Il Paese che uccide le donne
eBook - ePub

Il Paese che uccide le donne

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Il Paese che uccide le donne

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

È un romanzo storico, Il Paese che uccide le donne, un libro che, attraverso personaggi di fantasia, racconta col piglio del reportage il Messico contemporaneo. Un Paese in cui per quasi tutti è difficile vivere, ma per una donna ancora di più.
Paul e Dana sono, così, i protagonisti di una storia corale che ha per sfondo l’intero Paese, il cui cancro storico si chiama droga e la cui realtà, nell’ultimo decennio – il più violento in assoluto – è ben spiegata dal numero di omicidi: oltre 215mila, pari a uno ogni 23 minuti. Un Paese “fantoccio” in mano ai narcotrafficanti, che vanno a braccetto con pezzi delle istituzioni. Un Paese dove con sessanta euro si può affittare un killer. Dove i femminicidi sono all’ordine del giorno. E dove i poliziotti proteggono i delinquenti e gli innocenti vengono torturati per confessare crimini mai commessi.
“Una frase del libro di Carrisi spiega tanto del Messico di ieri e di oggi: chi si affida allo Stato per chiedere giustizia scopre presto che è quello stesso Stato a essere complice dei crimini che ha denunciato”. (Riccardo Noury)

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Il Paese che uccide le donne di Giuseppe Carrisi, Riccardo Noury in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Letteratura e Narrativa storica. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788868615208

Uno

Sogno un mondo che contenga vari mondi e in ognuno di questi
sia riconosciuta la dignità dell’essere umano”.
(Javer Sicilia, poeta messicano)


“Signorina Janet…”.
“Sì, Mr. Bennet”.
“Mi chiami Miller… lo voglio nella mia stanza… immediatamente”.
“Certo…”.
La spia rossa del telefono e il tono perentorio della segretaria non annunciano niente di buono.
“Paul, la vuole il capo… con urgenza”.
Trangugio un sorso di tè bollente, mi aggiusto il nodo della cravatta e mi precipito per il corridoio mentre mi infilo la giacca. Passo davanti alla stanza di Janet incrociando le dita.
“Buona fortuna”, mi dice lei allargando le braccia.
“Mi ha fatto chiamare, signore…?”.
“Lasci stare i convenevoli, Miller… questa è la relazione che mi ha trasmesso poco fa l’ufficio internazionale sull’affare della Global Development Company... lo ha seguito lei… legga… legga”.
“… In conseguenza del parere negativo espresso dalla sezione tecnico-giuridica… si raccomanda di bloccare la trattativa in corso per l’acquisto dei terreni agricoli nello Stato sudanese di Gezira per conto della società…”.
“Ma si rende conto di quello che fa?! Abbiamo impiegato quattro anni per convincere quelli della Global Development a diventare nostri clienti e lei mi stronca così un affare da milioni di dollari…”.
“Beh… esaminando il contratto mi sono reso conto che c’era qualcosa di poco chiaro… finanziamenti in nero, espropriazioni illegali di terreni, senza contare i danni alla popolazione locale…”.
“Ancora con questi discorsi… legalità… diritti”.
“Ma...”.
“Non ci sono ma. Sono i soldi che muovono il mondo, non i diritti… La Global Development Company ha bisogno di quelle terre, e noi gliele faremo avere…”.
“Per fare cosa? Disboscare la foresta e sfruttare il terreno per produrre biocarburanti?”.
“Non penserà di piantare mais o canna da zucchero a Oxford Street o al Covent Garden?!”
“No, ma neanche di giocare con la vita di quella gente”.
“Ma a chi interessa che dei fottuti africani vengano cacciati dalle loro terre e che i loro fottuti villaggi vengano distrutti? Solo a lei, Miller. Lei è un idealista, un sognatore… si svegli… i nostri concorrenti farebbero carte false per sfilarci dalle mani quest’affare. Il contratto va chiuso”.
Mi accompagna alla porta e mi invita a uscire, mentre si accende nervosamente una sigaretta.
“Mi mandi una nuova relazione entro un paio di giorni. Poi, quando rientrerà dalle ferie dovremo chiarire un po’ di cose…”.
“Mi dispiace Paul, è andata male…”.
“Lo sa meglio di me, Janet… con lui è impossibile spuntarla. Meno male che c’è lei a rendere un po’ più umano questo posto”.
“Non ci pensi più e si goda la vacanza. A proposito, ecco i biglietti che mi aveva chiesto. Buon Natale…”.
“Grazie… ci vediamo tra due settimane. Buon Natale anche a lei”.
L’orologio della stazione segna le 20,34. Il termometro è fermo a due gradi. Il cielo bianco di neve.
“Pronto, ciao Dana”.
“Che strana voce hai… è successo qualcosa?”.
“Ho discusso con il mio capo”.
“Di nuovo?! E perché stavolta?”.
“Non ne voglio parlare… piuttosto, hai preparato i bagagli?”.
“Sì, è tutto pronto …”.
“Domattina passo a prenderti per le sette, il volo è alle 9,45. Adesso ti devo lasciare, ho un’altra chiamata… buonanotte”.
“Mamma, sei tu?”.
“Ma dove sei finito, Paul? Ti stiamo aspettando per cena”.
“No, non vengo… scusa… è stata una giornata lunga… ho finito ora di lavorare”.
“Dovrai pur mangiare… e, poi, ti volevamo salutare”.
“Prendo qualcosa al take away qui all’angolo e vado a dormire. Ho la sveglia molto presto. E non ho ancora messo niente in valigia”.
“Buon viaggio, fatti sentire quando arrivate…”.
“Ok, scusami anche con papà”.
In realtà non ho alcuna voglia di andare a casa. Mi incammino lungo una strada pedonale che attraversa il Barbican Estate, un complesso residenziale di 140mila metri quadrati costruito sui resti dei bombardamenti tedeschi della seconda guerra mondiale.
Tre grattacieli, parallelepipedi di 42 piani in cemento armato, mattoni, acciaio e ferro grezzi. Grigio spento, senza nessuna concessione a piacevoli dettagli. Circondati da tredici palazzine dello stesso stile, costruite attorno a un laghetto artificiale e ampi spazi verdi ben curati. Emblema dell’architettura brutalista che, tra gli anni Sessanta e Settanta, ha invaso tutte le città del pianeta, o quasi.
Londra è una di queste: Trellick Tower, Robin Hood Gardens, Hayward Gallery, Royal National Theatre per il quale il principe Carlo ha usato parole non proprio da british aplomb: “… Un ottimo modo per costruire una centrale nucleare in mezzo alla città, senza che nessuno potesse obiettare”.
Ma a dividere i londinesi è soprattutto il Barbican Estate, nonostante gli apprezzamenti della regina Elisabetta che lo ha definito “uno dei miracoli più significativi dell’epoca moderna”. Per il resto, c’è un odio profondo per questi casermoni popolari segnati dal tempo, con centinaia di finestre in fila, la ripetizione fino alla nausea di un modulo geometrico, il rigore degli angoli, la ruvidità delle superfici.
Io sto con la regina. Non potrei mai contraddirla! Sarà per l’atmosfera che si respira in questo luogo, stranamente silenzioso e riservato. Un po’ come me. Qui le automobili non hanno accesso e non si sente alcun riverbero del traffico o del vociare costante della città. Ci abitano soprattutto artisti benestanti, rintanati in appartamenti piccoli e piuttosto costosi. Il resto sono uffici. Un’oasi di pace che mi affascina. Quasi una mia seconda casa. Amo andare al Barbican soprattutto la domenica, quando tutto sonnecchia. D’estate, mi attardo anche fino a sera seduto ai tavolini all’aperto; d’inverno, passo ore e ore seduto in uno dei tanti caffè leggendo libri presi in prestito nella biblioteca molto fornita. O giro da un piano all’altro del museo, perdendomi nelle mostre.
Il cinema, poi, è un’esperienza da provare. Per raggiungerlo bisogna attraversare corridoi e vetrate, camminando sopra una serra di piante esotiche. In cartellone film per tutti i gusti: prime visioni, pellicole d’epoca, colossal. Sempre con l’accompagnamento al pianoforte di sottofondo.
Di musica lì ne ascolto tanta. Concerti, jam sessions, esibizioni di singoli o gruppi. E tutto gratis.
Già, la musica. Il mio più grande rimpianto. Ho sempre desiderato saper suonare il violino. “Un tavolo, una sedia, un cesto di frutta e un violino. Di cos’altro necessita un uomo per essere felice?”. Mi ritrovo pienamente in questo pensiero di Albert Einstein.
Non avevo scelto io il violino, lui aveva scelto me. Così iniziai a prendere lezioni private da un maestro. Un italiano. Armando. Il cognome non lo ricordo più. Nonostante mio padre. Non faceva altro che scoraggiarmi. “È troppo difficile…”, oppure “… Il violino si inizia a studiare da bambini…”. E così via. Io non gli davo ascolto. Sapevo che stava riversando su di me le sue incapacità, la sua pigrizia, per convincersi che fosse l’ineluttabile normalità del vivere. E, poi, voleva a tutti i costi che io diventassi qualcuno nel mondo dell’alta finanza.
Un pragmatico come lui non avrebbe mai accettato che io mi perdessi tra note, pentagrammi, scale e solfeggi. Il suo approccio alla vita è sempre stato venale, materialistico. Le sue parole d’ordine profitto, rendita, denaro. Un’ossessione. È capace di monetizzare qualsiasi cosa.
Io l’ho visto poco. Passa da una riunione all’altra, da un viaggio d’affari all’altro. E non può essere diversamente, visti i suoi numerosi incarichi: amministratore delegato di una multinazionale; socio di maggioranza di una banca d’investimenti, presidente di una società di marketing, consigliere di una fondazione. Più un’altra manciata di cariche onorifiche, comprese quelle del Rotary Club of London e del White’s, esclusivo circolo per gentiluomini.
“È uno strumento difficilissimo che richiede pazienza, impegno e tanta passione”, mi diceva spesso il maestro per mettermi alla prova. Tutte cose che io avevo. E i risultati arrivavano. “Sono stupito della velocità con cui apprendi – mi disse dopo un anno –. Io, a questo punto, non posso darti di più. Penso tu sia pronto a fare il salto di qualità…”.
Il mio sogno era di andare alla Royal Academy of Music, la più antica e selettiva scuola di musica di tutto il Regno Unito. La carriera concertistica mi attraeva come niente altro. Avrei voluto seguire le orme di David Garrett, al secolo David Christian Bongartz. O almeno provarci. Uno che il violino lo fa parlare. Un virtuoso, un genio. Solo un genio può debuttare a nove anni, a undici collaborare con la Filarmonica di Amburgo ed entrare nel Guinness dei primati per aver eseguito Il volo del calabrone in un minuto e sei secondi!
Ma per mio padre quello che pensavo io non contava. Cacciò via in malo modo il maestro accusandolo di avermi traviato. Non aveva capito quanto fosse importante per me il violino: era diventato la cura per la mia anima.
Ancora adesso sono convinto che studiare musica, suonare insieme in un’orchestra – imparando ad ascoltare gli altri, senza mai prevaricare – potrebbe aiutare a creare un mondo e una società migliori.
Non ricordo più dove sia finito il mio violino. Forse è conservato in qualche angolo nascosto della casa. O forse l’ho regalato a mamma per una delle sue aste di beneficenza con la Woodland Trust, l’ente per la tutela degli alberi di cui lei è da sempre una convinta sostenitrice. È il suo passatempo preferito, quando non si occupa dell’azienda di famiglia.
Deve essere stata lei a trasmettermi quello spiccato senso per la giustizia che mi spinge a schierarmi, sempre e comunque, dalla parte dei più deboli. Non per niente a scuola, i miei compagni, mi avevano affibbiato il soprannome di piccolo Robin Hood.
Mentre passeggio, ripenso alle parole del mio capo. Alla sua arroganza, alla sua strafottenza. “Io quella relazione non fa firmerò mai”. Me lo ripeto come un mantra per convincermi che è la cosa giusta. “Non mi presterò al suo gioco, anche al costo di rimetterci il posto e lo stipendio da dirigente della sezione tecnico-giuridica”.
Comincia a nevicare. Il freddo si fa ancora più pungente. Salgo al volo su un autobus. Non c’è nessuno. Una giovane coppia ne approfitta per scambiarsi effusioni amorose. Mi accomodo al piano di sopra per non disturbare la loro intimità.
Londra è una meta perfetta per il Natale. Diventa magica. Si illumina di mille colori: da Carnaby Street fino a Trafalgar Square, passando per piazza Duke of York è un susseguirsi ininterrotto di decorazioni e abeti con luci scintillanti.
Scendo a Knightsbridge. Quei due giovani continuano ad amoreggiare rapiti l’uno dall’altra. Due passi e sono ad Hyde Park che, in questo periodo, si trasforma in un grande parco divertimenti. Mercatini, giostre, bancarelle si trovano a ogni angolo. Guardo tutto con gli occhi incantati di un bambino. Mi fermo davanti a una casetta in legno dipinta di rosso, un chiosco pieno di prelibatezze da tutto il mondo. Sul bancone campeggia un cartello: “Assaggiate il nostro vin brulé”.
Mi lascio tentare. Al primo sorso riconosco il sapore di cannella e noce moscata. Mi viene in mente il mio primo viaggio all’estero. Alpi trentine, Italia. È lì che l’ho assaggiato la prima volta.
Dal palco al centro della pista di ghiaccio, arrivano le note di un’orchestrina. Sembrano accompagnare le evoluzioni dei pattinatori e i movimenti lievi dei fiocchi di neve accarezzati da una leggera brezza. Una notte come tante altre, nella mia Londra. Ma non per me.

“Ultima chiamata del volo BA 243 della British Airways per Città del Messico. I signori passeggeri sono pregati di recarsi all’imbarco numero 38”.
“Paul, sbrigati… è il nostro aereo…”.
“Eccomi, prendo il giornale e arrivo”.
La mia attenzione era stata attirata da un articolo in prima pagina sul Guardian. Messico, scomparso l’uomo che difendeva le farfalle. All’interno, la foto di un tale, Raúl Hernández Romero, 44 anni: lavorava come guida turistica nel santuario delle farfalle di El Soldado, nello Stato di Michoacán.
Il pilota in seconda ci informa che abbiamo ultimato le operazioni di imbarco, mentre le hostess sistemano gli ultimi bagagli nelle cappelliere.
“Dana, senti che strana storia… questo Hernández fa parte di un gruppo di attivisti che gestisce una riserva protetta dove ogni anno milioni di farfalle monarca, provenienti dal Nord America, vanno in letargo durante l’inverno. Di lui non si hanno più notizie da una settimana… è un mistero…”.
“Paul, ma chi può volere il male di un uomo che sussurra alle farfalle?!”.
“I trafficanti di droga. Pare che abbiano interessi in quelle distese verdi di pini e abeti. Ascolta. ‘… I narcos abbattono intere foreste, creano aree per coltivare la marijuana… anche nello Stato di Chihuahua ci sono squadre di tagliatori, molto spesso giovanissimi, ingaggiati dai cartelli di Juárez. In poche ore fanno tabula rasa, segano i fusti e se li portano via sui camion’.
“E allora?”.
“Questo Hernández era stato minacciato diverse volte perché aveva denunciato questo scempio. Lo avranno ammazzato e, ora, anche le farfalle sono a rischio”.
“Pensi sempre al peggio…”.
“Sì, forse hai ragione… magari l’ha fatto sparire il mio capo… intralciava uno dei suoi sporchi affari…”.
Siamo in quota. L’aereo fa una virata a sinistra.
“Il primo viaggio… il nostro primo viaggio insieme… lontano…”.
Dana realizza solo in quel momento che siamo partiti. Guarda fuori dal finestrino. Sorride. Tira fuori dalla borsa lettore cd e cuffia. I Led Zeppelin sono il suo gruppo preferito. A metà di Stairway to Heaven spegne e appoggia tutto sul tavolino. Si mette a sfogliare la rivista di bordo. È irrequieta, sembra elettrizzata.
“Ne vuoi uno?”.
“No, grazie...”.
Scarta un chewing gum. Mastica lentamente. Si slaccia la cintura.
“Ho già fame… a che ora serviranno qualcosa da mangiare?”.
Detto fatto. Una hostess passa con il carrello. Dana consuma il suo spuntino e cade in un sonno profondo.
Ci siamo conosciuti all’università. Frequentavamo lo stesso corso di Economia aziendale. Ci vedevamo solo a lezione. Ognuno aveva la sua vita. Dopo circa sei mesi, però, lei si è trasferita alla University of The Arts per studiare moda e design.
Così ci siamo persi di vista. Per un po’ ci siamo sentiti al telefono, poi neanche più quello.
Ci siamo rivisti, per caso, in un centro commerciale. Era passato quasi un anno dall’ultima volta. Lei era con delle amiche. Io stavo con una ragazza con cui avevo iniziato da poco una relazione. Niente di impegnativo. Ci siamo salutati freddamente.
Poi un giorno Dana mi ha telefonato. “Mi piacerebbe se venissi alla festa per il mio compleanno”. Un invito tanto inaspettato quanto gradito. Mi sono presentato con un mazzo di rose rosse e un anello.
“Finalmente!”.
Non ha aggiunto altro. Mi ha abbracciato e baciato. Abbiamo lasciato i suoi amici a ballare, bere e divertirsi e siamo a andati a festeggiare per conto nostro. Da allora sono passati otto anni e non ci siamo mai più lasciati… chissà, durante questa vacanza potrei farle un’altra sorpresa: chiederle di sposarmi…

Di tutti gli atterraggi fatti, quello su Città del Messico è uno dei più spettacolari. Per oltre mezz’ora sorvoliamo la metropoli, una distesa senza fine di luci. È diventata così grande che ha inglobato l’aeroporto. Sembra quasi che l’aereo debba posarsi sui tetti delle case.
Uno steward passa a ritirare i due moduli che ci hanno raccomandato di compilare rigorosamente in stampatello. Uno per l’immigrazione, con un codice a barre e una striscia blu, che bisogna poi riconsegnare per uscire dal Paese. L’altro, per la dichiarazione degli articoli esenti da dazi: abiti, medicine per uso personale, macchina fotografica, computer, tre litri di vino, birra o liquori, 400 sigarette (questi ultimi – si legge – solo per gli adulti).
L’aereo tocca terra come una piuma, accompagnato da un applauso e un “hip hip urrà” per il comandante.
Dopo una lunga attesa per il ritiro dei bagagli, andiamo alla dogana. La fila è lunghissima. Siamo gli ultimi. Si avanza lentamente. Quando siamo vicini al traguardo, una donna in divisa ci sbarra il passo e ci devia verso un’altra interminabile fila. Finalmente arriviamo ai controlli. Di fronte a noi, una porta di metallo per lo screening elettronico. Un solerte agente mi fa segno di spingere il pulsante che sta davanti a me. Si accende la luce ver...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il Paese che uccide le donne
  3. Indice dei contenuti
  4. Prefazione
  5. Nota dell’autore
  6. Uno
  7. Due
  8. Tre
  9. Quattro
  10. Cinque
  11. Sei
  12. Ringraziamenti
  13. Collana Narrativa