Premessa
Perché Totò
Decidere di scrivere l’ennesimo libro su Totò genera riflessioni contrastanti: positive, perché esiste una tale mole di documentazione (saggi, internet, film ormai immediatamente reperibili) da rendere l’“operazione” facilmente gestibile; negative, perché l’assoluta inclinazione agiografica della critica (dopo anni di ostilità) rende l’“operazione” piuttosto complicata.
Antonio de Curtis, in arte Totò, ha sperperato il proprio talento nei numerosi film mediocri interpretati in tutto l’arco della sua carriera. Questo non significa non volerne riconoscere i meriti, il talento di una “maschera” inconfondibile, ma cercare di fare un po’ di ordine nella banalità. Non è vero che la critica non apprezzasse Totò (tranne, ovviamente, alcuni), più semplicemente gli rimproverava di non voler fare le giuste scelte, di partecipare ad operazioni di “pancia”, sostanzialmente basate sulla sua straordinaria capacità d’improvvisazione. Cast spesso di livello (registi, sceneggiatori, comprimari…) ma in prestazioni opache: “Tanto ad aggiustare ci penserà Totò”. De Curtis, del resto, non amava realmente il cinematografo: era semplicemente lo strumento che lo aveva portato all’agiatezza. Nella storia del cinema, ma con risultati personali ben differenti, c’è un altro “Grande” che ha dissipato la sua Arte: Orson Welles (e i due hanno pure recitato insieme!).
Se Totò è morto ormai da 55 anni, la sua rivalutazione critica incomincia con i primi anni Settanta (grazie, fra l’altro, alla riproposta in due sale di seconda visione di Roma e Milano di Totò a colori). Certo i colleghi, gli uomini e le donne di cinema, erano assolutamente consapevoli dello spessore artistico dell’attore, della sua maestria: durante le riprese tutti rimanevano rapiti dalla sua professionalità e grande capacità di costruire battute che spesso facevano morir dal ridere la troupe. Ma da parte degli osservatori della carta stampata il percorso è stato più lento.
Risulta abbastanza chiaro, a questo punto, che il mio giudizio sull’Arte di Totò coincide con ciò che ebbe modo di scrivere Umberto Eco alcuni anni fa: «Sul Corriere della Sera di lunedì scorso Tullio Kezich risponde a Renzo Arbore il quale avrebbe affermato che Totò è più grande di Charlie Chaplin. Kezich osserva che Chaplin è un artista a tutto tondo perché ha concepito e diretto, oltre che interpretato i suoi film, mentre Totò è stato variamente sfruttato, direi, come “materiale” comico e in modo spesso occasionale. Premetto che sono un fanatico di Totò e non mi stanco mai di rivedere i suoi film, anche se li conosco a memoria, mentre rivedo Chaplin con moderazione, oserei dire con rispettoso distacco. Eppure ritengo che Chaplin sia un grande artista, come Balzac o Vivaldi, mentre Totò resta un insuperabile fenomeno di comicità istintiva, un fatto di natura, come un uragano o un tramonto». Era un commento nella rubrica de L’Espresso “La bustina di Minerva” dal titolo inequivocabile: “A prescindere da Totò è meglio Chaplin”: Eco delimitava i confini tra “arte” e “artigianato”.
Soltanto se si sgombera il campo da imbarazzanti paragoni – Charlot, Buster Keaton, Laurel & Hardy… – si può continuare ad ammirare l’“unicità” di Totò. Che non era un intellettuale, ma nemmeno un regista o uno sceneggiatore, del calibro dei comici citati (per la “coppia” Stanlio e Ollio, ovviamente Stan Laurel). Certa critica “buonista”, sviluppatasi nel periodo della rivalutazione dell’artista, alla fine lo ha come imbalsamato in innumerevoli luoghi comuni. E, certamente, non si deve attribuire a Pasolini il merito dell’ascesa di Totò nell’empireo della Cultura: l’attore venne “usato” come una marionetta (una maschera) in operazioni lodevoli ma che egli nemmeno comprese in pieno, tanto culturalmente erano da lui distanti.
A voler riassumere in poche righe l’attività professionale di de Curtis, si potrebbe scrivere che i massimi livelli di comicità furono raggiunti nei film in coppia con Peppino De Filippo e che la carriera produttiva si può così “codificare”: il periodo più fecondo con le produzioni di Giovanni Amati (Mario Mattoli, Carlo Ludovico Bragaglia, film del calibro di Guardie e ladri) e le produzioni – talvolta impegnative – dei partner in affari Dino De Laurentiis-Carlo Ponti; e il lungo declino con le commedie piccolo-borghesi prodotte da Isidoro Broggi e Renato Libassi (che, tuttavia, danno vita ad opere spassose e ancora ricordate come Totò, Peppino e la… malafemmina o Signori si nasce), per finire con le operazioni produttive del genero Gianni Buffardi, che introduce un “corpo estraneo” come il regista Sergio Corbucci.
Quando abbiamo deciso di scegliere “solo” dieci nomi (fra registi e attori) che rappresentassero il Cinema del 900 italiano, quello di Totò è stato comunque fra i primi ad emergere. Ancora una volta per la sua “unicità” nel panorama artistico nazionale (e non solo) indipendentemente da ragionamenti che potessero avvitarsi intorno alla definizione di Arte.
Come pochi altri (in tempi successivi Massimo Troisi, anch’egli napoletano) Totò concepisce la commedia come un tutt’uno con i giochi linguistici (oltre che corporali): si avvale delle possibilità offerte dal linguaggio comico (dalla sua più antica tradizione, al teatro popolare senza dimenticare la commedia dell’arte) per ottenere l’alienazione dei suoi spettatori (e dei personaggi che gli fanno da spalla) come reazione ai codici tradizionali della comunicazione, codici che si riducono a semplici suoni quando non si trasformano in veicoli dai significati molto lontani da quelli attesi, se non addirittura opposti. Il risultato è il paradossale tentativo di comunicare attraverso l’incomunicabilità, uno straniamento che de Curtis esprimeva a livello istintivo: «Dunque: noi vogliamo sapere, per andare dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare. Sa, è una semplice informazione…». Certo, poi è subentrata la studiata professionalità. La deformazione dei nomi è la figura retorica preferita da Totò (e dal suo pubblico) perché legata all’improvvisazione, ma anche utile salvagente dai buchi di sceneggiatura: l’attore sopperiva alle lacune narrative in maniera magistrale. Memorabile, ne La banda degli onesti la storpiatura che Totò fa del cognome del personaggio di Peppino: così Lo Turco diventa “Lo Turzo”, “Lo Curto”, “Lo Tricoli”, “Lo Struzzo”, “Gian Turco”, “Turchetti”!
La sostituzione dei suoni poteva consistere nel cambio di una lettera o di un suono; oppure nella trasposizione di fonemi all’interno di una parola [metatesi], “fedigrafo” per fedifrago; o di parole diverse, “che topi di tipi” al posto di “che tipi di topi”; o nell’alterazione dell’ordine delle parole di un’intera frase, “un amico vestito da prete” diventa “un prete vestito da amico”. Ma Totò utilizza spesso anche un’altra figura retorica (quanto consapevolmente?), l’inquadramento di una parola in una serie esclusivamente per associazioni fonetiche o morfologiche [paretimologia]: un classico la sua abitudine nel mescolare continuamente le lingue. Un vero vortice linguistico quello dell’attore, nel cercare – e creare – somiglianze semantiche tra parole partendo dalla somiglianza fonetica (magari per deformarle ulteriormente): «Noio… volevam… volevàn savoir… l’indiriss…ja…».
La lingua di Totò spazia dall’italiano popolare a quello dei tecnicismi e della burocrazia passando per il turpiloquio, forme auliche e arcaiche, stereotipi e discorsi snob della borghesia (in salsa partenopea). In molti suoi film sono presenti personaggi dal forte accento regionale, in un mescolamento di dialetti che realmente dà il senso dell’Unità d’Italia.
Di contro, Totò predilige ridicolizzare l’italiano ufficiale e lo fa attraverso quei personaggi che preferiscono il linguaggio eccessivamente altisonante caratteristico degli avvocati e dei notai; personaggi che criticano l’uso del dialetto da parte di altri, accusandoli di essere ora dei “polentoni”, ora dei “terroni”; e scatta la contraddizione: «Qui si parla italiano… ostrega!».
Ben si comprende che l’“unicità” di Totò è stata anche la sua prigione: per quanto spesso “esportato” all’estero (soprattutto in Spagna, talvolta in Francia), l’attore perdeva totalmente le sue peculiarità. Molto di più di quanto potesse accadere ad un Fernandel o a un Louis de Funès tradotti in italiano. Su questo versante metalinguistico di storpiature, Totò si sbizzarriva con l’uso del latino, infarcendo di motti storpiati i suoi dialoghi: da Lupus in fabula scambiato per un nome, alla preghiera (?) Cave canem, cave canem, in hoc signo vinces, est., est., est!, da A estremum malis estremus rimedium a Castigat ridendo mores: ridendo castigo i mori, da Ho pazienza, aspetto. Gattibus frettolosibus fecit gattini guerces, da Audax fortuna iuvat. Chiaro? a De gustibus non ad libitum sputazzellam.
È evidente che il latino rappresenta la lingua del potere e che Totò non fa altro che ispirarsi all’antica tradizione della Commedia dell’Arte e ai suoi divertenti esempi di latino maccheronico che in Italia caratterizzano il teatro popolare senza soluzione di continuità. La sua è una continua provocazione.
Insomma, qualunque sia la deformazione linguistica (lingue straniere, latino…), Totò utilizza questo linguaggio articolato senza un significato apparente, ma lo distribuisce sapientemente per contribuire al processo di alienazione che è alla base della (sua) commedia.
Qualche esagerato estimatore di Totò si è spinto a ritenerlo più “elevato” di Charlot proprio perché, contrariamente a quest’ultimo, sarebbe intraducibile. Ora, posto che semmai è proprio l’“universalità” a confondersi con l’Arte, è precisamente questa complicazione linguistica insita in Totò ad impedirgli di manifestarsi oltre i lidi nazionali (e quelli foneticamente attigui).
Come sempre Umberto Eco ebbe a scrivere in un suo articolo: «Il che m’indurrebbe a riflettere su come, in questo universo globalizzato in cui pare che ormai tutti vedano gli stessi film e mangino lo stesso cibo, esistano ancora fratture abissali e incolmabili tra cultura e cultura. Come faranno mai a intendersi due popoli di cui uno ignora Totò?».
Ecco, quindi, Totò secondo questo “ennesimo” saggio, come scrivevo all’inizio. Un tes...