Guerre delle Crociate
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Guerre delle Crociate

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Pellegrinaggio verso Gerusalemme, guerra santa per la benevolenza divina, campagna di conquista di leggendarie ricchezze d'Oriente: le crociate promosse dai papi, da re e imperatori avevano molte facce, rispondendo a esigenze spirituali e materiali di ceti diversi. Con esse nacquero anche gli ordini monastico-cavallereschi, composti da religiosi che oltre a pregare combattevano contro "gli infedeli". La crociata finì così per diventare un'istituzione permanente, gestita e finanziata dai papi. Nonostante la caduta del Regno di Gerusalemme con la sconfitta di Hattin sul chiudere del XII secolo e la fine degli Stati latini di Terrasanta quasi cento anni dopo, l'ideale della crociata sarebbe ancora riapparso più volte nella storia dell'Occidente. L'idea che la minaccia di un Islam ritenuto, spesso erroneamente, compatto richieda una mobilitazione occidentale collettiva è sopravvissuta giungendo fino a noi, e le crociate continuano ancora a far parte del lessico ideologico contemporaneo.

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Informazioni

Editore
Pelago
Anno
2021
ISBN
9791280714152
FOCUS

IL PROLOGO

CLERMONT

Le crociate hanno una data di nascita ben precisa. Il 27 novembre 1095, durante un concilio di vescovi francesi riunito nella città di Clermont, papa Urbano II lanciò un accorato appello affinché i nobili e i cavalieri europei si muovessero in soccorso dei loro confratelli orientali, minacciati da un popolo di barbari calati dalla Persia.
Chi avesse risposto all’appello prendendo le armi per salvare i cristiani d’Oriente e liberare Gerusalemme avrebbe avuto la garanzia che, nel caso fosse morto durante la spedizione, tutti i peccati gli sarebbero stati immediatamente rimessi e gli si sarebbe così aperta la via del paradiso.
I barbari evocati dal papa non erano gli arabi, che ormai erano stanziati in Medio Oriente da più di 450 anni, ma i turchi, una popolazione dell’Asia Centrale.
Nei secoli precedenti, i turchi, pagani, erano stati arruolati come truppe mercenarie dai califfi di Baghdad, si erano convertiti all’Islam e, affrancatisi dal predominio califfale, avevano progressivamente accresciuto la loro potenza politica e militare finché, alla metà dell’XI secolo, si erano lanciati in una vasta campagna di conquiste diretta prima contro la Persia e poi verso il Mediterraneo.
Quando le popolazioni turche riunite sotto la denominazione di Selgiuchidi si affacciarono in Medio Oriente, la regione era dominata dall’Egitto, a sua volta governato dalla dinastia detta dei Fatimidi. Questi ultimi, nel corso del X secolo, avevano progressivamente affermato il loro dominio sull’Africa Settentrionale e avevano sede nella città del Cairo, da loro fondata nel 969. I Fatimidi erano sciiti, ossia riconoscevano come successori di Maometto soltanto i legittimi discendenti della figlia del Profeta (Fatima, da cui, appunto, il nome della famiglia dominante) e si contrapponevano ai sunniti, che invece non ammettevano l’ereditarietà per via femminile.
Sunniti e sciiti si erano battuti per la supremazia sull’Islam nel corso del VII secolo, in un conflitto terminato con la vittoria dei primi. La conquista dell’Egitto aveva rappresentato la riscossa dei ribelli sciiti, che avevano proclamato la nascita di un califfato (ossia di uno Stato con ambizioni universalistiche) esplicitamente rivale del califfato sunnita di Baghdad, che nell’XI secolo era in piena decadenza, ma in teoria rivendicava ancora il ruolo di centro politico di tutto l’Islam.
Nell’agosto 1071 i turchi ottennero una grande vittoria contro i bizantini nella battaglia di Manzikert l’odierna città di Malazgirt, in Turchia, in seguito alla quale poterono occupare tutta l’Anatolia fino ad affacciarsi allo stretto del Bosforo, minacciando la stessa Costantinopoli. Due anni dopo, essi batterono i Fatimidi e occuparono Gerusalemme. I nuovi occupanti erano rigorosamente sunniti e perseguitarono duramente gli sciiti egiziani, mentre si dimostrarono abbastanza tolleranti nei confronti dei cristiani.
Nel 1092, però, alla morte del sultano Malik Shah I, il potere dei Selgiuchidi si frammentò: in Anatolia sopravvisse un vasto principato territoriale, detto di Rūm (da Roma, ossia, nella prospettiva turca, Costantinopoli), governato dal sultano (un titolo politico gerarchicamente inferiore al califfo) Kilij Arslan I, mentre in Siria, Palestina e Iraq settentrionale i governatori (atabeg) delle diverse città si erano resi di fatto indipendenti.
Insomma, se Costantinopoli e le comunità cristiane di Gerusalemme avevano corso il pericolo di soccombere sotto l’espansione turca, questo era avvenuto più di vent’anni prima del Concilio di Clermont.
Nel 1095, la situazione in Medio Oriente era sostanzialmente tranquilla. A cosa si riferiva, dunque, il papa quando parlava di necessità di soccorrere i confratelli della regione?
La richiesta d’aiuto giungeva in realtà dall’Impero romano d’Oriente, alcuni ambasciatori del quale avevano raggiunto il pontefice pochi mesi prima, a Piacenza.
Negli anni Ottanta dell’XI secolo, in effetti, Costantinopoli aveva corso un rischio mortale, stretta com’era fra le ambizioni di conquista dei turchi ad est, dei nomadi peceneghi a nord e dei normanni provenienti dalla Puglia a ovest.
Sotto l’energica guida dell’imperatore Alessio I Comneno, i bizantini avevano però respinto il tentativo di questi ultimi di avanzare su Costantinopoli attraverso l’Albania e l’Epiro fra il 1081 e il 1085 e annientato i Peceneghi in battaglia nel 1091. Ora, di fronte alla dissoluzione del sultanato selgiuchide, chiedevano un aiuto militare ai latini, non per garantirsi la sopravvivenza, ma per lanciare una grande offensiva e riconquistare l’Anatolia.
Insomma, con ogni probabilità Alessio Comneno voleva che gli si inviassero contingenti di cavalieri mercenari con cui rinforzare il proprio esercito, non che si organizzasse una spedizione autonoma di soccorso.
Per il papa, però, la richiesta di Alessio I rappresentava un’eccellente occasione politica. Da ormai quasi vent’anni, infatti, i pontefici e gli imperatori d’Occidente erano impegnati nella Lotta per le investiture. Se Urbano II fosse riuscito a organizzare autonomamente una grande campagna militare in Oriente, avrebbe dimostrato la totale autonomia della Chiesa, che non aveva bisogno dell’appoggio dei sovrani neppure per la difesa armata della cristianità.
In Europa, d’altronde, il clima era favorevole a una grande guerra contro i musulmani. Il continente viveva una stagione di grande crescita economica e demografica e nel Mediterraneo i rapporti di forza fra islamici e cristiani stavano mutando a favore dei secondi.
In Spagna, nel 1031 il califfato di Cordova era caduto in preda alla guerra civile e si era dissolto in una moltitudine di staterelli, la cui debolezza permise ai regni cristiani di Castiglia, di León, di Aragona e di Portogallo di cominciare la riconquista della penisola iberica.
In Italia, fra il 1061 e il 1072 i normanni guidati da Ruggero I detto il Gran Conte avevano abbattuto l’emirato di Palermo e occupato la Sicilia. La liberazione dell’isola aveva fornito alle navi italiane una base fondamentale per il controllo dei mari: genovesi e pisani su tutti ne avevano approfittato e le loro flotte si erano lanciate in grandi incursioni contro le coste africane, nelle quali brama di bottino e motivazioni religiose marciavano fianco a fianco, tanto che, con i proventi della cattura di alcune navi arabe, a Pisa nel 1063 si diede inizio alla costruzione del Duomo e dell’attuale Piazza dei Miracoli.
Devoto pellegrinaggio verso Gerusalemme, guerra santa per procurarsi la benevolenza divina, campagna di conquista verso le leggendarie ricchezze d’Oriente: la spedizione promossa dal papa aveva molte facce e in tal modo rispondeva alle esigenze spirituali e materiali di una grande quantità di persone di ogni ceto sociale.
Così, dopo che Urbano II ebbe pronunciato il suo infiammato discorso, immediatamente si sparsero per tutto l’Occidente messi incaricati di riferirne le parole e le promesse. La crociata stava per cominciare.

GLI EVENTI

LA PRIMA CROCIATA

La predicazione di Urbano II ebbe un successo forse inaspettato e molti nobili francesi decisero di aderire all’appello e partire per la Terrasanta, seguiti dai loro cavalieri. Questi ultimi rappresentavano un gruppo di combattenti di élite, professionisti della guerra alla quale venivano addestrati sin dall’infanzia.
Il loro equipaggiamento era ottimo e non aveva rivali nell’area euro-mediterranea: una cotta di maglia di ferro li copriva dalla testa alle ginocchia, offrendo un’eccellente protezione dalla maggior parte delle offese, senza compromettere la mobilità. Un elmo con nasale e un grande scudo a mandorla completavano la difesa, mentre spada e lancia rappresentavano le armi offensive.
Essi montavano cavalli da guerra appositamente selezionati, i destrieri, imponenti e massicci, in grado di raggiungere grandi velocità in poco tempo. I cavalieri più ricchi disponevano di due o tre cavalcature e utilizzavano i destrieri soltanto in battaglia, usando per gli spostamenti animali più agili, detti palafreni.
Da alcuni anni, grazie anche ad alcune innovazioni nella costruzione delle selle, essi avevano sviluppato una nuova tattica di combattimento di grande efficacia: la carica. In sostanza, i militi si muovevano in massa contro il nemico tenendo la lancia ben stretta fra il braccio e l’ascella destra e protesa in avanti. In tal modo essi si abbattevano sugli avversari con velocità e violenza, creando una sorta di muro corazzato mobile che soltanto reparti altrettanto addestrati e compatti avrebbero potuto affrontare.
La marcia dei cavalieri crociati fu preceduta dal movimento di alcune migliaia di persone di basso livello sociale, partite spontaneamente per liberare il Santo Sepolcro al seguito di alcuni predicatori, fra cui il più celebre fu Pietro l’Eremita.
Molto nota per i suoi aspetti pittoreschi e per le violenze antiebraiche di cui i suoi membri si resero protagonisti durante la marcia attraverso i Balcani, questa “crociata dei pezzenti” fu insignificante dal punto di vista militare.
I bizantini, che ne apprezzarono la devozione, ma assai meno l’indisciplina, nell’agosto del 1096 si affrettarono a traghettare questa massa raccogliticcia sulla costa asiatica del Bosforo, dove in poche settimane venne fatta a pezzi dai turchi. I pochi superstiti, tratti in salvo dalle truppe bizantine, si unirono poi alla crociata ufficiale.
Tutt’altra impressione fece a Costantinopoli l’arrivo dei crociati veri e propri, nella primavera successiva. Si trattava di diverse colonne di combattenti, ognuna al seguito del proprio comandante.
I più noti fra costoro furono Raimondo di Tolosa (alla testa di 1200 cavalieri), Goffredo di Buglione duca della Bassa Lorena (con 1000 cavalieri e 7000 fanti), Roberto di Normandia, Baldovino di Boulogne e Stefano di Blois (che insieme assommavano 1600 cavalieri e un numero imprecisato di fanti) nonché, unico a non provenire dall’area francese, Boemondo di Taranto, che portava con sé forse 500 cavalieri. Gli studi più recenti valutano abbastanza concordemente il totale dei crociati in 50-60.000 uomini (ma c’è anche chi ritiene che si sfiorassero i 100.000), di cui circa 6000 erano cavalieri, affiancati da altre migliaia di fanti, tiratori, paggi, servitori o semplici pellegrini aggregatisi alla marcia. Non mancava anche un buon numero di donne, fra mogli, concubine, servitrici e prostitute.
Mentre lentamente le diverse unità si radunavano nei pressi di Costantinopoli, fra l’autunno del 1096 e la primavera del 1097, i comandanti crociati dovettero cimentarsi in una complessa trattativa con l’imperatore Alessio I Comneno. Questi si rifiutò di marciare a fianco dei crociati con tutto il suo esercito, limitandosi a offrire un contingente di qualche centinaio di uomini guidato dal generale Tatikios e a promettere appoggio logistico. In cambio i latini avrebbero dovuto riconsegnare all’Impero tutti i territori e le città che gli appartenevano prima di Manzikert. Concluso questo accordo, i Franchi (così erano chiamati tutti gli Occidentali in Medio Oriente) passarono in Anatolia e procedettero con decisione all’interno del territorio in mano turca.
Durante la Prima crociata ci furono poche grandi battaglie campali: si trattò principalmente di una sequenza di assedi, durante i quali le forze franche diedero un’eccellente prova, dato che riuscirono a ottenere importanti successi e che la loro tecnologia si rivelò perfettamente all’altezza dei compiti, anche di fronte alle sofisticate opere difensive della regione.
Poco dopo il loro sbarco sulla sponda asiatica del Bosforo, i crociati procedettero dunque verso Nicea, oggi İznik in Turchia, la prima città dell’entroterra tenuta dai turchi, che fu raggiunta il 6 maggio 1097 e rapidamente circondata, con l’appoggio di una flottiglia bizantina schieratasi sul grande lago che fiancheggia il centro murato. Dopo circa sei settimane di assedio, Nicea capitolò nelle mani di Alessio Comneno il 18 giugno. I cavalieri franchi, furono generosamente ricompensati da quest’ultimo per il mancato saccheggio della città e ripresero la loro marcia.
I selgiuchidi di Rūm, nel frattempo, avevano a loro volta mobilitato un esercito che, agli ordini del sultano Kilij Arslan I, si mosse per frenare l’avanzata crociata. Le due colonne si incontrarono a Dorylaeum, ai margini dell’altopiano anatolico, dove il 1° luglio 1097 si svolse la principale battaglia campale della guerra e, per la prima volta, i latini ebbero modo di confrontarsi con un nuovo tipo di combattimento.
Il grosso delle forze turche era composto da circa 6000 fra cavalleggeri e arcieri montati, che piombarono di sorpresa sull’avanguardia delle forze latine, guidata da Boemondo di Taranto e composta da circa 20.000 uomini, di cui 2000 cavalieri pesanti.
In un primo momento la tattica dei turchi – che lanciavano nugoli di frecce e di giavellotti, tentando di circondare gli avversari e sottraendosi al combattimento ravvicinato – seminò il panico fra i cristiani, ma Boemondo riuscì a mantenere l’ordine e a evitare una ritirata precipitosa. Cavalieri appiedati e fanti si trincerarono dietro gli equipaggiamenti di guerra e obbligarono i turchi a uno scontro corpo a corpo, annullando il vantaggio dato dalla mobilità. La mischia si prolungò fino all’arrivo della seconda colonna crociata, agli ordini di Goffredo di Buglione e Raimondo di Tolosa, che con una violenta carica mise in rotta le truppe selgiuchidi. L’accampamento nemico venne preso e saccheggiato e i crociati, benché avessero subito pesanti perdite, rimasero padroni del campo.
Vinta la battaglia, gli occidentali ebbero via libera e si diressero a sud, verso Antiochia. Qui i turchi, agli ordini dell’emiro Yaghi Siyan, erano decisi a resistere e il lungo e duro assedio che seguì decise le sorti di tutta la spedizione.
La città era grande, ben fortificata e difesa da una guarnigione di qualche migliaio di schiavi-combattenti. I crociati si schierarono di fronte alle mura il 21 ottobre, in circostanze quanto mai negative, dato che la stagione inoltrata li avrebbe obbligati ad affrontare l’inverno in campo aperto, con gravissime difficoltà di rifornimento, mentre gli antiocheni avevano avuto il tempo di terminare il raccolto estivo e autunnale e dunque avevano i magazzini pieni.
Ciò nonostante, i crociati si installarono in quattro grandi campi trincerati e, pur tra grandi privazioni, grazie all’appoggio logistico dei bizantini, riuscirono a superare la brutta stagione. Due spedizioni di soccorso turche si mossero da Damasco e da Aleppo, ma non riuscirono ad agire in maniera coordinata e vennero respinte, rispettivamente alla fine di dicembre e agli inizi di febbraio.
Con l’arrivo della primavera, la situazione migliorò. Prima che iniziasse l’assedio, una colonna crociata agli ordini di Baldovino di Boulogne aveva fatto una spedizione a est e, a marzo, aveva occupato Edessa, una città dell’Anatolia sud-orientale, presso il fiume Eufrate, vassalla dei turchi, ma popolata da cristiani armeni. Da lì Baldovino riuscì a far affluire nuovi rifornimenti verso Antiochia. Nella notte fra il 2 e il 3 giugno, finalmente, con la complicità di un ufficiale armeno agli ordini dei turchi, un contingente guidato da Boemondo riuscì a superare di nascosto le mura e a impadronirsi della città.
La battaglia, però, non era ancora finita, dato che Yaghi Siyan proseguì la resistenza nella cittadella fortificata che si trovava all’interno delle mura, mentre sopraggiungeva un terzo esercito selgiuchide di soccorso, guidato da Kerbogha, atabeg di Mossul. I crociati si trovarono dunque...

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  1. Collana
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. La piccola Europa d’oltremare
  6. PANORAMA
  7. FOCUS a cura di Paolo Grillo
  8. APPROFONDIMENTI
  9. Piano dell'opera