di Adriano Sofri
giornalista e scrittore
Conobbi i testi di Alexander Langer che fanno parte di questa nuova raccolta via via che venivano scritti, li rilessi in altre occasioni. Era necessario che tornassi a leggerli per scriverne una postfazione, che non si accontentasse di ripetere cose tante volte dette e scritte sul nostro amico perduto. Man mano che andavo avanti nella lettura, avevo la sensazione che si prova risalendo la china dalla quale è precipitata una valanga, la sensazione che dovevano provare gli spettatori antichi della tragedia ogni volta che tornavano ad assistervi sapendo come andava a finire – in una catastrofe: senza che questo riducesse, anzi!, la loro trepidazione. Mi girava in testa la sentenza, Motus in fine velocior – il movimento si accelera sempre di più via via che si avvicina alla fine. Una constatazione fisica passata a figurare l’angoscia incalzante con cui si segue di nuovo una tragedia annunciata. Diciamolo esplicitamente, questa lettura è anche un itinerario via via più precipitoso verso una doppia rovina: la morte personale di Alex, e la catastrofe di un orrendo crimine genocida nell’Europa dopo Auschwitz. E la morte singolare e scelta dello scrittore è avvenuta pochi giorni prima della strage di migliaia. E in un crescendo gli scritti di lui, uno dopo l’altro, suonano da premessa a quella strage, che pure non ebbe il tempo e la pena di vedere. Tutti noi, donne e uomini, che eravamo stati variamente vicini ad Alex, decidemmo da subito, senza nemmeno il bisogno di spendere parole, che di un suicidio non si pretenda di rintracciare “la ragione”. Basta quello che scrisse, quando toccò a lui, Cesare Pavese: “Non fate troppi pettegolezzi”; e prima di lui, Vladimir Majakovskij: “E, per favore, niente pettegolezzi”. Qualunque “spiegazione” di un suicidio lucidamente e liberamente deciso somiglierebbe a “un pettegolezzo”. Anche e soprattutto quella che la lettura postuma di questi scritti sembra troppo avvalorare, che Alex si sia tolto la vita “per la Bosnia”.
Aprile 1991. Il panorama europeo permette ancora una riflessione relativamente serena. Con il muro di Berlino è crollato il sistema imperiale sovietico.
“I movimenti per la pace devono sforzarsi di essere sempre meno costretti ad improvvisare per reagire a singole emergenze, ed attrezzarsi invece a sviluppare idee e proposte forti, capaci di aiutare anche la prevenzione, non solo la cura di crisi e conflitti. […] Dobbiamo, dunque, preoccuparci di alternative credibili, se non vogliamo finire per arrenderci alle ‘guerre giuste’” .
Alex schematizza le due contraddizioni su cui lavorare: “sovranità/ingerenza; nonviolenza/forza obbligante del diritto”. Era allora fervida la discussione sul cosiddetto diritto-dovere di ingerenza, ispirata a un allargamento dei diritti e delle libertà che confidasse in una polizia e una giustizia internazionale, capaci di arginare gli arbitri della sovranità nazionale. Proprio nella ex-Jugoslavia la missione Unprofor illuse di fornirne un esempio a partire dal 1992. A distanza di poco più di un quarto di secolo è difficile risentire quella temperie, in un contesto mondiale in cui crisi e dimissione del gendarme mondiale Usa hanno lasciato il passo a una licenza di ingerenza violenta e dispotica di potenze grandi e medie, sciolte da vincoli democratici.
Il Tribunale di Norimberga aveva avuto al primo posto nella sua lista di imputazioni i crimini contro la pace, che implicavano la “cospirazione per preparare e attuare la guerra di aggressione”; e poi i crimini di guerra e infine i crimini contro l’umanità, incunabolo del diritto di ingerenza, che però allora erano assorbiti nei crimini di guerra. La parola “genocidio”, coniata solo nel 1944, non fu evocata a Norimberga.
Nell’orientamento originario dell’Onu, la limitazione alla sovranità degli Stati era invocata in nome del “mantenimento della pace”.
“Ci sono due grandi questioni – ricorda Alex in quel 1991 – che non si possono arrestare alle soglie della sovranità nazionale: i diritti umani e le emergenze ambientali. In entrambi i casi sono in gioco supremi valori, un patrimonio comune a tutta l’umanità. Ma se affermiamo un diritto-dovere all’ingerenza, per difendere i diritti umani o la salvaguardia della biosfera, ci dobbiamo riferire o all’ingerenza dei cittadini, delle organizzazioni non governative, oppure a quella degli organismi internazionali, cosa diversa dall’ingerenza di Stati sovrani nella vita di altri Stati sovrani”.
L’ingerenza umanitaria divenne anche, con l’ex-Jugoslavia (e, più effimera, con la Somalia), il tema forte di Giovanni Paolo II. Il 7 agosto 1992 il cardinale Segretario di Stato Angelo Sodano, che parlava per conto del Papa, disse: “Per frenare questa guerra, per recare soccorsi alle popolazioni e per indagare sulle accuse di atrocità in campi di concentramento, per i quali la Santa Sede ha notizie più che sicure... gli Stati europei e le Nazioni Unite hanno il dovere e il diritto di ingerenza, per disarmare chi vuole uccidere”. A dicembre fu il Papa a dire alla Fao: “Sia reso obbligatorio l’intervento umanitario nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza di popoli e di interi gruppi etnici”. Per ripetere a gennaio al Corpo diplomatico, citando esplicitamente la ex-Jugoslavia:
“Una volta che tutte le possibilità offerte dai negoziati diplomatici... siano stati messi in atto e che, nonostante questo, delle intere popolazioni sono sul punto di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore, gli Stati non hanno più il diritto all’indifferenza”.
Innovatrice com’era, almeno per la nettezza delle parole, la posizione di papa Wojtyla – che venne accusata anche di contraddire il neutralismo assoluto tenuto nei confronti della guerra del Golfo – si premurava di indicare la forza come l’ultima risorsa, di condizionarla alla cura per le vite umane e di indicarne la legittimazione nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. Le stesse condizioni che contavano per Alex, e che per un verso lo distanziavano dal fondamentalismo pacifista, quello per il quale non deve esistere un’azione di polizia internazionale sicché l’assolutezza del principio coincide con l’omissione di soccorso, e per l’altro lo legavano a un’autorizzazione del Consiglio di sicurezza che non avrebbe mai superato il veto dei patroni della Serbia di Milošević.
Alex aveva deciso pressoché da sempre di legare il proprio impegno civile e politico a una corresponsabilità con altri decisi a condividerne gli intenti e i modi, ciò che dava alla sua opera, col solo limite della piena libertà di coscienza, un carattere di portavoce collettivo, e sia pure di un portavoce capace di persuadere e trascinare con la forza dei pensieri e dell’esempio. “Polizia internazionale” – quanto ce ne siamo allontanati – non era un espediente anestetico per mandar giù meglio un’azione militare: una polizia, dovrebbe, deve, agire secondo la legge e usare mezzi proporzionati alle minacce da prevenire o arginare: Alex richiamava già allora “l’esigenza di sviluppare […] delle vere azioni di polizia internazionale, che per l’appunto differiscono dagli interventi militari per la congruità dei mezzi e per l’esclusione della guerra tra Stati”.
Settembre 1991, si svolge la Carovana di pace. La guerra ora infuria soprattutto in Croazia, la pratica slovena, la “guerra dei dieci giorni”, è stata presto sbrigata: l’Austria, la Baviera, erano vicine. L’opposizione alla guerra è ancora più vivace proprio in Serbia, a Belgrado, e presto cercherà riparo nella fuga e nell’emigrazione, e a volte nell’obiezione aperta e punita. (Calcoleranno, i serbi impegnati per la pace, che siano stati in 100.000 a negarsi alla leva obbligatoria). Alex chiede che l’Europa si offra come rifugio per i giovani disertori, uomini e donne. Anzi, li invita alla diserzione. La compattezza che coprirà le nefandezze criminali delle truppe serbiste farà troppo facilmente dimenticare che era passata una schiacciante epurazione preventiva. Si può ancora far leva, spera Alex, sugli jugoslavisti: la Macedonia, la Bosnia Erzegovina. Quest’ultima è già il terreno designato della ferocia più inconsulta e predatrice. Alex si prodiga per i corpi civili di pace. Ottiene, lui e i suoi, riconoscimenti significativi, un’attenzione del parlamento europeo, volonterose sperimentazioni concrete. Ma la guerra, come ogni ubriachezza, ha dalla sua il tempo stretto. La convivenza ha bisogno di pazienza, la guerra è impaziente.
È già il 1992. E in Europa si è instaurato un micidiale doppio movimento. La Jugoslavia titoista era stata a suo modo multinazionale, si era vantata come un capolavoro di equilibrismo e di ingegneria istituzionale – ed è andata in pezzi, in frantumi, come certi vetri smerciati per infrangibili, proprio mentre la comunità europea si allargava, raccogliendo i pezzi che erano stati incollati a forza all’impero sovietico. Un doppio movimento, all’uno l’Europa benestante apre l’occhio curioso e allegro, e all’altro chiude l’occhio infastidito. I Balcani, di nuovo: sempre quel moscerino nell’occhio dell’Europa, così spesso fatale. Ma ora i Balcani sono davvero una periferia di se stessi, non più la periferia dell’impero. Non si morirà per Sarajevo una seconda volta. In quell’inizio della guerra che sta per incendiare la Bosnia Erzegovina e nella distrazione che l’accompagna – scene cruente in televisione sì, e paurose, ma appunto roba d’altri, fuor di senno – sta la spiegazione del tic che si protrarrà fino ai nostri giorni, inesorabile: e farà dire mille volte a storici, giornalisti, commentatori, cervelli fini, anche, e di distinta umanità, che l’Europa ha saputo far tesoro della lezione tragica della Seconda Guerra, e godere del più lungo periodo di pace della storia. E la guerra, le guerre, nell’ex-Jugoslavia? Ah, già, scusate, è Europa anche quella: un lapsus. Quasi Europa, del resto...
Febbraio 1993.
“La spaventosa guerra jugoslava – scrive – si rivela sempre più come la sfida decisiva per la coscienza europea e il banco di prova della nuova Europa. La sua portata storica un giorno sarà forse considerata maggiore di quella della guerra civile spagnola negli anni Trenta”.
Non è successo: l’Europa è riuscita a confinarla. (Parola pregnante, confinarla: infatti ce l’ha proprio ai confini, alle porte di casa. Ce li ricordiamo, i viaggi a Sarajevo da una Falconara balneare sui C 130 militari dell’Onu, le “Maybe Airlines”: nemmeno un’ora di volo, e si era a tiro di cecchini nella città assediata). L’Europa l’ha tenuta fuori, “la spaventosa guerra”, alla distanza di un metro o poco più, senza farsene contagiare; come avrebbe tenuto fuori, dai nuovi confini spostati in basso, i migranti di vent’anni dopo. Ripete, Alex, che c’è bisogno di persone e gruppi “misti”: essi richiedono da tutti i...