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«L'impero si è letteralmente disintegrato un giorno feriale. Un mercoledì qualsiasi».Vasilij Rozanov, L'Apocalisse del nostro tempo?A trent'anni dal "suicidio" dell'Unione Sovietica, l'autore ripercorre il Termidoro e la storia dell'Urss attraverso la raccolta di brevi saggi, scritti in presa diretta tra il 1987 e il 1992.IL LIBRO: Dopo la morte di Brežnev nel 1982, seguita dai due brevi interregni di Andropov e ?ernenko, l'ascesa di Gorba?ëv nel 1985 poneva fine alla gerontocrazia. Attraverso perestrojka e glasnost' vennero subito introdotte radicali riforme politiche che, in assenza di un piano economico ben definito, condussero in breve tempo a una situazione di caos generale, a una grave penuria alimentare e al sorgere di pesanti conflitti interetnici da decenni sopiti.Le enormi concessioni unilaterali, prive di contropartite, agli Usa e alla Nato, condussero in pochi anni allo scioglimento del Patto di Varsavia e alla riunificazione tedesca. Nonostante nel referendum del marzo 1991 il 77% degli elettori si fosse espresso per il mantenimento dell'Urss, sia pure sotto altra forma, il contro-colpo di stato di El'cin nell'agosto dello stesso anno portò alla disintegrazione dell'Unione Sovietica, che il 25 dicembre cessò di esistere.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788831492454
Argomento
Storia
IL SUICIDIO DELLURSS
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2.Visita alla Casa museo di Maksim Gorkij. Mosca, 28 dicembre 1985.
Avvertenza dell’autore
Raccolgo in questo volume alcuni articoli apparsi prevalentemente su La Stampa e scritti – con una sola eccezione, il breve saggio su Herzen a Parigi – fra il 1987 e la fine del 1992. Anche quando trattano di storia russa, di grandi scrittori, di crisi jugoslava o della morte dell’Impero ottomano, questi articoli parlano sempre implicitamente di ciò che è accaduto in Russia. Un grande poeta romantico, Fëdor Ivanovič Tjutčev, che fu diplomatico a Torino nei primi anni Quaranta dell’Ottocento, scrisse in versi famosi che «la Russia non si può capire con lintelletto, in essa si può solo credere». Forse un modo per comprendere l’ultima grande rivoluzione russa è quello di girarle attorno, in cerchi sempre più stretti, parlando non soltanto di politica e di economia, ma anche di storia e letteratura.
I. La lunga storia slava
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3. Sergio Romano e l’accademico Bruno M. Pontecorvo.Visita al LJaP Laboratorja Jadernikh Problem del JINR (Joint Istitute for Nuclear Research). Mosca, seconda metà degli anni Ottanta. Archivio di Sergio Romano.
Il saggio su Herzen è stato scritto per un colloquio sull’Émigration politique en Europe au XIXe et XXe siècles che si è tenuto a Roma nel marzo del 1988 per iniziativa dell’École française di Roma e del Centro per gli studi di politica estera e opinione pubblica dell’Università di Milano. Gli articoli sugli ebrei russi e sui rapporti della Santa Sede con la Russia e lo Stato d’Israele sono apparsi ne La Rivista dei libri.
LA GRANDE FAMIGLIA SLAVA
L’Unione Sovietica prima del suo declino e la Russia zarista prima della Rivoluzione d’Ottobre sono grandi imperi ideologici e messianici in cui volontà di potenza e desiderio di conversione o espansione spirituale diventano aspetti complementari di una stessa vicenda politica e umana. Da quando il metropolita Zosima, nel 1492, dichiara che «Mosca sarà la terza Roma», e il monaco Filoteo, nel 1514, proclama che Basilio III è l’«unico basileus di tutti i cristiani», la Russia moscovita diviene al tempo stesso erede di Bisanzio e custode dell’ortodossia religiosa. Da quando Lenin, improvvisamente riapparso alla tribuna dello Smol’nyj nella notte fra il 25 e il 26 ottobre 1917, annuncia al mondo la «prima rivoluzione proletaria», lo stato che egli si appresta a creare porta sulle proprie spalle il peso di una responsabilità ideologica e di una missione mondiale. Gli uomini che governano a Kiev, Mosca o Pietroburgo non sono soltanto principi, imperatori o segretari generali. Sono anche gran sacerdoti di una fede religiosa o rivoluzionaria. Dopo il matrimonio di Ivan III con Sofia Paleologa, nipote dell’ultimo imperatore bizantino, i grandi principi di Mosca innalzano sulle loro insegne l’aquila bicefala della tradizione imperiale greca e adottano per la loro incoronazione il cerimoniale bizantino. Dopo la morte di Lenin la sua immagine, riprodotta in milioni di esemplari, sostituisce nelle case e negli uffici le icone della tradizione religiosa. E non v’è conquista russa o sovietica, dal Caucaso al Baltico, dalla Siberia ai “protettorati” socialisti in Europa centrale dopo la Seconda guerra mondiale, che non sia stata giustificata con motivazioni al tempo stesso politiche e ideali.
Secondo Francis Conte, professore alla Sorbona e autore di una grande “biografia” del popolo slavo dalle origini ai nostri giorni apparsa ora in Italia presso Einaudi (Gli Slavi. Le civiltà dell’Europa centrale e orientale), questa vocazione imperiale e messianica non è soltanto russa. Se ne ritrovano tracce nell’impero della Grande Moravia che si costituì nel secolo IX all’incrocio fra la “via dell’ambra” e la via del Danubio; nella Bulgaria dello zar Giovanni Alessandro (1331-71) che si proclamò «autocrate di tutti i bulgari e di tutti i greci»; nella Serbia di re Stefano Dušan (1345-55) che si definì «re e autocrate di Serbia e di Romania»; nel Commonwealth polacco-lituano degli Jagelloni che si estese sino all’intera Bielorussia e a larga parte dell’Ucraina.
Eppure vi fu un tempo in cui questi popoli, così fortemente “chiamati” dal sentimento di una grande missione terrena, furono senza fede. Precariamente accampati fra i Carpazi e gli Urali, fra le foreste dell’Europa settentrionale e le steppe del Volga, fra l’influenza scandinava dei variaghi e quella asiatica dei chazari, gli slavi furono per qualche secolo una sorta di nebulosa umana che vagava inquietamente per l’Europa alla ricerca di una propria identità statale e religiosa. Per i russi il momento della scelta si colloca alla fine del primo millennio quando sul trono di Kiev regnava il “gran principe” Vladimiro. Vennero i bulgari, che praticavano allora la fede dell’islam, e decantarono le virtù della loro religione fra cui, in particolare, l’astinenza dall’alcol e l’amore delle uri. Vennero i chazari, che si erano convertiti all’ebraismo, e illustrarono i dettami della legge mosaica. Vennero i viaggiatori russi che si erano spinti sino alla Germania, e descrissero l’austera liturgia dei cristiani d’Occidente. Vennero infine quelli che si erano spinti sino a Costantinopoli, e poterono evocare con parole di ammirazione i grandi riti che si celebravano nella cattedrale di Santa Sofia. Deciso a porre il suo paese sotto l’influenza modernizzatrice di una grande religione monoteista, Vladimiro pesò attentamente i vantaggi e gli svantaggi delle scelte che gli venivano proposte. Dopo avere scartato l’islam («noi russi amiamo bere, non possiamo vivere senza fare ciò») e il giudaismo («se dio avesse amato voi e la fede vostra […] voi non sareste stati dispersi per le terre straniere»), decise di abbracciare la versione orientale del cristianesimo e di battezzare l’intero popolo russo. Fu quindi lo “shock estetico” subito dagli ambasciatori di Vladimiro alla corte dell’imperatore di Bisanzio che fissò, secondo Francis Conte, il destino politico-religioso dei russi e di tanta parte del mondo slavo. E fu l’eredità politico-religiosa di Costantinopoli che divenne da allora il nucleo centrale di quella che potrebbe chiamarsi l’ideologia slava.
Più tardi, sotto l’influenza di Herder e del nazionalismo tedesco, gli slavi andranno alla ricerca del loro passato e troveranno nelle istituzioni comunitarie della loro civiltà rurale – la proprietà indivisa della terra, la democrazia “consensuale” del villaggio, la “grande famiglia”, le cooperative artigiane – le tracce di una straordinaria continuità ideale e i segni distintivi di una cultura che ha costantemente rifiutato il materialismo individualista dell’Occidente. Francis Conte non ignora che queste elaborazioni intellettuali deformano il passato per meglio adattarlo alle ambizioni panslaviste dei loro autori. Ma gran parte del suo libro è dedicata per l’appunto alla vita degli slavi attraverso la storia, al ruolo della donna, alle funzioni sociali e familiari, ai rituali magici, ai sacrifici espiatori, alle istituzioni comunitarie, ai legami della parentela spirituale, all’influenza della Chiesa; insomma a tutti quei caratteri che la grande famiglia slava avrebbe portato con sé dalla notte dei tempi.
Il libro è quindi anzitutto un grande ritratto antropologico del popolo slavo, un’affascinante descrizione dei suoi tratti distintivi. Ma il suo merito maggiore è nella grande abilità con cui Francis Conte passa dal dettaglio antropologico all’affresco storico, dai “folli in dio” della tradizione mistica agli autocrati del Cremlino, dalla vita quotidiana nel mir rurale allo scontro delle popolazioni russe contro le orde mongole e i cavalieri portaspada, dalle favole dell’antichità alla storia dei grandi miti – il retaggio scita, la tradizione sarmatica, Bisanzio, la steppa, gli effetti devastanti della cultura tatara all’epoca dell’Orda d’oro – che hanno marcato l’evoluzione del “carattere etnico”.
Ma può davvero parlarsi di un popolo slavo? È davvero possibile parlare degli slavi come d’una grande famiglia umana legata da vincoli di sangue e di cultura che resistono al logorio delle vicende umane e dei rivolgimenti politici? E se è possibile parlare degli slavi in questa prospettiva, perché non dovremmo leggere domani un libro sui “latini” in cui italiani, francesi, spagnoli, portoghesi e ladini sono descritti come membri di una grande gens storica? Il libro di Conte ha i difetti delle sue virtù. Nel dimostrare, con l’impostazione storiografica della scuola delle Annales, la continuità degli slavi, esso finisce talora per fare accostamenti anacronistici tra periodi diversi, per sottolineare le somiglianze apparenti a tutto svantaggio delle differenze sostanziali. Dopo avere studiato minuziosamente i tempi lunghi della storia slava Conte cede talvolta alla tentazione di attraversarla fulmineamente per approdare, con una specie di corto circuito comparativo, sulla Piazza Rossa negli anni di Lenin e di Stalin. E finisce per dare la sensazione che gli slavi sono immutabili o capaci, tutt’al più, di lentissima evoluzione.
Ciò non toglie che il metodo di Conte produca in molti casi risultati interessanti e fornisca utili chiavi per la lettura del presente. Il suo libro dimostra ad esempio, forse al di là delle sue stesse intenzioni, che il continente slavo è attraversato da una frontiera storica. Da un lato vi sono i popoli che hanno lungamente gravitato verso la Chiesa di Roma, il Sacro Romano Impero, l’Impero asburgico e più generalmente la cultura dell’Occidente europeo. Dall’altro vi sono quelli che hanno più fortemente subito l’influenza di Bisanzio, della dominazione mongola e dell’Impero ottomano. Questa frontiera attraversa l’Europa dal Baltico ai Balcani separando la Galizia uniate dall’Ucraina ortodossa, la Serbia comunista e ortodossa dall’Illiria romana e cattolica. La disintegrazione dell’Urss e della Jugoslavia ha dimostrato quanto quella frontiera sia tenace. Racconta Conte che Napoleone fu salutato in Carniola – l’odierna Slovenia – come il «liberatore dell’Illiria». Non è facile immaginare uno stesso destino per l’intera famiglia slava quando uno stesso uomo può essere percepito come “flagello di dio” a Mosca e “liberatore” a Lubiana.
25 maggio 1991
UN ITALIANO NELLA CITTÀ DI PIETRO
Pietroburgo è una “finestra sull’Europa”. La definizione è un nomignolo che accompagna automaticamente il nome della città in tutta la pubblicistica politico-letteraria dall’Ottocento a oggi. Come tutti i luoghi comuni anche questo ha molti padri. Fu Puškin che ne Il cavaliere di bronzo gli conferì un crisma poetico e gli assicurò grande diffusione. Ma il primo a farne uso in un testo letterario fu probabilmente Francesco Algarotti nei suoi Viaggi di Russia, apparsi presso Guanda, a cura di William Spaggiari, in una bella collana di classici italiani che Dante Isella cura per la Fondazione Pietro Bembo. In una lettera datata «Pietroburgo, 30 giugno 1739» Algarotti descrive la città come «un gran finestrone, dirò così, novellamente aperto nel Norte, per cui la Russia guarda in Europa».
Quando vi giunse il 21 giugno del 1739, aveva soltanto 26 anni e viaggiava al seguito di Lord Baltimore, capo di una delegazione che avrebbe rappresentato l’Inghilterra al matrimonio della principessa di Mecklenburg, nipote della zarina Anna, con il principe di Brunswick. Ma era molto noto in tutta Europa per un libro di divulgazione scientifica apparso due anni prima sotto il titolo Il Newtonianismo per le dame, ovvero dialoghi sopra la luce e i colori. Forse il personaggio dei nostri tempi che più gli assomiglia per varietà d’interessi, abilità di sintesi, capacità d’interpretare e alimentare le curiosità del momento è Prezzolini. Fra le grandi curiosità del momento vi era per l’appunto la Russia.
Da quando Pietro aveva progettato la sua capitale, costruito una flotta, sconfitto gli svedesi a Poltava e affrontato i turchi in Crimea, la Russia era uscita dalle nebbie esotiche in cui era stata avvolta nei secoli precedenti. Come emerge chiaramente dalla bella e documentata introduzione di Spaggiari, è la Russia, nella prima metà del Settecento, il paese in cui occorre andare e di cui occorre parlare per imporsi all’attenzione della pubblica opinione e della repubblica delle lettere.
Pietroburgo aveva allora 36 anni di vita. Non era stato ancora completato il palazzo d’Inverno, che Rastrelli aveva cominciato a costruire nel 1732, e non esistevano né il monumento di Falconet a Pietro il Grande che ispirò il poemetto di Puškin, né l’arco dell’Ammiragliato, il Teatro Mariinskij e lo Smol’nyj che Rossi e Quarenghi costruiranno tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento. Ma la città ormai esisteva, con la sua mirabolante sfilata di palazzi sulla Neva e le grandi fabbriche di Domenico Trezzini e degli altri architetti ticinesi che Pietro il Grande aveva invitato in Russia sin dall’agosto del 1703, l’anno della fondazione della città. È questo lo spettacolo che si svelò agli occhi di Algarotti non appena la sua barca lasciò il canale fra i boschi che collegava il golfo di Finlandia al centro della città.
Algarotti non è Custine, che visiterà Pietroburgo un secolo dopo, e non appartiene a quella schiera di viaggiatori, soprattutto francesi e tedeschi, che cercarono di entrare nel labirinto culturale della vita russa per comprenderne le peculiarità e spiegarne i meccanismi politico-sociali. È un giornalista politico-economico con uno spiccato interesse per gli aspetti concreti e quantificabili del potere statale: flotta, esercito, traffici commerciali, entrate fiscali, risorse economiche, condizioni geopolitiche, potenza militare.
Grande manipolatore e diffusore di “luoghi comuni”, Algarotti fu uno dei primi a mettere in circolazione, insieme all’immagine della finestra, quella dell’orso. In una delle sue lettere da Pietroburgo raccontò che qualche giorno prima aveva sentito rappresentare la Russia, «non so da chi», come un «grand’orso bianco le cui zampe di dietro stanno fitte nel lido del Mar Glaciale, e la coda vi è immersa dentro, il griffo lo ha posato al mezzodì verso la Turchia e la Persia; e con l’una zampa e con l’altra dinanzi si stende lungi a levan...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Occhiello
  3. Frontespizio
  4. Colophon
  5. Prefazione
  6. Introduzione
  7. IL SUICIDIO DELL’URSS
  8. Note sulla traslitterazione
  9. Collana Historos
  10. Novità
  11. Ebook disponibili