Un revival non si nega a nessuno. Persino i pantaloni a zampa d’elefante conobbero una seconda stagione di gloria una ventina d’anni dopo i Settanta. Poi ci sono i revival dei revival, tipo Gianni Morandi, redivivo grazie a Lucio Dalla alla fine degli anni Ottanta e da allora elemento immutabile del panorama italiano.
Già, gli anni Ottanta.
Come era prevedibile, sono tornati di moda pure quelli. Che poi è quasi una ridondanza, la moda degli anni che per antonomasia erano gli anni della moda. All’inizio del secondo decennio del terzo millennio è infatti divenuto luogo comune rimpiangere i favolosi anni del “benessere”, della lira (con annessa svalutazione), dei paninari, della “Milano da bere” e della Borsa. Come se davvero allora fossimo tutti ricchi, belli e ottimisti.
Ho cercato di dimenticare quegli anni per molto tempo. Perché sono stati gli anni della mia adolescenza e chiunque abbia un minimo di pudore vorrebbe cancellare con un colpo di spugna quella fase oscena della vita. Però, come capita a chiunque abbia un minimo di pudore, arrivato a una certa età, mi sono ritrovato a farci i conti, con quegli anni. Sia intesi come anni miei, sia come periodo storico.
Perché no, non permetterò mai a nessuno di rimpiangere gli anni Ottanta, almeno in mia presenza.
A pensarci bene, gli anni Ottanta cominciano davvero solo nel 1985: tutto quello che accade prima è in pratica una propaggine del decennio precedente. Il mundial di Spagna, lo scudetto della Roma di Niels Liedholm, i funerali di Enrico Berlinguer. Provate a rivedere Bianca di Nanni Moretti. Gli alunni di Michele Apicella sono vestiti in jeans e camiciole anonime. Nessun capo firmato, tagli di capelli più o meno lunghi ma normali. Facce semplici. Io nell’autunno del 1985 avevo quattordici anni e mi apprestavo a iniziare il liceo scientifico. A Roma, al John Fitzgerald Kennedy di Monteverde Vecchio, per l’esattezza. Scuola notoriamente di destra. Perciò mi preparavo a scendere in trincea, forte delle mie convinzioni e delle mie letture. E orgoglioso della mia tesina sul Sessantotto per gli esami di terza media. Sapevo tutto del Che, di Mao Tse Tung e di Ho Chi Minh. Mi bastarono pochi giorni per capire che di queste storie non gliene fregava niente a nessuno. La politica? Una cosa schifosa. La musica? W Baglioni e La vita è adesso. Il cinema? Fico Jerry Calà, ma il massimo era Rambo II. La tv? Drive In! E che altro. Ma la cosa più difficile da imparare era un’altra: non esistevano più i jeans, i maglioni, le scarpe, il cappotto. Adesso si ragionava per: 501, Naj Oleari, Monclair, Dolomite, Millé, Timberland. Clarks. E l’orribile Schott nero. Sembra nulla, ma per me che vestivo (e vesto tuttora) alla boutique Upim e avevo (sotto costrizione di mia madre) i vestiti per casa e quelli per scuola, era un dramma.
In fondo, in quel doppio abbigliamento, erano ancora custoditi due princìpi destinati a scomparire proprio in quel decennio. Il primo e più importante era un pudore che nasceva dall’essere nati modesti e quindi dal tenere in conto un “vestito buono” da destinare al lavoro o alla scuola, ritenuti ancora luoghi in un certo senso “sacri”. Il secondo principio era una netta distinzione tra “casa” e “fuori casa”, tra vita privata e vita pubblica. Lo stesso motivo per cui, in una casa di sessanta metri quadri abitata da quattro persone, la camera da letto dei genitori era una specie di luogo sacro e inviolabile, in cui era assolutamente proibito anche far soltanto affacciare un estraneo. Quando nel 2000 arrivò in televisione il Grande Fratello, segnò l’abolizione totale tra pubblico e privato e forse anche del concetto stesso di pudore. Ma questa è un’altra storia, torniamo vent’anni indietro.
Nel 1985, l’unico elemento distintivo che mi potessi permettere era una zazzera a caschetto nerissima che faceva di me una specie di Enzo Paolo Turchi moro. I 501 si portavano calati in modo che il culo praticamente scomparisse. C’era chi il piumino (specie il Monclaire, non so perché) non lo levava nemmeno in classe con i termosifoni accesi.
Le ragazze non mettevano mai la gonna e avevano messe in piega a tre piani. I ragazzi avevano quasi tutti i capelli corti pettinati indietro con il gel. Che invidia. I miei, troppo lisci, non reggevano nemmeno cinque minuti. Se la vita scolastica faceva abbastanza schifo, in compenso la scuola era in uno dei posti più belli di Roma. Dalle finestre avevamo tutta la città sotto di noi. Il ministero della Pubblica istruzione era a duecento metri in linea d’aria ma le circolari arrivavano comunque sempre in ritardo.
I primi giorni di scuola fantasticavo cinque anni pieni di avventure, lotta politica, amori e passioni, da raccontare poi come nel Grande freddo, film allora appena uscito e destinato a essere imitato malamente da diversi registi italiani. Invece, finita la scuola non solo non ho praticamente rivisto nessuno dei vecchi compagni, ma non ho mai avuto nessuna voglia di cercarli.
La cosa paradossale è che l’uscita dall’infanzia era stata invece traumatica ma anche divertente. Le mie scuole medie parevano avere tutti i crismi del preludio a un’adolescenza vivacissima. Monteverde Vecchio non era ancora diventato il quartiere intellettuale e snob conosciuto in tutta Italia dopo Caro Diario di Nanni Moretti. Negli anni Ottanta, le case popolari di via Giacinto Carini erano ancora abitate dai primi proprietari, non erano divenute la residenza preferita di intellettuali, giornalisti e cinematografari. Io vivevo in un condomino di dodici palazzine, confinato tra la ferrovia della Roma-Viterbo e il cuore del vecchio quartiere. Che, ancora campagna nell’immediato dopoguerra, era nato negli anni del boom economico e aveva una composizione molto trasversale, sia per origini sia per ceto. Sì, certo, i prezzi degli appartamenti non erano più popolari, però si respirava ancora un’aria di fatica, di lavoro, di spesa al mercato, di accenti burini e meridionali e di storie raccontate col passaparola. Sotto il balcone di casa correva un unico binario di ferrovia che scompariva all’orizzonte dentro un tunnel. E ancora oggi, quando racconto che i treni che passavano andavano a vapore e in estate dovevamo chiudere le finestre per non far entrare il fumo bianco in casa, non mi crede nessuno.
Noi ragazzini giocavamo a pallone nel grande cortile in cui le macchine parcheggiate erano ancora poche. Pomeriggi lunghissimi di sfide, di botte, di parolacce e di storie a volte non raccontabili. Almeno una decina di ragazzi di quel condominio avrebbero conosciuto l’eroina proprio nel decennio dorato del grande consumo. Un paio morirono di Aids. Se ne parla poco adesso, ma allora era davvero una strage, comunemente associata a quartieri come Primavalle o Magliana, ma che in realtà toccava anche Monteverde. Negli angoli delle strade intitolate ai poeti del Dolce stil novo e con le graziose villette stile liberty, c’era chi si bucava, spacciava e scippava. La “gentrificazione” non esisteva nemmeno come ipotesi.
A ogni modo, il mio rischio maggiore, in quel principio di adolescenza, fu di morire di noia. Il liceo iniziò in modo soporifero. In quel primo anno le feste furono pochissime, le uscite collettive pure. Di colpo, dopo l’estate del 1985, a pallone sotto casa non si giocava più. Troppe macchine parcheggiate, troppo traffico. Nel giro di pochi mesi, quasi tutte le famiglie avevano comprato la seconda automobile. A casa avevamo ancora la vecchia 850 color sabbia. L’avrei tenuta fino al 1996. Immatricolata nel 1968, fece in tempo a lasciarmi appiedato la notte in cui l’Ulivo di Romano Prodi vinse le elezioni. Quasi un segno del destino.
Ma torniamo a quell’autunno del 1985. Un giorno morì Italo Calvino, un altro il Fronte per la liberazione della Palestina sequestrò il transatlantico Achille Lauro. A scuola arrivava tutto di rimbalzo. I ragazzi degli ultimi anni erano più rincoglioniti di noi. Però ci fu una bella assemblea sul Sud Africa. La seguimmo in venti. Poi dici che uno si iscrive alla Fgci. Per forza. Ma anche là la musica era tutt’altro che avvincente. Riunioni fumose, sia per l’inutilità delle chiacchiere che per la quantità di nicotina che volteggiava nelle stanze e ricadeva sui capelli e sui vestiti. Segretario nazionale dei giovani era allora un non giovane Pietro Folena, che una sera invernale parlò per ore di Gramsci a una platea di adolescenti storditi. Lo slogan più in voga era: “Il Nicaragua è rosso, l’Italia lo sarà”. Ora, d’accordo che ogni generazione ha le bandiere che si merita, va bene che i sandinisti erano parecchio simpatici, ma poi non meravigliamoci che tanta gente si sia aggrappata alla new age.
Pochi computer, niente fax, niente videoregistratori. Le ricerche si facevano ancora a mano e a Roma giravano ancora parecchi autobus verdi, di quelli con le sbarre di ferro oleose di sudore e il numero di linea indicato con pannelli di cartone. Fu un anno scolastico tremendo. A un certo punto nacque anche un movimento studentesco di tutto rispetto, con una sola parola d’ordine: “Dateci banchi nuovi”. Ancora qualche mese e uno spot pubblicitario avrebbe immortalato il fenomeno: “I ragazzi dell’Ottantasei preferiscono Mr Day”. Quest’ultimo era il nome di note merendine.
Per me, poi, quell’anno era iniziato con un’attesa precisa: quella della neve. L’anno prima a Roma c’era stata una nevicata record e speravo tanto che la cosa si ripetesse. A differenza della maggior parte dei miei compagni di classe, non ero mai stato in settimana bianca (e non ci sono nemmeno mai andato in seguito) e mi sentivo una specie di Marcovaldo alle prese con la neve in città. Figuriamoci se i ragazzi del Kennedy si lasciavano emozionare da una cosa così stupida. Tutti i giorni leggevo le previsioni del tempo e le temperature nella speranza di trovare indizi di un’imminente ondata di gelo. Alla fine (stranamente), la neve arrivò. Era febbraio ed era carnevale. Scuole chiuse per un paio di giorni e città bloccata. Con mio cugino – più piccolo di un anno – passammo un pomeriggio intero su uno slittino a via Lorenzo Valla, una delle discese più ripide di Monteverde. Quando lo raccontai, mi sentii dare del coglione da parecchie persone.
Ma più i mesi passavano e più mi accorgevo di avere comportamenti e desideri diversi da quelli dei miei compagni di classe. Il sabato pomeriggio lo passavo spesso da mia nonna insieme a mio cugino. Il fatto è che mi divertivo così. E credo che difficil...