Guerre partiche
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A portare alla ribalta sul confine dell'Eufrate l'Impero partico, una realtà che Roma aveva forse in un primo tempo parzialmente sottovalutato, fu la disfatta subita il 9 giugno del 53 a.C. da Marco Licinio Crasso sul campo di Carre. I Parti, che nel III sec. a.C. si erano insediati nei territori iranici conquistati da Alessandro Magno, godevano di un'immagine di guerrieri bellicosi e temibili, specie per i loro arcieri montati e la cavalleria pesante. Non è ancora certo quali furono le reali motivazioni che portarono i Romani a impegnarsi in tre secoli di guerre, con alterne vicende e battaglie cruente, contro un impero che a un certo punto fu considerato il principale "rivale" dell'Urbe sulla scena del mondo conosciuto. Sta di fatto che il conflitto non ebbe vero e proprio epilogo: andò spegnendosi con la dissoluzione dell'Impero partico causata da instabilità e ribellioni interne.

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Informazioni

Editore
Pelago
Anno
2021
ISBN
9791280714138
FOCUS

IL PROLOGO

A portare alla ribalta sul confine dell’Eufrate l’Impero partico, una realtà che Roma aveva forse in un primo tempo parzialmente sottovalutato, fu la disfatta subita il 9 giugno del 53 a.C. da Marco Licinio Crasso sul campo di Carre (odierna Harran, al confine turco-siriano): uno scontro i cui echi contribuirono ad influenzare a lungo le vicende del Vicino Oriente.
Almeno all’inizio, lo Stato arsacide si era rivolto verso il potente vicino occidentale, le cui armate avevano qualche anno prima schiantato l’Armenia di Tigrane, con rispettosa attenzione. Nati sotto questo segno almeno dall’età di Silla (96 a.C.), i primi contatti con Roma avevano raggiunto un equilibrio, apparentemente stabile, nell’accordo stipulato pochi anni prima tra Pompeo e il sovrano di allora, Fraate, che fissava il confine tra le due potenze al corso dell’Eufrate; e nel 53 a.C. l’intesa era ancora valida.
La Partia era uno Stato non centralizzato nato dal sedentarizzarsi, in corrispondenza dell’odierno altopiano iranico, della popolazione dei Parni, venuta dal mondo delle steppe attorno alla metà del III secolo a.C. Questa, a partire forse dall’epoca di Antioco IV di Siria (sul trono dal 175 a.C.), si era impadronita via via di gran parte delle terre già appartenute alla monarchia seleucide, raggiungendo infine il corso dell’Eufrate.
Vincolati al potere arsacide – questo il nome della dinastia – da legami piuttosto labili e rimessi sovente in discussione, i regni clienti che facevano parte di questa compagine (la Caracene, per esempio, e la Gordiene, l’Osroene e l’Adiabene, l’Elimaide, Hatra, la Perside o la stessa Armenia e la Media Atropatene, le cui dinastie erano imparentate con la casa regnante) riuscivano talvolta a ritagliarsi spazi anche importanti di autonomia.
Inoltre, nell’ambito di uno Stato i cui caratteri sono stati con qualche approssimazione definiti “feudali” si mostravano spesso riottose e restie all’obbedienza anche le grandi famiglie (o clan) nobili – i Suren, che per tradizione incoronavano i re arsacidi, e i Karen; nonché, noti solo per il successivo periodo sasanide ma forse già esistenti, Mihran e Spahpat, Andegan e Gevpur, Zek, Spandiyad e Varaz –, insignorite di “feudi”, grandi possedimenti territoriali, dal cui contributo i sovrani non potevano prescindere per assemblare i propri eserciti.
A tutti questi elementi si aggiungevano identità etniche diverse; e in particolare l’elemento persiano, fiero della gloria passata e restio ad accettare l’egemonia partica, cui riservava una tacita e rancorosa opposizione.
Oltre che dalla sua stessa struttura, la stabilità della monarchia arsacide era costantemente minacciata, infine, anche dall’assenza di un criterio di successione sicuro; una situazione che permetteva agli esponenti dei rami cadetti di mettere ogni volta in discussione la legittimità del re sul trono, accreditando le proprie personali ambizioni, e che giocò di norma a favore di Roma, sempre in grado di suscitare in seno alla potenza rivale rovinose contese intestine, reintroducendovi qualcuno di quei prìncipi che venivano a cercare nell’Urbe asilo e sostegno politico.
Il potenziale bellico dello Stato orientale si fondava dunque di necessità sull’accordo, spesso precario, dei potentati che ne componevano la compagine, ed era, perciò, in fondo più fragile rispetto a quello dell’Impero romano.
Tanto più che, oltre ai già ricordati fattori di natura politica, altri ve n’erano, di carattere strategico, capaci di minarne le risorse, come la proverbiale incapacità poliorcetica dei suoi eserciti e l’assenza di flotte, o almeno di squadre navali, a presidio dei due grandi fiumi, il Tigri e l’Eufrate, che ne bordavano il territorio ad occidente.

UNA TEMIBILE CAVALLERIA

Pur non mancando di forze appiedate, la cui qualità era però assai scarsa, l’esercito arsacide contava soprattutto sull’efficienza delle sue forze montate: squadroni di cavalleria pesante, lancieri corazzati o catafratti (hippèis katáphraktoi) che inquadravano l’alta aristocrazia del regno, e reparti assai più numerosi di arcieri a cavallo (hippotoxótai), famigli o vassalli della nobiltà minore, che seguivano in guerra i loro signori, equipaggiati con quelli che, per loro, erano quasi strumenti quotidiani: il cavallo e l’arco.
Rivestiti di pesanti armature, i catafratti dovettero costituire, per i primi due secoli dell’era nostra, un corpo dall’aspetto multiforme, almeno nei particolari: mancando allo Stato partico un’organizzazione centralizzata, che uniformasse la panoplia dei cavalieri, la scelta delle diverse parti dell’armamento dovette infatti essere lasciata in sostanza al capriccio dei singoli, sicché variarono a lungo sia il tipo di protezione (per lo più, forse, una cotta di maglia o una corazza formata di lamine o scaglie cucite su un supporto di cuoio), sia il materiale (che, a giudicare dal dato archeologico, poteva essere bronzo o ferro per la maglia, bronzo o ferro, ma anche osso e persino legno per le placche e le falde protettive). Un’armatura analoga copriva anche il cavallo, rivestito da una spessa gualdrappa, di solito in pelle non conciata, appesantita a volte con scaglie e anelli metallici cuciti a rinforzo.
L’armamento offensivo si componeva di una lunga lancia e di una pesante sciabola (o di un’ascia da guerra o di una mazza ferrata), appesa al fianco del cavaliere che poteva, forse fino dall’epoca di Carre, essere a sua volta fornito di arco.
Avvezzo a sostenere con i suoi pari scontri che dovevano ricordare quelli delle giostre medievali, il catafratto partico, che montava un cavallo sprovvisto di staffe, aveva adottato accorgimenti per aumentare la stabilità: la sella era dotata di grandi arcioni sporgenti e l’asta da urto, di solito libera in modo che si potesse impugnarla con una o due mani, poteva forse, nel caso di uno scontro con un altro catafratto, esser fissata al collo e alla groppa del cavallo, così che il cavaliere si limitava a orientarla contro il bersaglio senza doverne reggere l’impatto e, anzi, riusciva a servirsene come sostegno durante la corsa.
Le pesanti armature degli uomini e dei cavalli accrescevano enormemente la forza d’urto di questa temibile massa corazzata, i cui componenti, secondo le fonti, si muovevano all’unisono durante la carica, quasi sfiorandosi a contatto di gomito, così che il loro impatto con il nemico risultasse sempre pieno e devastante. Occorreva tuttavia disporre di animali dalla possanza e dalla taglia assolutamente uniche: sembra che i catafratti montassero per lo più i celebri cavalli della piana di Nisa, in Margiana. Quale che fosse la resistenza di questi animali, comunque, il peso e l’ingombro della protezione limitavano l’impiego dei cavalieri alla pianura soltanto e ne riducevano l’autonomia ad una sola, breve carica, sia pur travolgente.
Gli arcieri montati, il corpo più rappresentativo dell’esercito arsacide, erano armati con l’arco composto originario del mondo delle steppe. Quest’arma era formata unendo più materiali: il nucleo ligneo del fusto era rivestito sulla parte esterna, orientata verso il bersaglio, con fasci tendinosi, resistenti alla trazione, mentre sul lato interno erano disposte, aderenti al legno, lamine di corno, resistenti alla compressione. L’insieme, fermato con collanti, veniva poi fasciato completamente di tendini animali e infine ricoperto di lacche o vernici.
Non facile a tendersi, l’arco era dotato di straordinaria potenza. Di necessità corto e compatto così da venire usato stando a cavallo, esso doveva però poter essere teso a piena apertura di braccia, per aumentare la portata di frecce inizialmente in canna, lunghe e leggere; era dunque del tipo cosiddetto “a doppia curvatura”, poiché, quando non era incordato, risultava flesso in senso contrario a quello della trazione.
Abilissimi arcieri, gli hippotoxótai erano anche cavalieri superbi, in grado sia di condurre rapide puntate offensive, sia di operare ripetuti caroselli attorno al nemico, e specialisti nello scagliare la cosiddetta “freccia del Parto”, il colpo mortale scoccato all’indietro durante la fuga.
Fu soprattutto con forze di questo tipo che i Parti affrontarono le armate di Roma.

GLI EVENTI

Durante il convegno svoltosi a Lucca nel 56 a.C. fra i membri del primo triumvirato, Crasso aveva ottenuto il governatorato sulla Siria, da poco entrata a far parte dei domìni di Roma. Un plebiscito dell’anno seguente aveva fornito al proconsole un esercito di sette legioni e lo aveva insignito di un comando quinquennale, autorizzandolo a stipulare trattati e, ove lo ritenesse, a far guerra contro quelli che venivano definiti genericamente «i popoli confinanti».
Tra le genti dell’area alle frontiere orientali dell’impero gli Arabi nabatei, a sud, si mantenevano per ora tranquilli. Restavano, oltre l’Eufrate, i Parti soltanto, i quali però, anche perché impegnati in una delle loro solite contese civili, non rappresentavano una minaccia; eppure il triumviro progettava proprio un’ingiustificata guerra di aggressione contro la monarchia arsacide. Quando Crasso, in risposta all’appello di Mitridate, fratello del re Orode II e suo rivale per il trono, che chiedeva l’intervento di Roma in suo favore, invase la Mesopotamia, i Parti poterono dunque proclamare a ragione di sentirsi formalmente in pace con la res publica.
Cosa spinse a questa avventura l’anziano triumviro? Secondo la tesi prevalente nelle fonti, egli aspirava a conquistare una gloria militare che lo mettesse sullo stesso piano di Cesare e soprattutto di Pompeo. E tuttavia non può essere ignorato neppure il movente della cupidigia, connaturato – pare – nell’uomo più ricco di Roma. Appena arrivato in Giudea, Crasso si impadronì sia di tutto l’oro del Tempio di Gerusalemme, sia delle ricchezze contenute nel santuario di Bambyce. Persino la richiesta di truppe rivolta agli Stati clienti fu motivata, pare, dall’intento di lucrare denaro dai potentati orientali per esentarne i sudditi dal reclutamento.
Smanioso di assumere il suo comando, alla fine del 55 a.C. Crasso lasciò l’Italia, diretto in Siria, in compagnia del figlio, inviatogli da Cesare alla testa di alcuni reparti di cavalleria gallica.
Come molti Romani del tempo, del dirimpettaio oltre l’Eufrate Crasso non aveva probabilmente una conoscenza approfondita; e dunque, ritenendo che la Partia non fosse troppo dissimile dai tanti Stati ellenistici incontrati finora, commise forse l’errore di sottovalutarne le risorse. Certo, armi ed equipaggiamento dei legionarî erano, nell’occasione, i meno adatti per affrontare il nemico.
Quando da Seleucia, la grande pólis greca sul corso del Tigri sempre pronta a ribellarsi contro il potere partico e allora assediata, giunse un nuovo appello di Mitridate, Crasso decise di intervenire. Dopo una rapida puntata preliminare (54 a.C.), con la buona stagione dell’anno seguente il triumviro varcò l’Eufrate.
Lo scontro si risolse in un disastro. Ad affrontare le legioni era venuto Suren, un esponente della più alta nobiltà partica. Quella ai suoi ordini era un’armata legata in gran parte alla famiglia, reclutata sostanzialmente all’interno dei suoi enormi possedimenti; e contava, al solito, quasi solo sulle eccellenti cavallerie, catafratti e arcieri a cavallo. Al termine della giornata, scandita dai continui attacchi degli arcieri a cavallo, l’armata romana era ormai disanimata e allo sbando; e il giorno dopo, durante una disastrosa ritirata, venne quasi completamente distrutta. Crasso e suo figlio perirono entrambi.
Dopo questa giornata l’Urbe dovette constatare che esisteva una realtà politica alternativa alla sua, la sola che essa, di fatto, abbia poi riconosciuto davvero. L’esistenza di uno Stato considerato (anche se non in assoluto) pari a Roma è rivelata dalla scelta – come sede per i primi negoziati tra le due potenze, quelli gestiti da Gaio Cesare per conto di Augusto – di un isolotto al centro dell’Eufrate.
Non vi fu – e gli eventi dei secoli successivi paiono dimostrarlo – alcun reale rovesciamento nei rapporti di forza tra le due potenze, ma nacque e si affermò il mito relativo alle capacità belliche dei Parti; mito la cui genesi fu coeva al disastro, al punto da essere avvertibile già in alcuni accenni di Cicerone. Fu inoltre un mito duraturo, capace di sopravvivere a lungo, tanto da essere poi ripreso e ribadito nei secoli e da essere talvolta avallato persino da studiosi dei giorni nostri.

DUE POTENZE A SECOLARE CONFRONTO

Alcuni anni dopo furono i Parti a tentare la carta di un’invasione delle regioni orientali dell’Impero romano, la Cilicia, la Siria, la Giudea. Troppo preso dagli sviluppi delle contese civili, Marco Antonio aveva forse sottovalutato, alla fine degli anni 40 a.C., la debolezza di quei confini: nella regione stava un presidio di due legioni soltanto, composte di truppe raccogliticce, malcontente e di scarso valore perché inquadravano i superstiti dei vinti di Cassio, raffermati e posti al comando di un detestato ex ufficiale di Cesare, Decidio Saxa.
Così, quando il repubblicano Labieno iuniore (Quinto Labieno), figlio dell’ex legato di Cesare, si presentò da profugo alla corte di Orode II segnalandogli l’inconsistenza del presidio siriaco e facendogli balenare la possibilità di invadere la regione, il sovrano partico si lasciò tentare. Alla fine del 41 o all’inizio del 40 a.C. un esercito al comando di Pacoro, primogenito del re, varcò l’Eufrate, accompagnato da Labieno in qualità di consigliere militare. Votato alla sconfitta, Decidio Saxa fu prima vinto in battaglia, poi ucciso.
Mentre le città e i regni clienti disertavano quasi al completo, Labieno, che aveva unito alle superstiti forze di Saxa reclute raccolte sul posto e alcuni contingenti partici, puntò verso nord e verso occidente. Frattanto, il grosso dell’armata arsacide si era diretta verso sud e verso la Giudea. Resistettero Tiro e Lysanias di Calcide, ma passarono ai Parti i Nabatei di Malco e soprattutto i Giudei della fazione antiromana. Gli invasori sembravano destinati ad avere la meglio; e Pacoro, probabilmente già associato al trono dal padre, prese a coniare moneta, deciso a conservare le recenti conquiste.
La reazione romana, però, non si fece attendere. Non potendo per ora tornare ad occuparsi dell’Oriente, Antonio inviò sul posto uno dei suoi migliori generali, l’oriundo piceno Publio Ventidio Basso. A lui il triumviro affidò l’incarico di combattere i Parti; come suo legato, secondo le fonti, o più verosimilmente come governatore della Siria dotato di un imperium autonomo (in effetti, Ventidio poté poi celebrare il trionfo).
Alle undici legioni che portava con sé Ventidio aggiunse forti contingenti di cavalleria e soprattutto di frombolieri. Questi ultimi gli assicuravano un duplice vantaggio: se, da un lato, la portata delle loro armi pareggiava almeno quella dell’arco partico, ed era dunque tale da garantire uno schermo efficace contro il tiro degli hippotoxótai, ora vulnerabili, l’efficacia delle frombole risultava poi assai accresciuta dall’impiego delle ghiande missili in piombo, il cui impatto, in grado di perforare talune corazze, poteva risultare mortale persino per i catafratti.
Il primo scontro tra Labieno e Ventidio ebbe luogo in Asia; sicché pare certo che l’Antoniano venisse non dalla Siria, ma direttamente dall’Italia o dalla Grecia. Come attesta Cassio Dione, gli avversari si incontrarono in un luogo «prossimo al Tauro», forse nei pressi di Cybistra, sulla via delle Porte Cilicie. Accampate in posizione elevata, le legioni attesero immobili i catafratti, che il loro comandante, Phranicates, smanioso di ottenere la vittoria da solo, spinse ad attaccare in salita. Respinti lungo il pendio, i primi assalitori furono in parte decimati, finendo in qualche misura per intralciare quanti stavano ancora salendo; e la ritirata dei Parti si svolse in una confusione incredibile.
Si chiuse ora la vita di Labieno. Mentre i superstiti delle sue forze confluivano nelle file del vincitore, il transfuga cercò scampo in Cilicia; dove, qualche tempo dopo, fu preso e giustiziato. Verso la Cilicia ripiegarono anche le truppe partiche superstiti che, accresciute dai rinforzi inviati da Pacoro, riuscirono a bloccare dapprima, ai passi dell’Amano, le cavallerie romane lanciate all’inseguimento. Poco dopo però, nel luogo che Strabone [geografo greco vissuto tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. – ndr] chiama «il monte della Tavola», il sopraggiungere del grosso delle forze legionarie mutò le sorti dello scontro; e il comandante partico cadde sul campo insieme a molti dei suoi.
La Cilicia prima, la Siria poi, vennero rioccupate; ma durante la primavera successiva Pacoro, che si era frattanto ritirato, decise di riprendere l’o...

Indice dei contenuti

  1. Collana
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. L’ossessione del rivale
  6. PANORAMA
  7. FOCUS a cura di Giovanni Brizzi
  8. APPROFONDIMENTI
  9. Piano dell'opera