Guerre d'Italia
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Durate sessantacinque anni, dal 1494 al 1559, le Guerre d'Italia trasformarono la penisola in un immenso campo di battaglia dove si confrontarono soldati d'ogni parte d'Europa. Le indicibili sofferenze, che spesso causarono alle popolazioni civili che ebbero la sfortuna di trovarsi sulle loro direttrici di marcia, furono l'inevitabile corollario di un costante clima di violenza. Rapine, stupri, massacri che toccarono il loro culmine con i sacchi delle città: Brescia, Ravenna, Pavia e, soprattutto, Roma. L'Italia che giunse alla pace di Cateau-Cambrésis era un Paese stravolto: la sua realtà politica quattrocentesca perlopiù scomparsa, salvo eccezioni notevoli, adesso sotto il dominio della Spagna, mentre nuovi Stati e governi avevano preso il posto di quelli di un tempo. Scomparso più di tutto l'ottimismo umanista e laico che aveva caratterizzato il Rinascimento italiano del secolo XV, dissoltosi tra le fiamme di un conflitto e con l'avvento della Controriforma.

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Informazioni

Editore
Pelago
Anno
2021
ISBN
9791280714213
Argomento
Storia
FOCUS

IL PROLOGO

L’invasione francese del 1494 non fu un fulmine a ciel sereno. Per decenni gli italiani si erano aspettati un’invasione in forze della penisola e le avvisaglie non erano mancate. Negli anni 1447-49 vi furono tre tentativi franco-savoiardi di entrare nel ducato di Milano; dal 1422 al 1487, gli svizzeri cercarono più volte di prendere il Ticino; sempre nel 1487, i veneziani furono messi in rotta a Calliano dagli austriaci, che per la prima volta schieravano i Landsknechte – termine poi italianizzato in “lanzichenecchi”.
Nell’Italia meridionale vi era già una stabile presenza straniera.
Il re d’Aragona aveva già la Sicilia dalla fine del secolo XIII e nel 1442 Alfonso V, il Magnanimo, d’Aragona strappò Napoli agli Angiò che la tenevano dal 1266. Durante la guerra (che vide Siena, papato e Regno di Napoli contro Firenze) conseguente alla Congiura de’ Pazzi (con la quale si attentò alla vita di Lorenzo e Giuliano de’ Medici, che fu assassinato), si parlò ripetutamente di un intervento armato a favore di Firenze e forse furono le manovre di Lorenzo de’ Medici a provocare nel 1480 l’attacco turco contro la città di Otranto in Puglia, per costringere i napoletani ad abbandonare la Toscana.
Nel 1494, Carlo VIII, re di Francia, decise che era giunto il momento di riprendersi il Regno di Napoli, su cui vantava pretese per via della nonna paterna Maria d’Angiò. Oltretutto, nel 1489 papa Innocenzo VIII gli aveva concesso nominalmente la corona partenopea, togliendola a Ferrante d’Aragona con cui era in conflitto (il re di Napoli era Vicario Apostolico); e se all’epoca la cosa non produsse alcun risultato, nondimeno dette ulteriore spinta alle ambizioni di Carlo, che prima ancora d’iniziare l’offensiva militare fu attento a spianarsi la strada dal punto di vista diplomatico.
Il ducato di Milano era la via privilegiata per accedere all’Italia, avendo Genova sotto il suo controllo; e benché formalmente il suo possessore ufficiale fosse il giovane e malaticcio Giangaleazzo Sforza, il potere effettivo era gestito da suo zio, il furbo e proteiforme Ludovico, il Moro, Sforza, indispettito dall’ingerenza napoletana negli affari del ducato: moglie di Giangaleazzo era Isabella d’Aragona, che insisteva presso il padre Ferrante affinché sostenesse i diritti del marito; oltretutto, il re di Napoli avanzava pretese su Milano, come erede presunto dei Visconti.
Invero, benché gli Sforza si fregiassero del titolo ducale, dal punto di vista giuridico con la morte dell’ultimo Visconti nel 1447 i suoi possedimenti, in quanto feudi Cesarei, erano ritornati in mano all’Impero, cosa che gli Sforza avevano bellamente ignorato. Adesso, però, Ludovico agognava che l’imperatore Massimiliano d’Asburgo lo riconoscesse come duca per poter esautorare il nipote e avere un alleato potente come il re di Francia poteva favorire i suoi disegni in tal senso.
Il secondo obiettivo diplomatico di Carlo fu Firenze, benché in modo subdolo. Lorenzo de’ Medici – in tutto e per tutto signore della città fuorché per il titolo – era morto nel 1492, lasciando le redini del potere al figlio Piero, appena ventenne.
Il giovane Medici non possedeva l’abilità politica del padre: Carlo VIII aveva reso pubblici i suoi progetti napoletani e Firenze si sarebbe trovata sulla strada dei francesi invasori, cosa che preoccupava non poco i maggiorenti fiorentini.
Invano a Piero fu consigliato di abbandonare l’alleanza con Napoli, ma il Medici mandò in Francia un’ambasceria per saggiare il terreno e i legati fiorentini scrissero allarmati dei preparativi militari francesi. Ebbero pure un abboccamento segreto con Carlo, suggerendogli di espellere dal regno i mercanti loro concittadini per mettere Piero sotto pressione; altrimenti, i fiorentini avevano comunque un’alternativa politica quando e se ci fosse stata la calata francese.
Vista la situazione, il re di Napoli Alfonso II d’Aragona, succeduto al padre nel gennaio 1494, decise di giocare d’anticipo, nel luglio dello stesso anno mandando truppe, incluso un contingente pontificio, nelle Romagne con il disegno di passare nel Parmense e incitare le popolazioni locali a ribellarsi allo Sforza. Lo stesso mese, la flotta napoletana tentò un colpo di mano contro Genova ma, trovandola fortemente presidiata, l’8 settembre occupò Rapallo; l’energica reazione franco-sforzesca non si fece attendere: la cittadina fu ripresa a forza qualche giorno dopo, i mercenari svizzeri di Carlo VIII rendendosi protagonisti di indicibili violenze.
Tuttavia, benché i napoletano-pontifici avessero fallito nei loro obiettivi, la stagione era sufficientemente avanzata da far prevedere il termine delle operazioni militari nella primavera successiva.
Alfonso contava di avere allora abbastanza forze per costringere i francesi ad impegnarsi in un’estenuante guerra di logoramento nel Centro Italia.

GLI EVENTI

Carlo VIII si rendeva conto della situazione che si andava sviluppando in Italia e sorprese tutti iniziando la progettata invasione proprio in settembre. Incapaci di opporsi a un esercito che contava trentamila uomini e un potente treno d’artiglieria, i duchi di Savoia, i marchesi di Saluzzo e del Monferrato vennero subito a patti con gli invasori, anche per proteggersi dalle mire del Moro sui loro territori. I francesi passarono nel piacentino e, grazie all’aiuto del duca di Ferrara, si diressero verso Imola, per costringere Caterina Sforza, effettiva signora del luogo, a passare dalla loro parte. Respinti a Bubano, assaltarono la vicina Mordano, massacrandone il presidio e la popolazione, senza riguardo al sesso o all’età. Le guerre d’oltralpe erano state da sempre caratterizzate da una maggiore brutalità rispetto a quelle d’Italia, ma Carlo impiegava la “furia francese” come arma di terrorismo psicologico per sabotare la volontà di resistenza dei suoi oppositori.
Con un’altra mossa a sorpresa, i francesi, invece di indirizzarsi verso l’Adriatico, puntarono sulla Lunigiana, in gran parte sotto dominio sforzesco, con l’idea di arrivare alla via Aurelia. Ardito quanto si vuole, il piano aveva una sua logica: a Roma, la famiglia Colonna, apertamente filofrancese perché ostile al pontefice, aveva occupato la rocca e il porto di Ostia, dando così a Carlo un’importante base logistica in direzione di Napoli per la sua flotta e anche provocando il richiamo del contingente papale in Romagna. Compiendo ciò che tutti credevano impossibile, il re riuscì a far passare le sue artiglierie oltre il Passo della Cisa, portandosi davanti alla fortezza fiorentina di Sarzanello. Intanto, contingenti franco-sforzeschi effettuavano scorrerie nella Garfagnana, barbaramente saccheggiando Fivizzano e aumentando ancora di più l’apprensione a Firenze.
A questo punto però, Carlo si trovava davanti un osso duro da rodere. Sarzanello era una fortezza modernissima, con mura talmente spesse da resistere al tiro delle più potenti artiglierie dell’epoca. Sennonché, al campo francese fece la sua improvvisa apparizione Piero de’ Medici che, di testa sua e senza alcun mandato ufficiale, si era deciso a trattare con il sovrano. Carlo, che non poteva credere alla propria fortuna, riuscì a estorcere all’inesperto Piero una serie di umilianti concessioni, tra cui la consegna di Sarzanello e altre fortezze, oltre al pagamento di una forte indennità. Con la strada adesso aperta, il re arrivò a Pisa, che prontamente si ribellò al dominio fiorentino. Rientrato a Firenze, Piero de’ Medici la trovò in stato di ribellione e, vista la mala parata, decise di abbandonare la città assieme alla famiglia.
Carlo VIII entrò a Firenze il 17 novembre, commettendo però l’errore di acquartierare le sue truppe all’interno delle mura. Benché in linea di massima i fiorentini percepissero i francesi come liberatori, non passò molto prima che le tensioni montassero tra i soldati e la cittadinanza.
La situazione era piuttosto delicata anche sotto il profilo diplomatico: Firenze rivoleva Pisa, suo principale sbocco al mare, mentre Carlo conduceva serrate trattative con le autorità fiorentine per ottenere un esorbitante contributo monetario in cambio della cessione di Pisa e della sua partenza. In realtà, Carlo aveva fretta di procedere verso Napoli e, dopo una vivace schermaglia verbale con i rappresentanti fiorentini (come nel celebre episodio dell’ambasciatore fiorentino Pier Capponi, che però va letto come simbolo della resistenza fiorentina più che come espressione di una iniziativa personale), accettò di ridimensionare le proprie richieste, promettendo anche di restituire Pisa al termine della campagna.
Partito da Firenze a fine mese, Carlo marciò su Roma, papa Alessandro VI cercando inutilmente di fermarlo, alternando la diplomazia con la forza. Abbandonato dalle truppe aragonesi e vedendo la maggior parte degli Stati italiani acquiescenti nei confronti degli invasori, il pontefice dovette accettare l’ingresso a Roma dell’esercito francese, anche per la presenza di un gruppo di cardinali, capeggiati da Giuliano della Rovere, che complottava di ricorrere al re per deporre il papa. Carlo, tuttavia, che non aveva tempo per immischiarsi nella politica interna romana, ottenuta la promessa che gli fossero consegnate alcune fortezze strategiche e preso in ostaggio Cesare Borgia, figlio di Alessandro VI, il 28 gennaio lasciò Roma per il Sud, la sua marcia costellata da violenze ed uccisioni.
A Napoli regnava il caos. Il 23 gennaio, Alfonso abdicò a favore del figlio Ferrante, o Ferrandino, ritirandosi in Sicilia dove sarebbe morto l’anno successivo. Il nuovo re doveva fare i conti con un forte dissenso interno, una buona fetta della nobiltà partenopea, fedele al retaggio angioino, attendendo con ansia l’arrivo dei francesi; ragion per cui, Ferrandino, di fronte alla demoralizzazione del proprio esercito e avuto sentore dei tumulti intanto scoppiati nella capitale, ritenne opportuno ritirarsi a Ischia, lasciando mano libera ai francesi. A questo punto, Ferdinando il Cattolico, re d’Aragona, allarmato dall’imprevedibile svolgersi degli eventi, cercò di fermare l’avanzata di Carlo, minacciando un intervento armato a favore di Ferrandino, cosa che ebbe l’unico effetto di rafforzare la determinazione del re di Francia di conquistare Napoli il prima possibile. Il 6 marzo 1495, entrava trionfante nella città, avendo condotto ciò che, secondo la pratica guerresca dell’epoca, era stato un autentico blitzkrieg.
Carlo aveva vinto rapidamente la guerra; ma concludere in tempi altrettanto brevi la pace si stava dimostrando più difficile. La pretesa dei francesi di essere i soli ad amministrare il regno appena conquistato, li mise ben presto in rotta di collisione con i ceti dirigenti locali, inclusi coloro che fino a quel momento li avevano favoriti. Il re avrebbe voluto rimanere a Napoli e completare la conquista del regno, ma le notizie provenienti dal Nord Italia gli fecero cambiare idea.
Ludovico Sforza, il Moro, che intanto aveva ottenuto il titolo ducale dall’imperatore, si era pentito di aver facilitato l’impresa francese, anche perché il duca d’Orléans, cugino del re, aveva cominciato ad avanzare pretese su Milano per via della sua ascendente Valentina Visconti. Cambiando repentinamente fronte, il 31 marzo il Moro si unì in lega con Venezia, il papa, Massimiliano d’Asburgo e il re Ferdinando d’Aragona, questi per evitare che, dopo Napoli, anche la Sicilia cadesse nelle mani di Carlo. Lo scopo dell’alleanza era cacciare i francesi dall’Italia e i collegati speravano di cooptare nei loro ranghi anche Enrico VII d’Inghilterra, la Repubblica di Firenze e gli altri Stati italiani, come Ferrara. Tuttavia, il sostegno inglese rimase una chimera; il duca di Ferrara scelse la neutralità e Firenze era alleata dei francesi.
Il re di Francia lasciò Napoli il 22 maggio per rientrare in patria, lasciandosi alle spalle un consistente presidio a difesa della città. La partenza di Carlo non era solo dovuta a squisite necessità militari, ma anche all’esplosione di una malattia venerea fino a quel momento presente in Europa in forma endemica, ma che adesso, per motivi tuttora ignoti, si trasformò in una vera epidemia: la sifilide, destinata a mietere migliaia di vittime nel corso di cinque secoli. Costretto a prendere la via di terra avendo i genovesi distrutto la flotta francese al largo di Rapallo, il re di Francia riuscì a transitare per il Lazio senza problemi, corrompendo il volubile Alessandro VI col restituirgli le fortezze ad esclusione di Ostia.
Presa la strada per la Cisa sbucò nella Val di Taro dove l’esercito della Lega lo stava attendendo. Comandante dei collegati era Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, che aveva con sé circa 12-15.000 uomini a piedi e a cavallo, contro i circa 8-10.000 del re di Francia, che includevano fanti svizzeri e francesi, più la cavalleria italiana e d’oltralpe. Carlo chiese per via diplomatica che gli venisse concesso il passaggio, ma non aspettò la risposta, sapendo che attendere avrebbe avvantaggiato i suoi nemici. Pertanto, la mattina del 6 luglio si portò sulla riva sinistra del Taro, attraversandolo oltre l’abitato di Fornovo, per prendere la via accosto ai monti. Vista la situazione, Francesco Gonzaga ordinò l’attacco, i francesi riuscendo a districarsi dopo uno scontro breve e intenso.
Tutti si proclamarono vincitori: il re perché aveva conseguito il suo obiettivo; i collegati, perché rimasti padroni del campo e delle salmerie francesi.
Rientrato in Francia, nei tre anni successivi Carlo progettò un’altra invasione della penisola, lasciando tale progetto in eredità al successore Luigi XII. Intanto, c’erano altri intenzionati ad approfittare della debolezza politica dell’Italia.

IL GRAN CAPITANO

Gli spagnoli non erano presenti a Fornovo, impegnati ad aiutare re Ferrandino a riprendersi il Regno di Napoli. Su ordine di Ferdinando il Cattolico, alla fine del maggio 1495 era sbarcato a Messina un piccolo contingente di fanti e di jinetes (cavalleria leggera iberica) al comando di Gonzalo Fernández de Córdoba, che per l’inizio del mese successivo erano passati in Calabria per unirsi alle forze napoletane. Con i seimila uomini disponibili, Ferrandino era certo di poter battere i francesi sotto Robert Stewart d’Aubigny, Gran Connestabile di Carlo VIII per il Regno di Napoli. Córdoba non ne era tanto sicuro: e infatti nella battaglia, svoltasi il 28 giugno presso Seminara, gli ispano-napoletani furono decisamente battuti. Il re si salvò con la fuga e Córdoba si ritirò sulle montagne, impegnando gli avversari con un’estenuante guerriglia. Privi di rinforzi, isolati, senza paghe e circondati da una popolazione ostile, i francesi si trovarono presto a mal partito, e il 7 luglio 1496 Ferrandino fece il suo trionfale ingresso a Napoli. Córdoba aiutò il papa a riprendere Ostia, entrando poi a Roma alla testa dei soldati spagnoli.
I problemi del Regno di Napoli erano risolti solo in apparenza, perché poco più d’un mese dopo la vittoria Ferrandino veniva a morte dopo una breve malattia, senza figli e lasciando una situazione successoria fratturata. Federico I d’Aragona, fratello di Alfonso II, oltre alla corona lasciatagli dal nipote aveva anche ereditato la sempre presente minaccia francese, specie dopo l’ascesa al trono, nel 1498, di Luigi XII, determinato a riuscire dove il suo predecessore aveva fallito. Tuttavia, un attacco contro Napoli avrebbe immediatamente provocato l’intervento di Ferdinando il Cattolico, che aveva a sua volta mire sul Regno meridionale, dato che Ferrandino gli aveva promesso di farlo suo successore nel caso fosse morto senza discendenza; oltretutto, Ferdinando aveva tutto l’interesse a tenere i francesi lontano dalla Sicilia.
A questi già seri problemi, Federico era riuscito ad aggiungervi l’inimicizia di Alessandro VI e di conseguenza il pontefice si era mostrato più che disponibile a sostenere le pretese di Luigi. Da questa situazione scaturì il trattato segreto siglato a Granada l’11 novembre 1500, in cui Luigi e Ferdinando acconsentivano a spartirsi il Regno di Napoli, la parte più a nord, inclusi gli Abruzzi, andando alla Francia, mentre la Calabria e la Puglia venivano riservate per gli spagnoli. Certi territori, tra cui la Capitanata (la zona di Foggia) e la Basilicata, non venivano menzionati nell’accordo e queste omissioni avrebbero avuto delle serie conseguenze.
L’ignaro Federico fu colto di sorpresa quando il 15 dicembre 1500 il papa gli lanciò contro la scomunica. Il re capì che si stava preparando qualcosa di grosso, ma la nobiltà del regno non rispose alle sue chiamate, preferendo attendere lo sviluppo della situazione, fuorché quella parte già collusa con i nemici del sovrano.
Federico si appellò a Ferdinando il Cattolico, acconsentendo ad accogliere guarnigioni spagnole in importanti fortezze nella Calabria e in Puglia, inconsapevolmente contribuendo così alla propria rovina.
Nel giugno dell’anno successivo, i francesi entrarono in Campania assieme alle truppe papali e il 25 del mese Alessandro VI dichiarò Federico decaduto, spartendo il suo regno secondo i termini del trattato di Granada. Il 19 agosto le truppe franco-papali entrarono a Napoli e Ferdinando, intanto, provvedeva a conquistare la Calabria, la Basilicata e la Puglia. Vistosi perduto, Federico preferì consegnarsi a Luigi XII piuttosto che all’infido Ferdinando, il 12 ottobre rinunciando formalmente ai suoi diritti sul Regno di Napoli a favore del sovrano francese.
L’abdicazione di Federico guastò i rapporti tra i francesi e gli spagnoli, che avevano cominciato a litigare sulla questione della Capitanata, i primi sostenendo che faceva parte degli Abruzzi e gli altri, invece, della Puglia.
Il conflitto aperto scoppiò nel luglio 1502, la superiorità nemica costringendo Gonzalo de Córdoba a ripiegare a Barletta. I francesi misero il blocco alla città, poiché gli spagnoli li impegnavano con continue incursioni e scaramucce. Nel febbraio 1503 sette navi siciliane cariche di grano riuscirono ad entrare nel porto di Barletta portando sollievo agli assediati e, all’inizio di aprile, sbarcarono a Manfredonia duemila lanzichenecchi spediti da Massimiliano d’Asburgo, il cui figlio Filippo “il Bello” aveva sposato la figlia di Ferdinando, Giovanna, poi nota come “la Pazza”.
Questi rinforzi, uniti alla notizie di altri successi spagnoli, spinsero Córdoba a rischiare battaglia. Aveva perfezionato la struttura della sua fanteria, creando una sinergia tra i tiratori, adesso tutti dotati d’archibugio, i soldati armati di picca, e quelli tradizionalmente spagnoli con piccolo scudo rotondo e spada. Una volta tanto aveva con sé un discreto numero di cavalieri, 1600 tra leggeri e pesanti, comandati da Fabrizio e Prospero Colonna, il totale delle truppe circa 6500 uomini, inclusi i lanzichenecchi, contro i quasi diecimila che poteva mettere in campo il comandan...

Indice dei contenuti

  1. Collana
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. L’arena dell’Europa
  6. PANORAMA
  7. FOCUS a cura di Niccolò Capponi
  8. APPROFONDIMENTI
  9. Piano dell'opera