Memorie da due mondi
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Memorie da due mondi

Storia di Stelita, tra dittature sudamericane e libertà

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Memorie da due mondi

Storia di Stelita, tra dittature sudamericane e libertà

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La vita straordinaria di una donna nata in Cile e vissuta nell’Italia fascista, sfuggita, per un funambolico equilibrio della fortuna, ai massacri della dittatura argentina. Narrata come il lascito di memoria di una formidabile novantenne, la biografia ripercorre la nascita di Stelita a Valparaíso, in Cile, l’infanzia nell’Italia del regime tra un collegio di suore e l’altro, l’università a Urbino durante la guerra, il matrimonio in Inghilterra con un soldato polacco, l’approdo nell’Argentina peronista degli anni Cinquanta. Un percorso itinerante che sembra fermarsi nella grande Buenos Aires, ma che sarà squarciato dalla repressione del regime militare. La persecuzione dei sacerdoti terzomondisti e la scomparsa di amici e persone a lei molto vicini la portano a tentare allo stremo una fuga che si rivelerà tanto surreale quanto salvifica, verso, per ironia della sorte, il Cile del dittatore Augusto Pinochet. Lo straniamento vissuto in Cile la condurrà ancora in Italia e poi verso Cuba, Messico, Panama, a vivere insieme a famiglie di esuli argentini, militanti del movimento Montoneros. Mentre in Argentina torna la democrazia, Stelita è di nuovo in Italia, prima di tornare per l’ultima volta dove tutto era cominciato, in Cile. Una storia straordinaria raccontata in punta di penna, omaggio, oltre che alla sua figura anticonvenzionale di donna, ai desaparecidos di tutte le Argentine.
“La storia personale della protagonista di questo libro è un chiaro riflesso del fatto che il lavoro per la Memoria, la Verità e la Giustizia non conosce frontiere”. (Estela de Carlotto)
“La vita di Stelita è stata avventurosa, intrigante, ricca di episodi e avvenimenti. Ma con tanta sofferenza e resistenza, per vicende storiche, politiche e personali di cui è stata protagonista”. (Riccardo Noury)
“Di Stelita si apprezzava il calore e la cordialità della comunicazione; il garbo, finezza e gentilezza di un’antica educazione; la vivacità e apertura intellettuali; l’impegno politico e umanitario; la profondità spirituale”. (Maria Cristina Bartolomei)

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788868613037
Argomento
Storia

​Studio matto e amatissimo

“Chi si rifiuta di guardare il cielo,
lo trova riflesso nel fango della strada”
(Isacco Sciaky)




Settembre del 1938 fu il mese dei grandi pianti per non essere riuscita a entrare all’Università Cattolica di Milano. Oggi potrebbe sembrare la comune storia di una giovane che si rammarica per non essere riuscita a superare un esame di ammissione, ma nell’Italia del 1938 studiare all’università non era affatto comune, soprattutto per le giovani donne.
Durante il fascismo le donne dovevano accontentarsi di vivere secondo lo slogan coniato da Mussolini “obbedire, badare alla casa, mettere al mondo figli e portare le corna”, in sostanza accettare di essere relegate nell’ombra, in un mondo fatto di e per uomini. La donna era e doveva essere “l’angelo del focolare”, madre e procreatrice di sudditi dell’impero. Un ruolo funzionale agli interessi dello Stato, enfatizzato quasi ossessivamente dal regime, che assegnava alle donne una precisa missione nella società. Ogni forma di emancipazione da quel ruolo era del tutto inconcepibile o semplicemente innaturale. La natalità veniva favorita con premi in denaro e agevolazioni economiche per le famiglie più numerose. Le madri con più di sette figli ricevevano la medaglia d’onore, mentre i giovani maschi con più di 25 anni non sposati, in base all’età, dovevano pagare la “tassa sui celibi”. Alla fine degli anni Trenta, nel periodo “imperiale” del regime, così si legge in un manuale di igiene: “Lo scopo della vita di ogni donna è il figlio. […] La sua maternità psichica e fisica non ha che questo unico scopo”.
Tuttavia già dall’Italia post-unitaria non mancavano riferimenti legislativi e religiosi in questo senso, dal diritto di famiglia all’enciclica Arcanum 1. Nel solco della tradizione si inserisce la riforma della scuola promossa da Giovanni Gentile 2, con una normativa espressamente anti-femminile, basata su due princìpi: plasmare le menti di tutti i giovani e le giovani all’ideologia dello Stato fascista secondo la naturale predisposizione del genere e selezionare una élite di giovani maschi provenienti dalle famiglie più agiate, cui riservare un’istruzione superiore. La futura classe dirigente fascista.
I percorsi educativi erano dunque nettamente discriminatori, separati per maschi e femmine. Per l’educazione femminile furono predisposte scuole superiori per educatrici dell’infanzia e assistenti sociali, corsi di economia domestica e magistrali. Accanto al Magistrale venne istituito un corso triennale, seguito da un magistero femminile, che preparava le donne all’insegnamento nelle scuole materne e al governo della casa. Si trattava di scuole che avrebbero condotto le giovani al posto previsto per loro nella società e soprattutto nella famiglia. Future spose esemplari e madri per i propri figli o, per le più istruite, anche buone insegnanti per altri figli. La figura della maestra proseguiva nella scuola pubblica quel ruolo “materno” che all’interno delle mura domestiche veniva svolto da un’altra donna. La riforma produsse un maggior numero di insegnanti, di commesse e di operaie specializzate e un aumento del tasso di alfabetizzazione femminile. Le donne che riuscivano ad accedere all’università erano comunque una ristretta minoranza 3.
Dopo le scuole magistrali, Stelita avrebbe dovuto proseguire all’università con il Magistero, facoltà presente da qualche anno alla Cattolica di Milano. Esclusa però quest’opzione, si apriva un punto di domanda sul suo futuro. Il momento di incertezza venne superato grazie a una cugina che informò Stelita dell’apertura di una nuova facoltà di Magistero a Urbino.
Le vicende che avevano accompagnato l’istituzione della nuova facoltà erano abbastanza curiose, legate a un aneddoto che riguardava il Duce in persona. Durante un viaggio a Riccione, pare che Mussolini si fosse fermato a pranzare al Furlo, non lontano da Urbino, dove era stato avvicinato da alcuni studenti di Legge che, facendosi coraggio, gli avevano chiesto di istituire la facoltà di Magistero all’Università di Urbino. E così, con i tempi fulminei delle dittature, quei giovani erano stati presto accontentati (la facoltà fu istituita con Regio decreto del 27 ottobre 1937). Comunque fossero andate realmente le cose, nel 1938 a Urbino erano stati aperti gli esami di ammissione.
Per prepararsi meglio, Stelita prese alcune lezioni private. Il professore aveva una tecnica molto efficace: durante le lezioni spiegava la storia della letteratura e poi chiedeva di ripetere tutto con dei riassunti. Dopo dieci o dodici lezioni, si sentì preparatissima per il concorso, tanto che non solo fu ammessa, ma si classificò terza.
Si aprì così un nuovo capitolo nella sua vita. Stelita avrebbe non solo amato Urbino, ma le persone incontrate lì avrebbero rappresentato i ricordi più belli della sua giovinezza in Italia.
Ancora era presto per fare viaggi da sola. La zia Amira accompagnò la nipote in treno fino a Pesaro e poi da lì in pullman fino a Urbino. Possiamo solo immaginare quanta sorpresa avesse suscitato in lei la nuova piccola città, gemma dell’arte rinascimentale, così diversa da Milano.
L’apertura della facoltà di Magistero aveva portato a Urbino anche il giovane letterato Carlo Bo (1911-2001) che a meno di trent’anni compiuti, aveva ottenuto un incarico nella neonata facoltà. Nonostante le prime titubanze, Bo rimase parecchi anni nella città marchigiana, tanto da essere rettore dell’ateneo per cinquantaquattro anni, oltre che suo appassionato conoscitore. Nel 2003 l’ateneo gli è stato intitolato. Al suo arrivo lo avevano preoccupato i precedenti dell’università, che pur avendo una storia molto ricca fin dalla sua fondazione, nel 1506, aveva spesso dovuto affrontare difficili situazioni finanziarie, tanto da rischiare la soppressione negli anni Venti, poi scongiurata per l’intervento del ministro Gentile.
Bo raccontò in seguito di essersi sentito come il tenente Drogo di Buzzati distaccato in una guarnigione di frontiera, tentato dalla fuga. Aveva pensato che l’Università di Urbino fosse un luogo di transito, dove i professori, non appena vinto il concorso, se ne sarebbero andati. Ma un amico lo aveva invitato a resistere, ricordandogli che con la nuova facoltà di Magistero sarebbero arrivate un sacco di belle ragazze…

Stelita, che aveva passato gran parte della sua vita in collegio, a Urbino non si sentì in una terra desolata come il giovane Bo, anzi si divertì moltissimo, come ancora ricordava con allegria.
L’alloggio scelto fu un altro pensionato femminile gestito da suore, le Maestre Pie Venerini. Il pensionato era l’antica casa di una contessa, con stanze molto spaziose. All’ultimo piano, nel solaio erano state ricavate due stanze, una singola più piccola e una più grande per ospitare due studentesse. Una stanza con soli due letti, una vera rarità. Qui Stelita divideva la camera con Giuliana, una compagna di scuola di origine genovese, chiamata “Giugi”. Al mattino la prima cosa che faceva Giugi era accendere il grammofono. Stelita si svegliava ogni giorno vedendola ballare. Grazie a loro, il sottotetto era tutt’altro che buio e silenzioso.
Le giornate erano scandite da ritmi regolari ma l’atmosfera non era così austera come lo era stata nei collegi di Como e Desenzano, si respirava più libertà. Durante il giorno Stelita seguiva le lezioni e studiava con le amiche, la sera rientrava al pensionato, dove l’orario da rispettare tassativamente erano le otto meno un quarto. Solo una volta venne loro permesso di rientrare più tardi, per partecipare a un convegno religioso.
Gran parte della giornata si svolgeva dunque fuori dal pensionato e nei pomeriggi di festa si andava a ballare al circolo. Non sembrava nemmeno una vita da collegio di suore, se non fosse che ogni sera, alle otto meno un quarto, c’era appunto il rosario nella cappella proprio sotto la stanza di Stelita e Giuliana. Loro due spesso riuscivano a “saltare” il rosario, cui preferivano il grammofono. Il fatto però non passava sempre inosservato, tanto che la grassoccia suor Anna con il fiatone faceva le scale fino al solaio per richiamarle al loro giornaliero momento spirituale «Stelita, Giugi!». La fatica di suor Anna però non sempre veniva ricompensata e le ragazze si godevano l’innocente trasgressione.
La loro stanza aveva una piccola finestra che dava su una stradina laterale. A volte là sotto si presentavano degli ammiratori, come li chiamava Stelita, a cantare serenate. Urbino era proprio una favola. Non solo la scuola, la città, la musica, anche l’amore si stava affacciando per davvero.
Nel gennaio del ‘39 incominciarono le lezioni. Lia, una ragazza di Forlì, fu la prima compagna di studi. L’apertura della facoltà di Magistero aveva portato a Urbino giovani da tutta Italia. Stelita ricordava con precisione i nomi dei suoi compagni sempre associati alla città di origine: Giuliana di Genova, Lia di Forlì, eccetera.
Del primissimo giorno di lezione, Stelita ricordava come Lia avesse notato un ragazzo, Beniamino di Lecce, e come avesse detto: «Quello lo sposo». Il fatto sorprendente era stato che si sarebbero sposati per davvero. «Lia e Beniamino si sono amati moltissimo!», ricordava Stelita.
E anche per lei cominciarono i primi innamoramenti. Domenico abitava vicino a Urbino e studiava Legge ma era destinato da tempo a una ragazza del suo paese, la storia non poteva continuare. Poi conobbe Mario di Venezia. Si incontravano all’università, studiavano insieme. Divennero molto amici, ma l’amicizia con Mario voleva essere qualcosa di più importante, tanto che lui andò a Milano a presentarsi allo zio Nino. Stelita si era fidanzata.

In questo periodo la sua vita girava tutto intorno all’ambiente universitario. Lì passava gran parte delle giornate, lì c’erano le amiche, il fidanzato e, con sempre maggiore forza magnetica, i professori. Piena del suo attivismo giovanile, Stelita era avida di sapere, di capire nuove cose. Dai suoi insegnanti sentiva di imparare continuamente, erano fonti preziose da cui attingere. Inconsapevolmente, è probabile che proiettasse su di loro il bisogno di figure adulte che dessero spiegazioni e risposte là dove c’erano delle domande, tenui sostituti dei genitori che non aveva avuto.

Isacco Sciaky 4 era il suo professore di filosofia. Di famiglia ebraica sefardita, Sciaky aveva fortuitamente lasciato Salonicco poco più che ventenne nel 1917, prima che il quartiere ebraico della città fosse colpito da un drammatico incendio. Prima di arrivare a Urbino, Sciaky era stato redattore capo del settimanale Israel e collaboratore di diverse riviste filosofiche. Da circa dieci anni si era dedicato all’insegnamento, sia come professore presso licei italiani, principalmente a Firenze, sia all’estero, nelle scuole italiane di Istanbul e Alessandria d’Egitto. Quando approda all’ateneo urbinate, il professore che incontra Stelita è un intellettuale maturo, studioso appassionato dell’identità ebraica, oltre che uno dei principali esponenti in Italia del movimento sionista revisionista, corrente di destra del sionismo 5. Stelita lo definiva “un idealista gentiliano”, per l’ammirazione di Sciaky verso le tesi filosofiche e pedagogiche di Giovanni Gentile, filosofo e ministro dell’Istruzione nei primi due anni di regime fascista, che Sciaky chiamava “il Maestro”.
Stelita aveva potuto ascoltare il pensiero di Sciaky durante alcune passeggiate insieme al professore e a Maria, una studentessa di Sassari. Quelle camminate incorniciate dalle colline marchigiane la facevano tornare alle estati di qualche anno prima, nei dintorni di Luino con le suore del collegio. Stelita ricordava come in un’aura meravigliosa quella sorta di lezioni a cielo aperto, sia per le conversazioni erudite che per la bellezza del paesaggio.
Quando Maria tornò in Sardegna perché a Cagliari avevano aperto una nuova facoltà di Magistero, le due giovani si scrissero lettere giornaliere parlando di filosofia e ricordando quell’estate trascorsa con Sciaky, di cui si erano sentite uditrici privilegiate.
Tuttavia il regime fascista, giunto al debito più amaro verso l’asse Roma-Berlino, stava per cambiare per sempre il destino di Sciaky, come dell’intera comunità ebraica italiana.
Sciaky, che aveva pubblicamente sostenuto la politica corporativista del fascismo 6 e che si era spinto nel tentativo di un colloquio con Mussolini per caldeggiare la causa dello Stato di Israele, stava per essere allontanato dall’Italia proprio perché ebreo. Nell’autunno del ‘38 il regime promulgava le leggi razziali, ispirate a quelle naziste del 1935 e precedute dalla pubblicazione del Manifesto della razza firmato da alcuni dei più importanti scienziati italiani del tempo. In virtù dei provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista (Regio Decreto Legge del 5 settembre 1938) gli ebrei venivano esclusi da qualsiasi ufficio pubblico, erano vietati i matrimoni misti e, ciò che colpì Sciaky in prima persona, subivano l’espulsione da tutte le università e le scuole pubbliche del Regno – sia i docenti che gli studenti – con soddisfazione del ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai, firmatario dello sciagurato manifesto.
La libertà delle università, già ristretta dalla riforma Gentile e umiliata dal giuramento di fedeltà al fascismo imposto ai professori nel 1931 7, nel ‘38 subì l’ennesimo colpo. La cultura italiana, impoverita dall’ottusa ricerca di una sorta di “autarchia” anche culturale, nemica acerrima dei dialetti e delle lingue straniere, ora si privava deliberatamente del pensiero di illustri intellettuali e studiosi.
Albert Einstein, già Nobel per la fisica – che si narra il Duce non avesse voluto nelle università italiane 8 –, alla notizia del giuramento aveva inviato una lettera al ministro della Giustizia, Alfredo Rocco. Lo scienziato aveva invitato il ministro a parlare con Mussolini per convincerlo a risparmiare dall’umiliazione gli intellettuali italiani, facendo appello al bene dello sviluppo intellettuale europeo, alla libertà di pensiero e di insegnamento, al principio della ricerca della verità 9. Il suo appello era stato inascoltato (nel 1933 Einstein era già negli Stati Uniti e nel ‘38 dovette rassegnare le dimissioni dall’Accademia dei Lincei).
Molti scienziati, come il fisico Enrico Fermi, premio Nobel per la Fisica nel 1938, sposato con un’ebrea, furono costretti all’esilio.
Tuttavia la “pulizia etnica” all’interno delle scuole e delle università era solo l’inizio del crescendo di barbarie che avrebbe colpito la comunità ebraica italiana. Antisemitismo divenne parola d’ordine anche in Italia.
La legislazione razziale giungeva inattesa, e in un primo momento sottovalutata, anche nella piccola comunità ebraica di Urbino, costituita da poche decine di persone ben integrate nel tessuto cittadino, dove nell’elenco degli iscritti al locale Partito nazionale fascista figurava anche qualche nome ebraico 10.
Anche se inizialmente all’Università di Urbino la vita per gli ebrei era stata più semplice che in altri posti, la stretta del regime si fece sentire, raccontava Stelita. Oltre a Sciaky, anche il sociologo Renato Treves e lo psicanalista Cesare Musatti, già allontanato da Padova, dovettero lasciare l’ateneo. Il rettore Bo fu testimone diretto e amareggiato della cacciata di Musatti 11.
Costretto a lasciare l’insegnamento a Urbino, Sciaky tornò a Firenze. Espulso anche dall’ateneo fiorentino, dove era libero docente di filosofia 12, tornò a insegnare nel liceo ebraico della città.
Le leggi discriminatorie prevedevano provvedimenti specifici contro gli ebrei stranieri, tra i quali l’obbligo di lasciare il Regno per gli ebrei nati fuori dall’Italia e residenti nei territori del Regno dal 1919 13. In un ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Memorie da due mondi
  3. Indice dei contenuti
  4. ​Prefazione
  5. ​Introduzione
  6. ​Ritorno al Cile
  7. ​Siempre adelante
  8. ​Prologo
  9. ​Infanzia di collegio
  10. ​Studio matto e amatissimo
  11. ​Josef il polacco
  12. ​Gli inizi argentini
  13. ​La nuova chiesa di padre Adur
  14. ​Sessantotto argentino
  15. ​Montoneros
  16. Verso il 24 marzo
  17. ​Guerra sporca
  18. ​“Postina dei Montoneros”
  19. Nel Cile di Pinochet
  20. ​Intermezzo italiano
  21. ​Argentina campione del mondo
  22. ​Tata clandestina
  23. ​La fine della “controffensiva”
  24. ​Al Cile
  25. ​Tornando alla Manuelita
  26. ​Postfazione
  27. ​Appendice
  28. ​Cronologia essenziale
  29. Bibliografia
  30. ​Ringraziamenti
  31. Associazione 24 marzo
  32. Collana Grandangolo