XI
Comunità, autonomia e sviluppo: la sfida della Sardegna
L’isola che non c’è
Viene facile evocare la nota canzone di Edoardo Bennato quando, in Italia, si parla di isole. Nonostante infatti il luccichio delle solite mete estive: Capri, le Eolie, la Maddalena, in pochi, nel nostro Paese, conoscono il suo patrimonio insulare.
In qualche caso, sono le nostre risorse culturali, architettoniche e naturalistiche, che ci danno le vertigini: come avvenne con Stendhal. E capita che qualche pietra preziosa rimanga nascosta nel mucchio. È il caso della Toscana, famosa per tante straordinarie bellezze ma non per le sue isole, relegate, per tanti anni, a carceri (Gorgona, Capraia, Pianosa), parchi inaccessibili (Montecristo) o al totale abbandono (Giannutri).
In altri casi, le Regioni se ne sono dimenticate, come accade, nell’Adriatico, alle isole Tremiti. Dell’ultima di queste (Pelagosa) si è scordato anche lo Stato. Rimasta fuori dai trattati di pace è finita in mani iugoslave (oggi croate).
In Sardegna, è l’effetto orbitale a nasconderle. E sono tantissime. Tra isole, isolotti e scogli, la sola Provincia di Sassari ne conta ottantasette. Ma è l’isola madre a polarizzarli tutti.
Le isole, infatti, non sono tutte uguali e non distinguerle rischia di semplificare un fenomeno assai complesso. Pochi sanno che in Italia abbiamo ben 800 isole, tra marittime, fluviali e lacustri. Alcune di esse sono appunto sub-insulari, altre si trovano lontano, più vicine ad altri Paesi. Anche la grandezza è dirimente; Palmaria o Mal di Ventre non sono certo la Gran Bretagna.
Ma chi si occupa di queste differenze? Chi è mai riuscito a raccogliere in coro le voci insulari, esaltando le loro eccellenze ed evidenziando, al contempo, le loro fragilità? Neppure a livello europeo esiste una definizione di isola. Per cui siamo costretti a rifarci alle statistiche. Eurostat definisce isola ogni territorio che: 1) abbia superficie minima di 1 km2; 2) disti almeno 1 km dalla terraferma; 3) abbia almeno 50 abitanti; 4) non abbia collegamento fisso con la terraferma; 5) non ospiti la capitale di uno Stato membro dell’UE.
Il diritto europeo parla genericamente di isole (art. 174 TFUE) mentre attribuisce un regime più favorevole a pochi territori ultraperiferici di Spagna, Portogallo e Francia (art. 349 TFUE), come se tanti altri, dentro e fuori i loro relativi Paesi, non siano anch’essi periferici. Bisognerebbe quindi individuare i reali elementi di svantaggio territoriale e partire proprio dalle isole sarde; dalla loro geografia, orografia, demografia, condizione infrastrutturale ed economico-sociale. Quantomeno per superare taluni paradossi; per esempio: che l’obiettivo convergenza, in Sardegna, dipenda dai fatturati della Saras.
Ma la politica sarda, si sa, è affaccendata in altro. A ogni tornata elettorale, inscena il solito copione: pugni sul petto, vesti stracciate e anatemi viscerali contro l’invasore. E così l’autonomia langue per decenni, come in tanti cantieri stradali: due transenne, nastri segnaletici in balia del vento, nessuno all’interno. Fine lavori: mai.
Quando però si avvicinano le elezioni, ecco riapparire mezzi e operai: nuovi propositi, nuovi cantieri. E così, sul tema dell’insularità, tante iniziative al contempo: modifica dell’art. 349 TFUE, concertazione politica, con Corsica e Baleari, reintroduzione dell’insularità in Costituzione.
Si è pure giunti a una legge regionale (art. 4, l.r.5/2017) e a una nazionale (art. 1, c.837, l.205/2017), la quale aveva istituito un Comitato istruttore paritetico Stato-Regione Sardegna per fornire al Governo le motivazioni utili a proporre la modifica dei Trattati europei. La Regione ha però optato altrimenti, chiedendo di mitigare il divieto di aiuti di Stato. Oggi si ipotizzano ancora nuove vie e il precedente percorso è stato abbandonato (Comitato paritetico incluso).
Morale? I cantieri dell’insularità sono tanti, tutti aperti, tutti disabitati. La colpa di chi è? La politica non ha dubbi: del Continente, della UE, dei poteri forti. Non ci resta allora che tornare a Edoardo Bennato e alla sua nota canzone. Inutile illudersi, è l’isola che non c’è.
L’autonomia tradita
Dopo ore di navigazione, col blu, sconfinato all’orizzonte, avvistare terra è come veder sbocciare una nuova vita, che ti accoglie con le sue luci, i suoi profumi, i suoi sapori. È diversa la Sardegna, già a prima vista, nel contrasto tra i colori terrestri e il mare tutto attorno. Ed è identitaria; poiché chi vive quest’isola si contamina della sua diversità.
Diversità, non indipendenza, che è altro e significa conoscere i propri mezzi, volerli coltivare, saperli usare. Questo “abito mentale” purtroppo manca in Sardegna. Forse sradicato, forse ignorato dagli stessi sardi: almeno da quelli che si sono adagiati a vivere con sussidi altrui; che invocano l’autonomia ma non sanno costruirla e si ritrovano oggi nudi, a mendicare stracci di comprensione, di misericordia, di solidarietà.
E qui la vicenda sarda si incontra con quella siciliana e di tanti altri luoghi del Mezzogiorno che subiscono, non la padroneggiano, la propria diversità. E che portano dunque con sé ferite profonde, in parte comuni. Una tra esse è la dipendenza politica che, nonostante gloriose ribellioni, si è lentamente insinuata nelle menti, come un male profondo, diffuso, pervasivo. Non sono bastati il martirio di Sant’Efisio, il sacrificio di Ampsicora, le gesta di Eleonora di Arborea e Paskedda Zau; non è bastata la cacciata del viceré Balbiano e dei funzionari sabaudi. L’invasore è permeato nella mente dei sardi generando sudditanza e dipendenza. Come un nemico dentro casa, mentre te lo aspetti fuori.
Anche la Sicilia, approdata all’unità d’Italia, ha continuato a coltivare l’antico regime. Luigi Torelli, nel 1866, per far riconoscere ai palermitani lo Stato liberale, ripristinò l’antico trono viceregio e vi si sedette agghindato con le onorificenze e le medaglie del grado. Davano più sicurezza quelle ai palermitani. La libertà faceva troppa paura.
E quando la Sardegna, poco dopo la Sicilia, si dette uno statuto speciale, pur di differenziarsi, si accontentò di un compromesso, per poi lasciarlo sulla carta, svilito e inapplicato. Infatti il sardo, diceva Antonio Gramsci:
per sua natura apatico e diffidente, rifugge da idee di carattere nettamente rivoluzionario e preferisce cullarsi nell’attesa messianica che qualche Governo italiano, commosso da tanta rassegnazione, regali alla Sardegna, magari come strenna natalizia, un governo regionale bello e confezionato, tale da soddisfare il gusto di tutti senza disturbare il chilo a nessuno.
La dipendenza politica ha dunque, presto, generato dipendenza economica; anche nelle produzioni tipiche locali, storiche e identitarie. I numeri pre-Covid sono tutt’oggi lì, impietosi, a confermarlo. A fine giugno 2019 le esportazioni alimentari si sono fermate a 76 milioni di euro, a fronte degli oltre 95 del valore dei prodotti importati. La bilancia commerciale sarda è passata dunque da un deficit di circa 14 milioni di euro, nei primi 6 mesi del 2018, a quasi 20 milioni nello stesso periodo del 2019. E a essere maggiormente importati sono i prodotti ittici e lattiero-caseari, questi ultimi con un +123% nel 2019 (le previsioni post Covid-19 sono ancora peggiori). Abbiamo capito bene: la Sardegna importa proprio ciò che di meglio produce. Come in una trasfusione, getta via il proprio sangue, forte e sano, e si inietta quello altrui.
Ecco quindi compiuto il paradosso. Soffocata dalle clientele, piegata dal parassitismo, tradita dagli opportunismi di una classe dirigente spregiudicata e provinciale, la Sardegna resta terra di conquista. Neanche il mare riesce a difenderla. Né i sardi riescono fino in fondo a rendere il mare la loro ricchezza. Del resto, diceva bene Schopenhauer: «La ricchezza assomiglia all’acqua di mare: quanto più se ne beve, tanto più si ha sete».
Il messaggio di Simon Mossa
Prima o poi occorrerà farlo un bilancio sull’esperienza sardista: la sua estrazione, i suoi obiettivi, i risultati conseguiti. Magari rileggendo il pensiero di tante illustri personalità che a quella esperienza hanno offerto il loro contributo. Tra queste, un ricordo lo dobbiamo ad Antonio Simon Mossa, indipendentista e uomo poliedrico e polivalente: architetto, aiuto regista e cineoperatore di guerra, saggista, musicista e soprattutto ideologo di una visione quasi sindacale della condizione dei sardi che invariabilmente preferiva alle altre.
Così Fiorenzo Serra attribuì il suo allontanamento dal cinema al fatto che quest’ultimo tendeva a eludere, più che a raccontare, le problematiche sociali dei sardi. Vico Mossa rivelò come, nel suo lavoro di architetto, Simon Mossa tendeva a progettare alberghi che potessero trasformarsi in residenze o scuole per giovani disoccupati. Giampiero Marras (suo assistente per lunghi anni) ci ha raccontato di come Simon Mossa rifiutasse i simboli e le ideologie del Novecento se non li percepiva utili alla rinascita culturale e sociale della Sardegna.
Insomma: era un intellettuale rivoluzionario Antonio Simon Mossa il cui pensiero è molto attuale; specie oggi che il cantiere federalista europeo rischia definitivamente di arenarsi riportando le tante minoranze etniche e linguistiche che aveva studiato (bretoni, occitani, baschi, slesvig, lami, ecc.) nella angusta dimensione della subalternità nazionale; specie oggi che i leaders di alcune comunità ribelli, come i catalani, si trovano ancora sottoposti a procedimenti penali, a riprova di come la risposta giudiziaria, un po’ ovunque, venga sovente usata a sproposito, anche per reprimere istanze libertarie, esigenze di autonomia, vagiti di autodeterminazione.
Non parliamo dell’Italia ove, ormai quotidianamente, si celebra il teatro dell’assurdo: mentre la UE bacchetta continuamente il nostro Stato per il suo gigantesco debito, gli italiani, che quel debito sono chiamati a sopportare non fiatano. Anzi, sono guardati con sospetto, rei di contribuire all’enorme evasione fiscale, effettuata dai soliti noti, che lo Stato non persegue. Assistiamo quindi a una singolare forma di assistenzialismo biunivoco: la politica – con la spesa pubblica – assiste i cittadini (per farsi procrastinare al potere) e questi ultimi assistono – con il debito – lo Stato.
La fiscalità, poi, nasconde un ulteriore, grande inganno. Essa non è, infatti, solo esazione di tributi, sono anche risorse derivanti dalla gestione del patrimonio dello Stato, che in Italia è davvero immenso. Abbiamo tesori artistici, architettonici e culturali inestimabili, beni pubblici e demaniali di ogni genere, inclusi 8.000 km di coste dalla cui concessione riscuotiamo somme risibili. Lo Stato infatti non si cura di amministrare degnamente il suo patrimonio; più facile tassare i cittadini, che non si lamentano, o continuare a indebitarsi; tanto i debiti non si pagheranno mai.
Fuorviante anche l’ancoraggio etico-giuridico della vessazione tributaria: il principio di uguaglianza. Come se calare una gabbia fiscale pressoché omogenea su comunità e territori drammaticamente diversi, anche nel proprio grado di sviluppo, come Sardegna e Lombardia, sia esercizio di uguaglianza e non di ipocrisia. Così come avviene con la regola del 34% degli investimenti pubblici destinati al sud. Quota pera...