Saba
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Umberto Saba è uno scrittore, come diceva di sé, con «le radici nell'Ottocento» e «la testa nel Duemila», che non ripudiò mai il rapporto con una tradizione «alta» ma fu controcorrente rispetto a tante tendenze della prima metà del Novecento (decadentisti, ermetici, futuristi), rifiutando ogni culto dell'esteriorità per essere se stesso, anche nell'espressione. La sua voleva essere una poesia «onesta», pura, che rifiutava la falsità anche verso se stesso; «serena e disperata», un modo per riconoscere il dolore universale non solo in sé, ma in tutti gli uomini, negli animali, anche negli oggetti inanimati. Era l'espressione della sua vita e delle sue angosce, accettate e cantate come un esorcismo, per sopravvivere e superare le contraddizioni, i contrasti del proprio animo e accedere a una visione totalizzante e "pacificata" dell'esistenza.

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Informazioni

Editore
Pelago
Anno
2021
ISBN
9791280714657
FOCUS

IL SUO MONDO E LE SUE IDEE

Trieste per Saba ha rappresentato tante cose: luogo natale, sfondo della sua vita e dei suoi racconti, personaggio, soggetto di testi dedicati alla rappresentazione di questa città. In ogni caso, Trieste – per Saba – è qualcosa che ha avuto un rilievo assolutamente particolare nella sua opera. Un’opera che, essendo – in pratica – quasi tutta autobiografica, parla di Saba e, quindi, della sua città.
Definendo le caratteristiche della letteratura triestina, lo scrittore Giorgio Voghera le ha così sintetizzate:
cura delle cose da dire più che della forma e dello stile; cura della rappresentazione della verità, di una realtà con i tratti definiti, e quindi presenza di un interesse forte per l’autobiografismo; letteratura di problemi, di analisi.
In questo, Voghera condivideva alcune delle tesi che il critico Piero Pancrazi aveva enunciato già in un articolo del 16 giugno 1930 sul Corriere della Sera: rapporto con le culture del Nord e del Centro-Europa; paesaggio comune (porto, punto franco, Carso); un certo tipo d’uomo, borghese o popolare (industriale, affarista, mediatore, scaricatore di porto); donne concrete e istintive, «senza perdere l’anima»; laboriosità di linguaggio («come tutti i non toscani – diceva Pancrazi – i triestini devono conquistarsi, sul loro dialetto, la lingua scritta»).
E, poi, l’«assillo morale». Con scrittori di lingue, di culture, spesso di sangue misto, «spesso intenti a scoprirsi, a definirsi, a cercare il loro punto fermo; ma quasi col presupposto di non trovarlo, come chi faccia della ricerca non il mezzo, ma addirittura il fine del suo ricercare». Dunque «scrittori sempre in fieri, inventori di “problemi”, e romantici a vita». Scrittori che hanno un compito in una letteratura come quella italiana «che spesso s’adagia volentieri in schemi chiusi, e scambia la rettorica per classicismo e l’inerzia per nobiltà».
È necessario rileggere questa pagina molto nota di Pancrazi, che potrebbe essere considerata in chiave dionisottiana (“geografia” e “storia”) [Carlo Dionisotti, critico e filologo del Novecento, fu l’autore di Geografia e storia della letteratura italianandr] perché tante delle cose che vi si dicono a proposito dell’«aria di famiglia» (per cui – tenendo conto della diversità, tra loro, di scrittori come Carlo Michelstaedter, Scipio Slataper, Umberto Saba, Virgilio Giotti, Italo Svevo, Carlo e Giani Stuparich – nominarne uno fa pensare agli altri, diceva Pancrazi) si possono riferire a Saba, se si eccettui il problema della forma e dello stile, tenendo in ogni caso presente l’importanza assegnata da Saba al contenuto e alla «verità» da trasmettere con la propria poesia.
Prendiamo il caso delle tesi espresse in quello che è lo scritto più incisivo e diretto nel quale Saba enuncia la propria poetica, Quello che resta da fare ai poeti (del 1911, poi – però – pubblicato postumo nel 1959).
Non è un caso che queste pagine fossero state scritte, in origine, per essere pubblicate sulla Voce [la rivista fondata da Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini – ndr], anche se Saba avrebbe poi dichiarato che – dai “vociani” – si sentiva diverso («ero fra lor un’altra spece»: sic!, per ragioni di rima).
In realtà, nel 1911, quando scrive queste pagine, Saba si accingeva a pubblicare, Coi miei occhi (1912), un libro che viene edito dalla Libreria della Voce nel medesimo anno in cui escono, con la stessa sigla editoriale, Il mio Carso di Scipio Slataper e lo splendido Irredentismo adriatico di Angelo Vivante, uno dei libri più importanti e incisivi prodotti dalla cultura triestina del primo Novecento. Sulla stessa Voce, Saba avrebbe pubblicato alcuni contributi critici e di narrativa.
Così scriveva Saba nella lettera inviata da Trieste l’8 febbraio 1911 a Slataper, allora segretario di redazione della Rivista: «Egregio Slataper! […] L’articolo che le mando – Quello che resta da fare ai poeti – è l’esposizione di un metodo di lavoro e di un programma di vita, oltre i quali non vedo per la poesia in versi alcuna speranza di salvezza. L’ò scritto con passione, come una prima lettera d’amore, e lo vedrei con piacere stampato nella Voce, cioè nella sola rivista possibile […]».
La richiesta venne rifiutata (Slataper, tra l’altro, era stato anche critico nei confronti dei primi versi di Saba) e quelle pagine rimasero inedite. Ed erano (e sono) pagine di grande rilievo perché – nonostante modifiche e correzioni di rotta degli anni successivi – contengono temi radicati e persistenti della poesia di Saba, tra i quali l’esigenza di sincerità e onestà da parte del poeta, la necessità di procedere sempre ad autoanalisi ed esami di coscienza. L’onestà (o la poesia onesta, che è «quello che resta da fare ai poeti») è la capacità di andare a fondo nella ricerca della verità: un assunto che Saba cerca di esemplificare contrapponendo tra loro, Manzoni e D’Annunzio (e i loro epigoni e seguaci), e stabilendo un confronto fra gli Inni sacri (e i Cori dell’Adelchi) e il secondo libro delle Laudi e la Nave: fra «versi mediocri e immortali e magnifici versi per la più parte caduchi».
Saba vuole, tra l’altro, dimostrare che resiste al tempo l’arte di colui il quale bada, più che al successo e alla fama (come D’Annunzio), alla ricerca di sincerità.
Questo rapporto tra il far poesia e l’onestà morale lo ritroviamo – afferma Saba – in Manzoni, mentre manca in D’Annunzio che si rivela sempre molto abile nel costruire versi: Manzoni è spinto – dalle sue stesse convinzioni religiose – a essere onesto; D’Annunzio guarda più ai valori formali in sé e al successo che a un’espressione dei propri sentimenti e delle proprie passioni. Saba denuncia anche il falso concetto di originalità presente in molti scrittori contemporanei. Lo scrittore originale – afferma Saba – diviene tale non volontaristicamente ma perché non resiste alla forza della propria ispirazione.
Saba polemizza anche con la ricerca del successo letterario e mondano: chi lo cerca è destinato a fallire. Il vero artista non deve temere le ripetizioni e non deve cercare la frase altisonante per vendere «merce sospetta»; deve guardare dentro di sé, fare luce all’interno delle proprie passioni, procedere sempre a uno scandaglio interiore con «eroica meticolosità». L’artista dunque deve tendere a un tipo morale lontano da quello dei letterati «di professione» e vicino ai ricercatori del vero.
Onestà e disonestà del poeta vanno valutate in rapporto soprattutto con lui stesso, nella sua capacità di rinuncia alle seduzioni esteriori, nella ricerca puntigliosa del modo originale e originario in cui un’immagine si è tradotta in forma, rifiutando retorica e artificio.
Dunque, quasi un’azione di penitenza, una volontà di guarire dalla ricerca dell’appariscente, di ritornare alle origini.
Le pagine di Quello che resta da fare ai poeti sono in sintonia con tesi di altri triestini del gruppo indicato da Pancrazi. Il richiamo all’onestà come capacità di non cedere alle tentazioni del successo e dell’audience; la necessità di rigore, disciplina (autodisciplina), autoanalisi; l’esigenza di differenziarsi dai letterati per avvicinarsi ai «ricercatori di verità interiori o esteriori» (filosofi; scienziati) con il necessario ascetismo di chi indaga con metodo e coscienza; l’indissolubilità del nodo forma-contenuto; la necessità di una sostanza umana da contrapporre alle verità delle mode e delle ricerche puramente formali; l’esigenza di non “ubriacarsi”, camuffarsi, travestirsi da altro, tradendo la propria natura; l’opposizione alle seduzioni del mercato in nome di una assoluta sincerità che deve far preferire sempre l’espressione suggerita dall’emozione (o dal sentimento generatore di essa) a quella, più raffinata, risultante da un labor limae successivo, suggerito da princìpi di opportunità estetica.
Non siamo lontani, certo, dall’opposizione di Michelstaedter tra persuasione e rettorica: tra necessità di guardare la verità e di puntare ad essa, a tutti i costi; e l’esigenza – invece – di venire a patti con la realtà, aderire a compromessi, costruire sistemi (architetture ideologiche) in cui tout se tient [tutto è interconnesso] a dispetto delle fratture e della discontinuità del reale.
Non siamo lontani – in queste pagine di Quello che resta da fare ai poeti – neppure dalle affermazioni di uno Svevo che, mentre ripudiava quella cosa «dannosa» e «ridicola» che è la letteratura, affermava che la «scrittura» era uno strumento indispensabile all’analisi di sé e continuava a praticarla.
Né siamo lontani dal dissidio (nel romanzo sveviano Una vita) tra Annetta Maller (che vuole scrivere il romanzo di successo non importa di che soggetto, purché di successo, che faccia parlare di sé e che faccia guadagnare) e Alfonso Nitti che scrive un’opera più di tipo saggistico che narrativo, pesante e plumbea, valida per le sue idee filosofiche, non certo (secondo Annetta) per la piacevolezza del testo, che sarebbe la sola ad attrarre lettori e applausi.
Non siamo lontani, neppure, dalla contrapposizione, effettuata da Slataper, tra «letterato» e «poeta». Dove «poeta» non significa lo scrittore che scrive in versi, ma lo scrittore, in genere, capace di metabolizzare le contraddizioni della realtà e di comunicarle poi al proprio lettore. Contraddizioni che, per Slataper, possono essere rappresentate attraverso i binomi salotto-città vecia, carso-lastricato, commercio-letteratura, italiani-sloveni. Slataper affermava che solo chi avesse saputo introiettare queste contraddizioni, penetrarle o impadronirsene, ed elaborare un linguaggio capace di “passare” al lettore, sarebbe stato un «poeta».
Formule diverse, come si vede, ma una sostanza non troppo differente. Anzi: molte affinità. È il segno di una omogeneità problematica delle figure di questa cultura su una scena inquieta e mossa (per Saba, in fase ascensionale) importante come quella della Trieste tra fine Otto e primo Novecento. Città in crescita demografica e strutturale imponente: la città moderna di cui parla anche Slataper è un organismo che passa dai 5000 abitanti circa del primo Settecento ai 220.000 abitanti circa del 1909, anno delle Lettere triestine, pubblicate sulla Voce.
È una città che ha fondato la sua “modernità” sul porto, sulle assicurazioni, sulle banche, sul commercio, su alcune strutture industriali. E che ha basato la propria crescita su apporti di popolazione italiana ma anche di molte altre provenienze.
Dove si parlano diverse lingue – oltre all’italiano, il tedesco, lo sloveno –, le lingue dei gruppi nazionali di maggior rilievo (quello italiano, maggioritario); dove sono culti religiosi diversi. Dove gli inizi del Novecento segneranno, oltre che sviluppo, anche i sintomi di una crisi che si accentuerà negli anni successivi fino alla prima guerra con tutto il séguito che sappiamo.
Questa Trieste – di crescita impetuosa ma anche luogo (o anche «osservatorio») delle inquietudini della modernità (o «dei moderni», come avrebbe detto Slataper: ne erano un segno le contraddizioni di cui si è detto prima, i conflitti e i contrasti da risolvere, oltre che da metabolizzare per capirli) – è quella della adolescenza e della giovinezza di Saba. Che sovrappone le inquietudini personali a quelle di questa città difficile e complessa. Sicché poi, addirittura, gli sarebbe sembrato che la sua nascita, i conflitti e la separazione dei genitori, i traumi infantili, venissero come a segnare una linea divisoria tra una stagione felice e una stagione inquieta, tra il «divino per me milleottocento», il «mondo meraviglioso» che precede la sua nascita (1883), e il tumulto che gli farà séguito.
Emblematica, a questo proposito, la poesia La vetrina di Cuor morituro (1925-1930) dove il poeta racconta che, a letto, ammalato, si guarda intorno e fissa delle «Bianche stoviglie, ove son navi in blu / dipinte, un porto, affaccendate genti / intorno a quelle». Stoviglie che erano nella casa materna, che richiamavano un tempo «che fu sì dolce, che per me non fu / tempo, che ancor non ero nato, ancora / non dovevo morire». E pensa che, prima della sua nascita, «pace era al mondo». E rievoca il passato, non più il suo personale, ma quello della città, attraverso le stoviglie: «Del divino per me milleottocento / amate figlie, qui dalla lontana / Inghilterra venute, di voi dico, / pinte tazzine, vasellame usato / dagli avi miei laboriosi, al tempo / che la vita più degna era e più umana, / e molto prima che nascessi, io so / la vostra istoria, che ai vecchi la chiese / il poeta ch’è pio verso il passato. / Approdava ogni mese un bastimento / a questo porto di traffici amico, / con di voi sì gran copia che il mendico / come il ricco ne aveva. Aveva il tempo / fornito appena atroce guerra, e pace / era sui mari, ma non mai nel cuore / dell’uomo…»
Una Trieste quasi mitica, passata, di sviluppo, di ricchezza relativamente diffusa, di traffici. Una inquietudine della modernità che si proietta poi, per Saba, in un presente diverso, anche sul versante privato, delle crisi personali.
Trieste è al centro di una riflessione continua. Nel famoso discorso per il suo settantesimo compleanno, pronunciato al Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste il 19 ottobre 1953, Saba ribadiva il suo legame con la città ricordando di aver guardato il mondo da Trieste, di aver tenuto sempre presente il paesaggio della città in tutte le sue opere in prosa e in poesia, anche in quelle dove non si cita il nome della città, esprimendo l’esigenza, la necessità, per ogni uomo, di avere «radici profondamente radicate nella propria terra», pena – altrimenti – la perdita della credibilità e il risultare le sue opere e parole «campate in aria».
Del resto, erano proposizioni – queste – che, in qualche modo, si trovavano presenti già in Storia e cronistoria del Canzoniere, con quel richiamo al fatto che «il cielo che sta sopra la sua poesia, che tutta la compenetra, quel cielo anche, ma non solo, materiale […], è proprio il cielo di Trieste», quello di una città «periferica», dell’«altra sponda», con i suoi vantaggi e svantaggi. Per esempio, quello di non avere maestri di opere alla moda, se non i classici, e di dover guardare senza troppi filtri alla realtà.
Luogo ideale, aveva scritto Saba nel 1919 parlando di Enrico Elia [scrittore triestino morto ventiquattrenne sul Podgora nel 1915 – ndr], per un giovane che avesse voluto apprendere «dal vero», coltivare l’osservazione diretta, badando alla sostanza e scrutandosi dentro senza farsi fuorviare dal desiderio del nuovo, della ricerca meramente formale, mantenendosi fedele all’alta lezione dei classici (quelli di sostanza) e al confronto serrato con la vita e la verità, con le loro contraddizioni e i loro problemi.
Quanto al «cielo», era un’indicazione insieme reale e metaforica, Saba voleva intendere un qualcosa che era tutt’uno anche con «le radici», con il mito e con la storia della città. Che – nel suo stesso DNA – sembrava contenere i semi dello sviluppo e della sua “nevrosi”, di potenzialità che potevano essere realizzate in un terreno di cultura favorevole, oppure dar luogo a crisi e scoppi di aggressività.
Che è quanto Saba scrive nel noto articolo su Inferno e paradiso di Trieste (Corriere della Sera, 6 novembre 1946) dove, a una Trieste positiva, veniva quasi contrapposta una Trieste negativa. La Trieste positiva era quella della sua nascita come città moderna, col porto franco, l’incremento portuale ed emporiale, lo sviluppo urbano e quello demografico, anche la sua capacità iniziale di essere un crogiuolo di razze diverse (il famoso “crogiuolo”, negato dal critico e traduttore triestino Roberto “Bobi” Bazlen, in una considerazione – che sarebbe stata sottolineata anche da Massimo Cacciari – del procedere parallelo e distante di culture ed etnie diverse, fuse solo nel fisico de...

Indice dei contenuti

  1. Collana
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Una serena disperazione
  6. PANORAMA
  7. FOCUS di Elvio Guagnini
  8. APPROFONDIMENTI
  9. Piano dell’opera