Dragan l'imperdonabile
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Dragan l'imperdonabile

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Dragan l'imperdonabile

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Una donna italiana ferita da un amore sbagliato e un serbo di Bosnia dal passato sconosciuto, che il destino fa incrociare, sono i protagonisti di un romanzo storico dai forti connotati psicologici ambientato agli inizi degli anni Novanta nella provincia veneta.
Nella vita solitaria di Giada, cassiera di provincia che cerca sicurezza nel dialogo con una bambina generata dalla sua fantasia, entra come un fulmine il dramma della guerra in Bosnia Erzegovina. Dragan, giovane ex insegnante di Višegrad, fuggito in Italia per ragioni misteriose, si arrabatta come può nella precarietà. Tra lui e Giada viene a stabilirsi uno strano rapporto e il serbo-bosniaco, spirito pratico, si rivela una specie di angelo custode al servizio della ragazza. Fino a quando…
Pagine tese, dai toni pungenti, alternate a sprazzi di delicata introspezione e paesaggi dell'anima ci avvicinano alla realtà di un conflitto vicino nel tempo, largamente incompreso, che rimanda alla questione irrisolta sulla natura contraddittoria dell'essere umano, sempre in bilico tra l'aspirazione a una limpidezza irraggiungibile e l'abisso dei propri istinti peggiori, di cui sono vittime i più deboli, in particolare le donne.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788868613839

Ventotto

« V orrei un favore. Che desse un’occhiata a queste carte. Mi preme un suo giudizio», proposi, mentre le riponevo nelle mani i fogli pinzati.
La dottoressa Ombretta non aveva fatto faville per l’incontro inatteso che praticamente le avevo estorto, ma con molta professionalità aveva accettato di ricevermi, infilandomi tra un appuntamento e il successivo.
«Che cos’è?».
«Un racconto».
«L’ha scritto lei, Giada?».
«No. Io al massimo so fare i cartelli con le promozioni del negozio».
«Non esageri troppo con la modestia», mi riprese con una nota di voce garbatamente severa.
«L’ho avuto da quel bosniaco che poi, morendo, mi ha creato un bel sacco di rogne. Sa già com’è andata. Questa è la traduzione del testo. Lei, dottoressa, è estranea alla faccenda e ha la sensibilità giusta per valutarlo».
La psico mosse la testa in un diniego compiaciuto: «Non mi sono mai occupata di narrativa…».
«Per favore. Vorrei sapere che ne pensa dal punto di vista clinico». La richiesta era stravagante.
«Clinico? – ripeté, sfilandosi gli occhiali e squadrandomi per un momento in viso –. Va bene, me lo lasci. Appena trovo un momento gli butto un occhio e le dico qualcosa».
La implorai di leggerlo subito. Le avrei rubato non più di mezzoretta. La dottoressa mi fece presente che non era abituata a far attendere i pazienti e in sala d’attesa c’era un signore piuttosto nervoso. Grande e grosso. Sarebbe stato oltremodo controproducente spazientirlo, anche a prescindere da una questione di buona educazione.
Patteggiai. Mi avrebbe dedicato un po’ di tempo appena dopo di lui, rinunciando per quel giorno ad andare in piscina. Le feci presente che poteva astenersene senza rimorso: aveva una forma pressoché invidiabile.

La dottoressa si era immersa nella lettura. Ogni tanto mi chiedeva dei dettagli su Dragan, per quel che potevo saperne. Confessò che non sveniva affatto per le storie di guerra e peggio ancora per i film. In fondo li trovava sfacciatamente insopportabili e ripetitivi quanto le scene con i gangster e gli inseguimenti d’auto. Non potevo darle torto. Per aiutarla nel comprendere, le spiegai la faccenda del villaggio francese messo a fuoco dai tedeschi, in base a quanto mi aveva riferito Beppe. Ogni tanto, per deformazione professionale, lei prendeva degli appunti su un notes che teneva a fianco. Infine si mise in bocca la matita, rigirandola piano piano. Dall’altra parte della scrivania rimase assorta per un paio di minuti, rivolta a me, probabilmente senza vedermi. Posò la matita, congiunse le mani solo con i polpastrelli e disse: «Se parlassimo di una persona vera, invece che di un personaggio, non avrei esitazioni. Ha mai sentito parlare di proiezione?».
Scossi la testa.
«Questo meccanismo è stato studiato bene. Si tratta di un processo difensivo della mente. Il soggetto afflitto attribuisce ad altre persone sentimenti, desideri e aspetti propri, quando rifiuta di riconoscerli in se stesso. È una forma patologica non sempre riconosciuta».
«Non ho capito niente».
«Insomma, qui il soldato preferisce distorcere la verità. Si inventa un nemico immaginario, perché non riconosce la propria colpa. È vittima di un’allucinazione. La conclusione amara lascia intendere, purtroppo per lui, che si tratta di un’allucinazione temporanea. Dovrà fare i conti con la realtà dello specchio, quando guarda nell’acqua. Per la verità, questo succede raramente nella mia esperienza. Per uscire da simili patologie a volte occorrono anni di cure. Ma sa, la mente umana è talmente tortuosa e imprevedibile…».
Non potevo dire se ero lieta o preoccupata per la disamina della dottoressa Ombretta, ma quell’incontro era stato provvidenziale. Forse avrebbe avuto tutto il diritto che le fornissi altre spiegazioni, come mi aveva sollecitato a fare per collegare meglio le tessere della mia relazione con Dragan, ma non ero disposta a condividerle. Mi bastava. Glissai spudoratamente altre domande personali. Da signora qual era, rifiutò di accettare un compenso per la prestazione speciale e la lasciai.

Buttai un occhio all’orologio da polso, era già tempo di rientrare al supermercato, anche se prima avrei avuto voglia di decantare l’eccitazione che sentivo dentro.
«Tutto bene?», chiese Beppe, premuroso, appena mi vide.
«Splendido», risposi, mentre gli mollavo un bacetto furtivo in punta di naso.
Il ritmo del negozio mi prese completamente, impedendomi di mettere a fuoco, anche se ci provavo, le considerazioni della psico. Friggevo, nell’attesa di mettermi quieta. Come Dio volle, arrivarono le tredici e trenta. Beppe e io tenevamo fede al proposito di mantenere un comportamento del tutto formale, nel luogo di lavoro. Ci incontravamo quand’era necessario per le inevitabili incombenze o, casualmente, per un breve caffè davanti alla macchinetta.
Quel giorno non stavo più nella pelle e così, interrompendo la consuetudine, lo pregai di venire a pranzo con me al self-service di sopra.
«Allora hai da dirmi qualcosa di grave…» provò a indovinare con una faccia mortificata, pensando alla mia visita medica. Mi limitai a sorridergli rassicurante, ma lui rimase abbacchiato.
Non fu semplice trovare due posti liberi, defilati come volevamo noi. Con i vassoi tra le braccia e la pasta che non fumava più, ignorammo i larghi cenni con i quali alcuni colleghi, generosamente, ci invitavano a unirci a loro nei lunghi tavoli da mensa. Beppe fu pronto a piombare su un tavolino, accostato a una colonna, non appena vide scostarsi le sedie arancione. Ci tennero il posto, andandosene, due signori in giacca e cravatta che lo salutarono affabili: evidentemente erano dei piazzisti.
Ancor prima di infilzare con la forchetta una prima conchiglia al ragù, svelai a Beppe cosa mi passava in testa.
«Oggi sono stata dalla psico», dissi.
«Quindi era questa la tua visita per cose da donne?».
Beppe cercava di intuire il non detto con un viso accigliato.
«Non è per me, non fare quell’espressione depressa, ti prego. Le ho portato il racconto di Dragan e le ho chiesto un consiglio».
Beppe si sciolse in un sorriso indulgente. Scosse la testa, silenzioso, mentre si metteva a consumare i primi bocconi di pasta.
«Tu sei tutta matta – disse poi, più sollevato –. È come portare dall’analista il libro di Dracula o di Frankenstein».
«Invece mi è servito moltissimo».
Gli spiegai per bene le deduzioni della dottoressa Ombretta. Aveva aperto una porticina.
«Mi sono convinta. Dragan non ha scritto quel brano per caso. Me lo sentivo. Non sono le pagine di un diario, ovviamente. C’è un’atmosfera lontana. Parla di una guerra che lui non ha vissuto, come sai, e di un incendio. Non era nemmeno nato. Eppure sento che c’è del vero. Intendo qualcosa di personale».
«Non è male questa pastasciutta, vero? Considerando che ci fanno un prezzo da mensa», commentò Beppe. Poi aggiunse più serio: «Non so entrare nei meandri del cervello di un delinquente, ma posso dire che, come incendiari, i serbi se la cavavano bene».
«In che senso?».
«Sono sicuro di avertene già parlato. Se ricordo bene, credo che sia successo dalle parti di Višegrad. Avevo letto di gente rinchiusa in una cantina e poi bruciata viva. Parlo di molta gente. E dopo avevano ripetuto la stessa cosa in un villaggio poco distante. A Bukovac o Bikavac, un nome del genere».
Avevo messo giù la forchetta, non riuscivo più ad andare avanti.
«Dai, finisci il piatto, Giada – lui mi spronò affettuosamente, mentre allungava la mano oltre il piano del tavolo per farmi un buffetto sulla guancia –. È un delitto sprecare la roba».
«Tu sei un genio, Giuseppe Verdi!», sbottai improvvisamente, traboccante di riconoscenza. Davvero mi si era accesa un’altra lucetta. Lui aveva fatto un’espressione buffa, non era abituato a complimenti di quel genere da me e a sentirsi chiamare, senza storpiature, con quel nome importante che restava sempre confinato nei documenti d’identità.
Intorno a noi mulinava un concerto tintinnante di stoviglie, un vociare indistinguibile di gente intenta a saziarsi.
Adesso intravvedevo con chiarezza una risposta ad alcune domande. Realizzavo a cascata una serie di collegamenti e tutti mi conducevano nella medesima direzione. Occupai l’intero pomeriggio, mentre rifornivo meccanicamente gli scaffali, a dare ordine alle congetture.
A una certa ora ero stata spostata a rimettere ordine nel reparto dell’ortofrutta. Dividevo con cura e per colore le cassette, per genere. Le banane non dovevano stare mai vicine ai kiwi o alle mele, perché maturavano e dopo marcivano prima. Anche tra la frutta c’era incompatibilità.
La sera, mentre innaffiavo le ortensie nel mio giardino, finalmente riuscii a tracciare dei contorni alla vicenda. Non nego la predisposizione a cercare una qualche minima attenuante alla vita sbagliata di Dragan, ma la ricostruzione calzava.
Era stato sedotto, forse fuorviato, dalle frequentazioni in un ambiente di esagitati. A Belgrado aveva sorbito il veleno di certi leader. Forse era un uomo debole di carattere. Per passione si era avvicinato alle formazioni degli ultrà sportivi. Il branco era forte. Ogni individuo nel branco è invincibile, fa da supporto. Anche le convinzioni più aberranti nel branco acquistano la forza di leggi inconfutabili, tanto più quando sono supportate dalle armi. Aveva coltivato il piacere per le soluzioni dispotiche, diffuso giorno per giorno i semi dell’insofferenza alimentata da una propaganda battente. Probabilmente c’entrava anche l’amore. Era un’ingenuità ipotizzarlo, una romanticheria da rotocalco? Ci si salva o ci si danna per amore. Dragan doveva aver sofferto come un cane per il rifiuto di Emina, la ragazza del suo paese, Višegrad. Era stato lasciato da una ragazza volubile, casualmente musulmana e non si era mai rassegnato. L’amore si era guastato in smania di vendicarsi. Il teorema prendeva corpo: i musulmani erano un corpo estraneo. Quelle come Emina, turche maledette, dovevano pagare un prezzo salato a sottovalutare un ragazzo come lui. Era diventata una questione di orgoglio. Bisognava buttarli fuori, tutti via i musulmani, il più possibile lontano dalla terra che non meritavano. Non voleva più avere nelle orecchie il mormorio di quei gorgheggi, bisognava abbattere i minareti, perché la terra apparteneva ai serbi e loro se n’erano approfittati.
Dragan si era arruolato con convinzione nelle brigate paramilitari, a dare una mano all’esercito serbo-bosniaco. Per fare le pulizie, c’era così tanto da lavorare. Liberare il paese, una volta per tutte, dalla marmaglia islamica. Era ritornato apposta a Višegrad. Avrebbe fatto pentire anche Emina. Ma qui era successo qualcosa di smisurato che si era messo di traverso, molto più di uno scrupolo. Ammetto che la mia ricostruzione viaggiava sulle ali dei sentimenti: Dragan era precipitato in un inferno. Quando era cominciata la sarabanda con le epurazioni, cominciava a rendersi conto con disgusto, guardandosi allo specchio, che di giorno in giorno stava avvenendo la sua trasformazione irreversibile in una figura demoniaca. Se inizialmente era drogato dall’entusiasmo di partecipare all’orgia dei vincenti, a poco a poco si era insinuata in lui una scheggia. Sempre più dolorosa, mano a mano che i crimini a cui assisteva, a cui chissà quante volte forse aveva partecipato, assumevano i connotati di una normalità abietta. Spasmodica e illimitatamente depravata. Deportazioni, stupri, assassinii. Le parole non bastavano a replicare l’orrore, l’incredibile fantasia perversa dei dettagli. Ed erano venuti i roghi. Con tutto il mio cuore desideravo immaginare che non avesse resistito a tanto. Volevo credere che fosse fuggito. Sì, scappato, non importa se da disertore. Traditore dell’esercito dei demoni, per recuperare un brandello della dignità di uomo. Maledettamente tardi per recuperare l’innocenza, nel tentativo goffo di attenuare almeno la condanna inappellabile di chi non riconosce in tempo l’abisso in cui è già caduto.
Dragan aveva affidato a un racconto la sua ultima confessione. In qualche modo da carnefice si era fatto vittima tra le vittime. Dragan non aveva avuto abbastanza coraggio di entrare completamente nella storia amara che aveva vissuto veramente. Aveva distorto i fatti, proiettando il proprio fantasma in cerca di redenzione in un’altra situazione ma analoga, altrettanto brutale. Allontanava l’esperienza tragica del passato più prossimo, sospingendola in una dimensione di tempo annacquata, dove il rimorso era più sopportabile.
Ricordai la viola mammola seccata. Rivedevo la scena in tutta chiarezza: Dragan aveva preteso che la raccogliessi da terra. Si era staccata dall’ultimo foglio del brano, almeno mi sembrava di ricordare che avesse detto così, dove forse l’aveva malamente incollata.
Dunque il fiore era intimamente legato al racconto e con esso alla sua storia personale. Realizzai con tutta evidenza il significato, quando rammentai la passeggiata lungo il fiume con l’Annetta. Avevamo scovato alcune violette tardive. Proprio lei mi aveva insegnato che serbano dentro di sé fin troppi significati, ma sono soprattutto i fiori dell’umiltà e del pentimento. Ora non avevo bisogno di altro per comprendere il senso di una confessione e della richiesta, muta, d’assoluzione di quell’uomo disgraziato, rese nella concitazione di una notte cruciale.
Restava il mistero del suo ferimento. Provai di nuovo a ragionare in un modo diverso: qualche ora prima del nostro incontro, Dragan era seduto da qualche parte sotto gli alberi. Trascorreva molte ore di inattività, in quel periodo. Riusciva con qualche difficoltà a procurarsi dei lavoretti provvisori per vivere. Col suo bravo coltello a serramanico, abbandonato in pensieri che non dovevano essere sereni, lentamente aveva cominciato a incidere la scorza di un bastone. Con precisione aveva impresso alcune figure: erano stelle, come quelle della sua squadra del cuore, con le lettere dell’acronimo. Improvvisamente era stato colto da una specie di insofferenza, chissà mai. Aveva sfregiato il legno, lo aveva spaccato in due, lanciandolo lontano. In un eccesso di collera, probabilmente si era ferito volontariamente e d’impulso con un colpo allo stomaco del suo stesso coltello. Perdendo sangue, a fatica era rientrato dentro casa. Pentito del gesto sconsiderato, aveva tentato di medicarsi alla meglio con quel poco che aveva trovato, e di coprire in qualche modo la ferita. Si era reso conto, mano a mano che il tempo scorreva, che provava paura. Era stato colto dal terrore della solitudine. Una solitudine totale. Aveva bisogno di aiuto. Con uno sforzo si era trascinato fino alla cabina del telefono, da dove mi aveva chiamato.
Ma dopo, perché quella specie di fuga, per lui letale? Navigavo con la mente a cercare un appiglio. Forse Dragan non voleva essere riconosciuto, pretendeva a ogni costo di rimanere nell’ombra anche se, all’epoca, pochi potevano sapere ciò che stava veramente succedendo in quel suo Paese martoriato. Non aveva da temere, almeno dalle autorità, e dunque? Scavando nelle mie supposizioni, trovai plausibile la conclusione del suo dramma: Dragan, tormentato dal rimorso ancor più che dalla ferita, aveva cercato una testimone al suo immenso dispiacere, per poi farla finita, in qualche modo. Magari mi aveva cercata per testimoniare un pentimento che faticava a rivelarsi. Mi aveva consegnato la prova, per commiserazione di se stesso. Aveva già deciso di lasciarsi morire, forse inconsciamente. La morte l’aveva sorpreso, accogliendolo nel suo grembo, aprendogli il cuore. Forse per caso o per verdetto di lassù.

Non appena mi fu possibile portai le mie conclusioni all’avvocato Rotundo. Appena mi ricevette, chiese se gli avessi letto nel pensiero. Infatti stava per chiamarmi lui. Cavallerescamente avevo la precedenza e dunque mi pregò di comunicargli per prima il motivo della visita. Gli spiegai tutta la teoria, stando ben attenta a dimostrarmi credibile, e soprattutto imparziale.
L’avvocato ascoltò tutto con grande interesse, senza interrompermi. Gli brillavano gli occhi. Quando terminai la mia lunga esposizione continuò a fissarmi per un pezzo. Emise un respiro, poi disse: «Peccato che sono troppo vecchio».
«Perché mi dice questo?».
«Se fossi stato più giovane, avrei voluto innamorarmi di una ragazza come te».
«Oh, grazie! A cosa devo questo complimento?».
«Penso che sei una bella persona. Certe donne saprebbero salvare il mondo. Ti trovo una donna pulita».
Ero arrossita.
«Le sembra convincente la mia ricostruzione?», chiesi, sbrigativa ma fiduciosa.
Rotundo si morse un momento il labbro superiore, dondolò ancora il capo e poi disse: «Purtroppo i na petra no poti nesciri acqua. Da una pietra non può sgorgare acqua, cara la mia Giada. Come ti dicevo, in questi giorni ti avrei convocata. C’è un risvolto interessante sul caso Dragan Vukić».
In quel momento colsi la distanza che metteva apposta per comunicarmi una notizia forse meno gradita.
«Sono cascati nella rete un paio di ragazzi. Ladri di polli o poco più. Vagabondi. Insieme a poca altra refurtiva, in casa gli hanno trovato una catenina spezzata. La medaglietta riportava il nome di Dragan. Hanno confessato. Per alleggerirsi da altre responsabilità che ti risparmio, hanno ammesso di avergliela strappata. Avanzavano da lui quattro soldi e non riuscivano ad averli di ritorno. Si sono presi a botte con Vukić. Dicono che sono stati costretti a difendersi. Uno ha dovuto usare un coltello, ma non aveva proprio intenzione di uccidere. Le solite scuse».
Ero arrabbiata con me stessa, di più con l’avvocato: «Ma scusi, perché ha atteso tutta la mia ricostruzione fasulla, prima di dirmi che era una scemenza?». Glielo dissi con foga, mi sentivo offesa, con le guance che s’infiammavano.
«Non era una scemenza. Semplicemente hai considerato delle possibilità diverse».
«Però questo cambia tutto», dissi sconsolata.
«Lo so, mi dispiace. Com’era quella frase del film L’attimo fuggente? Ecco: la verità lascia sempre scoperti i piedi» .
«Peccato».
«Peccato, sì. I due balordi sono stati accusati di omicidio preterintenzionale, come si dice in gergo. In effetti, lui è stato stroncato dal cuore che ha ceduto, perché era indebolito».
Chinai la testa, mi sentivo svuotata. Con molto tatto riprese a parlarmi:
«Non vorrei aggiungerti un altro peso, ma per dovere professionale è opportuno che ora te lo dica. La traduzione del racconto che ti ho consegnato è incompleta. L’originale ha una data a margine che non era significativa, ai fini della comprensione del testo, e non è stata trascritta. Dragan aveva composto quel pezzo, probabilmente, negli anni dell’università. È datato 26 ottobre 1988, molto prima dei fatti di Višegrad e di Bikavac. Ancora prima della guerra jugoslava. Dunque non poteva averlo messo giù, a meno che non fosse un indovino, riferendosi idealmente ai roghi in Bosnia. Non prendertela. Di buono c’è che...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Dragan l’imperdonabile
  3. Indice dei contenuti
  4. Uno
  5. Due
  6. Tre
  7. Quattro
  8. Cinque
  9. Sei
  10. Sette
  11. Otto
  12. Nove
  13. Dieci
  14. Undici
  15. Dodici
  16. Tredici
  17. Quattordici
  18. Quindici
  19. Sedici
  20. Diciassette
  21. Diciotto
  22. Diciannove
  23. Venti
  24. Ventuno
  25. Ventidue
  26. Ventitré
  27. Ventiquattro
  28. Venticinque
  29. Ventisei
  30. Ventisette
  31. Ventotto
  32. Nota dell’autore
  33. ​Collana Orienti