Capitolo 1
La globalizzazione e la crisi degli Stati nazionali
1.Premessa
Sono trascorsi molti anni dalla pubblicazione della mia monografia sul ruolo e sulle funzioni che la dirigenza pubblica ha esercitato, fin dalla conseguita Unità d’Italia, nel quadro di un regime che già rapidamente andava evolvendo in senso parlamentare.
Da quando l’editore Giappichelli la licenziò per le stampe, profonde trasformazioni hanno pervaso l’intero pianeta, sconvolgendo ulteriormente, soprattutto in Occidente, i tradizionali rapporti di forza tra i cittadini e le istituzioni democratiche, tra il capitalismo e il lavoro, tra l’ambiente e il progresso tecnologico.
Del resto, l’epoca della globalizzazione che stiamo vivendo, caratterizzata da un insieme assai ampio di fenomeni connessi con la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo, è destinata a sancire, per rievocare alcune profetiche riflessioni di Natalino Irti, l’affermazione di due differenti ordini spaziali: «Da un lato, i luoghi concreti dell’originaria familiarità, quali la terra nativa, le piccole e grandi patrie, i liberi scambi definiti dalle frontiere; dall’altro, il sistema di universale dipendenza rappresentato dalle distese globali della tecnica e dell’economia, dalla navigazione telematica, dai mercati muti ed oggettivi, che ci costringe ad andare e venire, con lacerante alternarsi, tra luoghi e non-luoghi, tra posizioni terrestri e puri spazi».
Ne discende, come afferma Zygmunt Bauman, che la «favola del villaggio globale» serve solo a occultare ciò che è realmente accaduto: la vittoria definitiva della classe degli investitori che ha realizzato una libertà assoluta, senza vincoli di territorio dove prima si svolgeva l’attività produttiva con i lavoratori, i fornitori, i consumatori. Questa libertà del capitale sta ridisegnando la gerarchia del mondo e sta incidendo, in profondità, sulla vita delle persone.
La “dittatura oligopolistica” delle multinazionali finanziarie è, dunque, il risultato di un inequivocabile percorso storico che, per il tramite della velocità dell’informazione, ha imposto, sul piano economico, l’agenda dell’incontro tra la domanda e l’offerta, ma anche la sostanziale rottamazione dello sviluppo della formazione della volontà decisionale basato sul principio dell’autodeterminazione.
Le stesse società democratiche sono rimaste imbrigliate, su scala globale, dalla veemenza di una rivoluzione digitale e industriale, di natura copernicana, che ha costretto un’intera generazione di donne e di uomini a rapportarsi, con estremo disagio culturale, a cambiamenti epocali nel linguaggio semantico della gestione del potere e nel difficile bilanciamento valoriale dei nuovi interessi contrapposti.
Si tratta di fenomeni irreversibili che hanno sconquassato, in brevissimo tempo, le fondamenta degli Stati nazionali articolati, al loro interno, in “strutture e sovrastrutture” costituitesi secondo il legittimo ordine, ma diventate, progressivamente, non più autarchiche e rappresentative delle molteplici istanze di parte.
La parcellizzazione della sovranità è, infatti, la vera faccia della globalizzazione: il vecchio diritto statuale continua ad affievolirsi e diventa vittima sacrificale dell’economia predatoria eterodiretta dalle élite cibernetiche che, sul piano fattuale, hanno già realizzato la “secessione” dal popolo, non avendo più alcun tipo di rapporto con i territori e vivendo, invece, uno spazio tutto proprio, inaccessibile e fortificato.
Da questo punto di vista, come ha ben evidenziato Pietro Barcellona, non esiste più la città continentale della tradizione europea dove i cittadini di diverse “Nazioni” si incontravano nello spazio pubblico per riempire di contenuti la democrazia partecipativa. Al contrario, esiste solo il nuovo governo dell’informazione mass-mediatica che tende al primato della cultura del “pensiero unico” in un’ottica di vorticoso movimento di capitali che non ha bisogno di essere localizzato.
Tale realtà inconfutabile sta a significare una sola cosa: la scomposizione dello scenario globale a vantaggio di una sempre più marcata separazione tra economia e politica con la prima sempre più sottratta agli interventi regolatori della seconda e quest’ultima sempre più incapace di compiere scelte pubbliche che ridefiniscano il ruolo dello Stato rispetto a quello del mercato.
Ci troviamo, pertanto, di fronte a una colossale sfida strutturale: ovunque è prevalsa, con la forza di un dogma, l’ideologia neoliberista che funge da giustificazione teorica per il prevalere delle ragioni del libero mercato transnazionale sulle esigenze di non subordinare l’equa distribuzione della ricchezza ai diktat, di segno opposto, dei potentati di turno.
Da qui la necessità di realizzare uno stabile punto di equilibrio tra i dirompenti automatismi dei circuiti non solo del web e la difesa dei valori universali di umanità e senso civico.
2.La globalizzazione come fenomeno irreversibile: aspetti positivi al netto delle criticità
Le brevi considerazioni fin qui sviluppate, dense di suggestioni non solo evocative, non devono, paradossalmente, indurci nell’errore di ritenere che la globalizzazione abbia causato una totale regressione in termini di peggioramento della qualità della vita.
La compressione dello spazio e del tempo non sta, infatti, impedendo alle libertà economiche di manifestarsi sotto forme diverse. Anzi, la velocizzazione degli scambi e gli investimenti internazionali sono conquiste definitive da sfruttare fino in fondo per qualsiasi logica imprenditoriale orientata al superamento di un passato identitario vincolato al mero dato territoriale.
Al riguardo, non possono essere gli stati d’animo collegati all’incertezza, alla paura esistenziale e al senso di precarietà, e diffusi soprattutto tra gli attori della filiera economica, a ergersi a substrato psicologico per abbattere le criticità della globalizzazione attraverso azioni di contrasto allo sviluppo delle nuove tecnologie che, oltre a rappresentare uno degli elementi essenziali per la diffusione del nuovo sapere, hanno anche determinato la trasformazione del mercato del lavoro.
D’altronde, se volgiamo un rapido sguardo al passato, non è difficile comprendere come le rivoluzioni tecnologiche e commerciali abbiano caratterizzato da sempre la storia dell’umanità, seguendo l’andamento della crescita demografica e l’aumento della domanda aggregata di beni. Basti pensare al processo di evoluzione dei mezzi di produzione che non è stato mai di ostacolo alla generazione dei posti di lavoro, ma che, tuttavia, ha causato, e continua a causare, il ribaltamento del paradigma “lavoro-tecnologia” con la polarizzazione delle competenze occupazionali e con i conseguenti nuovi problemi di distribuzione della ricchezza.
Con ciò intendo dire che la questione relativa alla perdita del lavoro in un’ampia fascia intermedia di qualificazione a opera del processo di automazione, che si è verificato soprattutto nel settore manifatturiero, e che ha subìto un forte impulso da parte di quell’economia “digitale” che ruota intorno al funzionamento delle piattaforme tecnologiche, non è stata mai combattuta con l’individuazione di efficaci sistemi di distribuzione alternativa della ricchezza.
Del resto, sono da considerare improponibili, in quanto antistorici e illiberali, quelli che attengono al dibattito sulla decrescita, con una progressiva riduzione dei consumi al fine di ridimensionare la spinta produttivistica dell’industria mondiale, oppure quelli che invocano il superamento dell’impatto negativo del progresso tecnologico sulla distribuzione del reddito attraverso la redistribuzione fra la popolazione della proprietà delle macchine, così da respingere il ricorso alla cosiddetta “meccanizzazione” considerata uno strumento atto ad arricchire chi la utilizza (il capitalista) e a impoverire il lavoratore che verrebbe espulso dal mercato giacché, nel frattempo, le sue competenze sono divenute obsolete.
È di tutta evidenza, infatti, che, non potendosi arrestare il progresso per il tramite di atteggiamenti conservatori, o peggio ancora “luddisti”, occorre essere consapevoli che soltanto investendo nell’innovazione sociale si possono governare con equilibrio i processi produttivi, puntando, in primo luogo, sulla riconversione del capitale umano, sulla ricerca tecnologica, sulle infrastrutture, sul ruolo centrale che, in definitiva, gli Stati devono saper svolgere in veste di catalizzatori di soggetti, risorse e iniziative finalizzati alla sostenibilità e alla crescita dei mercati.
Alle istituzioni centrali, deontologicamente parlando, spetta, infatti, il compito di promuovere un valore sociale complessivamente condiviso.
Per raggiungere questo obiettivo bisognerà fare leva su una nuova visione strategica che realizzi appositi interventi normativi e regolatori, che promuova una diversa politica fiscale, che trasferisca la proprietà di aree, costruzioni e strutture dalla pubblica amministrazione a soggetti in grado di gestirle in nome e per conto dell’interesse generale, che promuova l’engagement dei singoli cittadini.
Tutte best practices da cui dipenderà lo sviluppo di ecosistemi virtuosi per una governance più giusta e inclusiva.
3.La globalizzazione...