ludovico, che lasciasse ogni indugio e si mettesse in cammino. E, quando gli ambasciatori furono giunti a Viterbo, commise il Bavaro la risposta dell'ambasciata a Castruccio; il quale fece sonare tutte le trombe nel campo e mandò bando che ogni uomo cavalcasse verso Roma; e questa - disse agli ambasciatori di Roma - è la risposta del signore Imperadore. Qual prezzo del negozio aveva egli avuto, Sciarra il capitano? E Jacopo Savelli? e Tebaldo?
Giungevano così a quando a quando le faville del fuoco civico fin là su i massi di travertino tagliati e commessi dall'antichissima forza degli Ernici. E il giovinetto Cola interrogava il suo parente canuto, ricercava i luoghi segnati dal sacrilegio, ritrovava le tracce dell'incendio. Di quivi il Colonna una mattina per tempo era entrato in Anagni a cavallo con le insegne e le bandiere del re di Francia gridando: «Muoia papa Bonifazio!» Quivi il magnanimo vecchio, sentendo il rumore e vedendosi abbandonato da tutti i cardinali e i famigliari, aveva detto: «Dacché per tradimento mi conviene morire, almeno voglio morire come papa.» E s'era posto a sedere su la sedia papale parato dell'ammanto di Pietro, cinto della Corona di Costantino, con in pugno le chiavi e la croce. E Sciarra lo aveva schernito, minacciato, manomesso, nel palagio dato alle fiamme e alla cupidigia dei saccheggiatori. Il sacrilego non era quegli che, in nome del popolo di Roma, ora incoronava il Bavaro e la sua donna, con rinnovata temerità? Per la prima volta un imperatore cristiano si faceva consacrare non dal papa o dal legato ma da un deputato del popolo: evento memorabile. E tutta la città levava grido: «Viva il nostro signore e re dei Romani!» E s'era piena di cherici e prelati e frati di tutti gli ordini, ribelli e scismatici di Santa Chiesa; e si spandeva nell'aria gran lezzo di eresìa, e non più si cantava officio sacro né sonava campana, e il sudario di Cristo era stato nascosto da un canonico di San Pietro perché non fosse offeso dallo sguardo degli scomunicati. Quali tempi si approssimavano? Il bello e avventuroso Castruccio nominato senatore di Roma, nel prendere l'officio con grandissima pompa, s'era messa indosso una toga di sciamito cremisi con lettere dinanzi che dicevano: «Egli è quel che Dio vuole,» e di dietro: «E' sarà quel che Dio vorrà.»

V.

L'avvenire appariva come una nube di procella. Il Bavaro aveva gran fame d'oro: dopo aver tolto con martirio la signoria di Viterbo e il tesoro a Salvestro de' Gatti, fece in Roma una imposta di trentamila fiorini, non senza indegnazione del Popolo che dalla presenza dell'imperatore s'attendeva larghezze e non carichi. Appresso, fece Parlamento nella Piazza di San Pietro; vestito di porpora, col globo e la verga, comparve solennemente su i grandi pergami eretti dinanzi alla chiesa; e, al conspetto della moltitudine silenziosa, con una molto lunga sentenza rimosse il prete Jacopo di Caorsa, il quale si faceva chiamare papa Giovanni ventiduesimo, dall'officio del papato e da ogni officio e beneficio temporale e spirituale; in fine promise che fra pochi giorni provvederebbe di dar buono pastore ai Cristiani. E ricongregò in fatti, poco dopo, il popolo a parlamento nel luogo medesimo; e fece venire dinanzi a sé un frate minore chiamato Pietro da Corvara; e lo mostrò ai Romani, e domandò se lo volessero per pontefice; ed eglino risposero gridando, che sì. E l'eletto ebbe nome Nicola quinto, ed entrò in chiesa trionfalmente. E poco dopo ancóra, il dì della Pentecoste, il Bavaro cavalcò verso il Vaticano, all'incontro dell'antipapa e della sua corte di cardinali scismatici; e, smontato in chiesa, mise a quel suo frate minorita la berretta scarlatta e da quello fu egli novamente coronato e confermato imperatore. Il popolo ondeggiava fra l'allegrezza delle pompe e l'orrore delle profanazioni. Ma quando, stretto dalla necessità della moneta e dalle continue scorrerie delle genti napoletane nella Campagna, Ludovico deliberò di partirsi col suo antipapa e i suoi cardinali, l'ira popolare insorse con grande strepito sì che la dipartita fu obbrobriosa come una fuga. La plebe scagliava sassi e scherni gridando: «Muoiano gli scomunicati e viva la santa Chiesa!» La notte medesima, senza contrasto, la città fu riformata all'obbedienza dell'Avignonese e dell'Angioino. Roma abiurò la fede data all'imperatore e all'antipapa, riconobbe per suo solo signore Giovanni XXII, rinunciò ad ogni diritto nella elezione pontificia e imperiale. La morte risparmiò al vecchio Sciarra Colonna l'onta dell'abiura o la pena del bando; ma Jacopo Savelli e Tebaldo cercaron grazia presso il papa e la trovarono.
Tutto si dileguò come fumo. Dalla breve illusione della maestà restituita il popolo ricadde nella tristezza dell'abbandono, si ricolcò nella sua miseria, udendo il rombo delle contese che si riaccendevano con più furore fra le torri dei grandi. Quando l'orfano ventenne Cola di Rienzo, spentosi il tavernaio della Regola, tornavasene da Anagni per la via Casilina a quella santa e terribile Roma che più d'una notte gli aveva turbato i sonni nel durissimo letto, s'abbatté in una grande compagnia di penitenti vestiti dell'abito di San Domenico, con sul mantello cilestro una colomba bianca intagliata, che venivano gridando pace e misericordia. E si mescolò con costoro, e seppe ch'eran Lombardi, gentili uomini e rubatori, micidiali e religiosi, loici e mentecatti, chiamati fratelli della colomba, condotti da un frate Venturino bergamasco dell'ordine dei predicatori. E con essi giunse in città, e li vide che si rassegnavano alle chiese e in quelle dinanzi all'altare si spogliavano dalla cintola in su e si flagellavano.
Errò per le vie anguste il contadino, smarritamente, oppresso dai ricordi della lontana infanzia; guardò le torri imbertescate, le case arse e disfatte, i palagi deserti, i chiostri invasi dall'erba e dal bestiame; s'arrestò agli sbocchi sbarrati dalle catene e dai serragli, ai capi dei ponti guardati dalle masnade con pavesi e balestre; fu testimone d'assalti, di ruberie, d'arsioni; udì a sera le laudi dei Battuti che passavano sul sangue e su le macerie a stormi tra il biancheggiare delle colombe intagliate, e ogni stormo con sua croce innanzi cantando. Come il frate da Bergamo congregò il popolo in Campidoglio per predicare la penitenza, confuso nella calca il giovine Cola stette ad ascoltare la predica; e forse per la prima volta, mentre la moltitudine gli mareggiava intorno mossa dalla parola, si risvegliarono confusamente in lui gli spiriti dell'eloquenza. Attentissimo egli era; e notò che i più attenti deridevano il frate a quando a quando cogliendolo in peccato di falso latino.

VI.

Ora appunto l'ottavo Bonifacio, che tuttavia copriva della sua grande ombra la natale Anagni, era stato il fondator vero dello Studio romano; e dalla sua terra appunto aveva egli promulgato la bolla statutaria, poco innanzi il tradimento e la prigionia, ai dottori e agli scolari concedendo una giurisdizione lor propria e la esenzione dalle imposte. E già nobili uomini ornati di tutte lettere, come Anibaldo Anibaldi, Romano Orsini, Egidio Colonna, Iacopo Stefaneschi, avevano interrotto con lo splendore di lor dottrina la notte di barbarie addensata su l'Urbe.
Meraviglioso fu l'ardore del giovine plebeo nell'apprendere dalla viva voce, dalla tradizione, dall'autorità, dalla natura, da sé stesso. Imparò gramatica e retorica; studiò i poeti gli storici gli oratori; conobbe Sallustio, Livio, Cicerone, Seneca, Valerio Massimo; in Boezio e in Simmaco venerò la postrema dignità di Roma, l'amoroso uso della sapienza, la norma compiuta del ben vivere; nei Profeti della Bibbia trovò le imagini di fiamma, le sentenze imperiose, le grandi parole di minaccia di esortazione e di promessa.
Ma dalle ruine s'ebbe egli il più strenuo insegnamento: gli antichi marmi furono i suoi più severi maestri; l'acume delle inscrizioni latine, ch'egli dilucidava, forte gli punse l'animo incitandolo.
Bella e singolare questa giovinezza del figlio di Rienzo, in verità, la più nobile parte di sua vita, consacrata alla ricerca assidua e taciturna, ansiosamente china sopra le testimonianze della virtù prisca, perdutissimamente innamorata di un simulacro marmoreo, come quell'imberbe Astrolabio che nella leggenda demoniaca dona l'anello alla Statua in segno di amor perenne.

VII.

Egli vagava tutto il giorno fra le terme gli archi i colonnati, lungo le mura di Aureliano, sotto gli acquedotti omai aridi, nei deserti spiazzi ingombri di ruderi, diseppellendo le lapidi, liberando dalla crosta dei secoli le lettere incise, raccozzando i frammenti sparsi, nudando i volti delle statue mascherati dall'edera, interpretando le istorie scolpite nei bassi rilievi, leggendo ad alta voce i nomi dei consoli e degli imperatori, evocando in quel cimitero formidabile i fantasmi augusti, mentre gli pareva udire a quando a quando nel vento funebre gli urli della Lupa e i gridi dell'Aquila presaghi della seconda vita di Roma. Col favore del silenzio e della solitudine quel mondo sotterraneo gli si animò nella fantasia così fieramente, ch'egli credette esser divenuto quasi il consanguineo dei liberatori e dei pacificatori quiriti. Gli si affievolì o gli si sfigurò allora nello spirito ossesso la contezza della torbida e perigliosa materia su cui voleva egli imprimere l'imagine del suo sogno inefficace. Assai più rom...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La vita di Cola di Rienzo
  3. Indice dei contenuti
  4. La vita di Cola di Rienzo
  5. PROEMIO DELL'AUTORE
  6. LA VITA DI COLA DI RIENZO
  7. APPROVAZIONI