Antichità - La civiltà romana - Scienze e tecniche
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Antichità - La civiltà romana - Scienze e tecniche

Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 17

  1. 156 pagine
  2. Italian
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Antichità - La civiltà romana - Scienze e tecniche

Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 17

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Al pari della civiltà egizia, la civiltà romana ha lasciato monumenti che sono sopravvissuti al tempo e alle distruzioni della storia. Contrariamente agli Egizi, che per la maggior parte utilizzavano il fiume Nilo per i loro spostamenti, i Romani hanno lasciato una rete di strade e di acquedotti, città e fortificazioni sparsi su un territorio che comprendeva l'Europa Occidentale, il Nord Africa, il Medio Oriente. Per secoli le tecnologie militari, dall'organizzazione e amministrazione degli eserciti sino alle tecniche di combattimento, conferirono ai Romani una supremazia indiscussa nel controllo del loro vasto impero.In possesso di conoscenze approfondite sui materiali impiegati, sugli equilibri strutturali che dovevano reggere arditi ponti, templi e anfiteatri e sul più vasto insieme di operazioni che richiedono capacità di calcolo e di astrazione, i Romani non si impegnarono mai in un'ampia e dettagliata trattatistica, fatto salvo il De Architectura di Vitruvio. Eppure il mondo romano fu caratterizzato da una grande fioritura di tecniche e da una pluralità di figure professionali altamente specializzate descritte in questo ebook, con tutte le innovazioni di cui ancora oggi verifichiamo quotidianamente gli ampi benefici.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788897514404
Argomento
History

Scienze e tecniche a Roma

La scienza dei Romani
Giovanni Di Pasquale

A lungo valutato negativamente dagli storici della scienza, il sapere scientifico e tecnico dei Romani è oggetto di una recente revisione storiografica. Penalizzata da una letteratura poco propensa a sottolineare il valore conoscitivo dei saperi tecnici, la pratica della scienza portata a maturazione nel lungo periodo storico che ha visto l’affermazione e il dominio di Roma nel Mediterraneo deve essere indagata non solo attraverso le fonti letterarie, ma guardando anche a reperti archeologici, monumenti ed epigrafi. Ne scaturisce un quadro assai dinamico, caratterizzato da modelli di comportamento tecnico di notevole livello.

Il positivismo e la tesi della stagnazione tecnologica

La tenacissima tesi storiografica della stagnazione tecnologica, ovvero la valutazione fortemente negativa nei confronti delle conoscenze scientifiche maturate nell’antichità e in modo particolare nel mondo romano, ha messo d’accordo storici della scienza e della filosofia, antichisti e archeologi che per molto tempo hanno dibattuto circa le cause che avrebbero originato questa situazione. Partendo dal presupposto del blocco tecnologico, la storiografia novecentesca si è concentrata per lungo tempo sull’insieme di fattori che avrebbero portato ad una marcata incapacità di coniugare tecnologia, economia e scienza. A ben vedere, fino alle soglie dell’età moderna e della rivoluzione industriale la civiltà greco-romana è stata vista con ammirazione e considerata un modello da imitare anche dal punto di vista delle conoscenze tecnico -scientifiche. Si guardava infatti con rispetto alla cultura letteraria, si studiavano le opere d’arte e le forme architettoniche, il diritto romano costituiva la base della giurisprudenza degli stati europei. Nel Rinascimento il trattato di Vitruvio era divenuto un banco di prova per umanisti e artisti che assieme lo avevano tradotto e illustrato, i testi dei meccanici di Alessandria costituivano la base teorica per lo studio delle meccaniche fino a Guidobaldo e le opere di Archimede erano state raccolte e date alle stampe. Nel Cinquecento gli agronomi latini costituivano ancora la base della conoscenza delle scienze agrarie e sul continente americano al tempo di George Washington era suggerita agli impresari terrieri la lettura delle traduzioni inglesi dei loro scritti; tra questi, l’opera di Columella resterà ovunque insuperata fino all’avvento dell’agricoltura moderna caratterizzata dall’impiego di prodotti chimici per vincere le malattie delle piante.
Figlia del positivismo, la tesi della stagnazione scaturisce dalla convinzione che l’antichità tutta, riunita in un blocco temporale della durata di oltre 2000 anni, non abbia contribuito che in minima parte alla straordinaria e progressiva storia dell’umanità, fatta di scoperte e invenzioni. In un contesto comunque incline a riconoscere la grandezza della cultura greca e romana, non si capisce come mai proprio in questo settore gli antichi abbiano maturato una sorta di blocco psicologico. Al dibattito scaturito attorno alle ragioni di questo mancato sviluppo hanno partecipato studiosi del calibro di Diels, Schuhl, Koyré, Farrington e tanti altri che, sostanzialmente, accertano l’incapacità di concepire un’idea di progresso simile alla nostra, un’eccessiva presenza di manodopera a basso costo e il conseguente scarso interesse delle classi abbienti ad investire in macchinari, nonché il mancato rapporto tra scienza e istituzioni, preoccupate dalle novità che sarebbero potute scaturire a livello sociale dalla diffusione di invenzioni e innovazioni.
Con l’autorevolezza che caratterizza i suoi studi, Koyré afferma, inoltre, che gli antichi non potevano sviluppare una civiltà delle macchine anche perché incapaci di compiere calcoli complessi, necessari per lo sviluppo della scienza. Il riepilogo di queste posizioni è stato compiuto da William Sthal che nel 1962 ha pubblicato il solo testo ancora oggi esistente interamente dedicato al mondo romano, dal titolo Roman science. L’autore, che aderisce alla tesi della stagnazione tecnologica, sostiene che sarebbe opportuno non parlare di scienza romana, ma di un prolungamento inconcludente delle ricerche prodotte dai Greci.
È interessante osservare che la tesi della stagnazione tecnologica non ha incontrato solo il favore degli storici della scienza, ma anche l’appoggio di storici dell’economia, antichisti e archeologi almeno fino alla seconda metà del Novecento. Sul dibattito ha avuto un peso determinante la figura dello storico Moses Finley, autore di monumentali studi sul mondo del lavoro. Per Finley la tecnologia meccanica dei Romani non innova e non produce, è un fenomeno marginale per la mancata connessione tra scienza e tecnologia dovuta alla presenza di schiavi in eccesso, motivo sufficiente per non avere interesse alcuno ad incrementare la produzione con macchinari e tecnologie innovative. Considerando il problema secondo un metro tipicamente moderno, seppure disposti ad ammettere l’esistenza di qualche macchina, gli storici dell’economia ne bocciano l’impatto sulla società in quanto non vi sarebbe stata influenza alcuna sulla resa produttiva. Pertanto non vi sarebbe stata scienza applicata, le invenzioni non avrebbero portato innovazione e l’economia sarebbe rimasta stagnante proprio a causa del mancato legame tra scienza, tecnologia e economia.

Una prospettiva diversa: la cultura materiale degli antichi

Un importante mutamento di prospettiva è scaturito dall’affermazione, anche in Italia, di un metodo d’indagine basato su una maggiore attenzione nei confronti della cultura materiale, mirando così a valorizzare quelle conoscenze che, non avendo avuto il loro storico, non sono state registrate all’interno di testi. Come nella storia delle arti e di tutta la civiltà antica, anche queste indagini hanno dovuto sgomberare il terreno da una storiografia che ha effettuato classificazioni inquadrando le varie epoche non per quello che sono state, ma come momento preparativo o successivo rispetto a un classico periodo aureo. Tra gli studi più importanti all’insegna della nuova corrente storiografica il lavoro sui mulini ad acqua nel mondo romano (Exploitation of Water Power, or Technological Stagnation?, 1983) nel quale Orjan Wikander sottolinea come, benché fonti letterarie e archeologiche attestino l’esistenza di questa tecnologia e il suo utilizzo a partire almeno dal I secolo a.C., i più ne hanno invece attribuita la comparsa all’alto Medioevo, ciò che poteva attribuirsi solo ad impostazioni preconcette che impedivano di vedere le prove del contrario.
In linea generale, la ricerca storico-archeologica compiuta dagli anni Settanta del secolo scorso in poi, valorizzando documenti come reperti archeologici, papiri e iscrizioni, ha contrastato e smentito l’immagine del blocco tecnologico con il relativo modello economico.
Questo non significa che le fonti letterarie abbiano perduto importanza, ma è un dato di fatto che oggi abbiamo da un lato ottime edizioni filologiche dei classici che sono in circolazione da tempo e dall’altro l’archeologia, i cui ritrovamenti sono in continua crescita; sebbene il dato archeologico sia legato al caso e talvolta incompleto, sono proprio reperti, iscrizioni e iconografia a darci nuovi spunti ed elementi di discussione. In costante aumento, i ritrovamenti archeologici ci mettono davanti a fatti concreti che occorre interpretare.

Gli antichi e la tecnica: fonti letterarie e documentazione iconografica

D’altro canto, è anche corretto osservare che la posizione marginale della tecnologia, la bocciatura verso la non intellettualità di questo tipo di conoscenza e il disprezzo nei confronti delle classi sociali dedite al lavoro manuale non sono un’invenzione dei moderni, ma argomenti già espressi da autorevoli scrittori antichi. Infatti, sono stati gli stessi autori classici a rendere invisibile il sapere dei tecnici, relegandolo agli ultimi posti della scala sociale. Vale la pena ricordare che Platone non avrebbe dato sua figlia in sposa a un meccanico e che secondo Aristotele la schiavitù era necessaria dal momento che ancora non si era imparato a fabbricare telai in grado di funzionare da soli; per Cicerone essere artigiano non si conciliava per niente con l’essere romano, dal momento che si trattava di occupazione bassa e vile. Seneca, dal canto suo, dichiarava che il lavoro dell’artigiano non ha niente a che fare con le qualità dell’uomo per bene.
In direzione opposta vanno l’incredibile quantità di manufatti che l’archeologia ha in parte restituito e l’iconografia antica, con le insegne di bottega e le lapidi funebri che sono illuminanti per comprendere come gli artigiani percepiscono e rappresentano se stessi. Ai colti ed eruditi che si fanno ritrarre col rotolo o con gli strumenti per la scrittura, artigiani e tecnici oppongono insegne di bottega e lapidi tombali che spesso raffigurano strumenti e dispositivi impiegati in vita. La tomba del fornaio Virgilio Eurisace sulla via Appia con le balle di farina e la gigantesca bilancia in bella evidenza e quella di T. Haterius con in primo piano la macchina portentosa con cui il defunto ha costruito imponenti e noti monumenti di Roma, costituiscono due casi esemplari di identificazione con l’attività lavorativa svolta cui allude proprio l’orgogliosa raffigurazione degli apparati meccanici utilizzati. Del resto, la rappresentazione di scene di lavoro è un fenomeno che non riguarda solo i privati, trovandosene un esempio importante anche in un monumento pubblico come la colonna Traiana dove, nel raccontare per immagini i successi dell’esercito romano, sono state raffigurate scene di costruzione di accampamenti e ponti, di disboscamento e azioni militari caratterizzate dalla presenza di macchine belliche, al fine di evidenziare il divario tecnologico tra Roma e gli altri. L’analisi combinata dei documenti archeologici e letterari sembra quindi indicare che saperi pratici ed elaborazioni teoriche conseguenti all’impiego di tecnologie sempre più avanzate non sono estranee alla società romana. Ovviamente non dobbiamo considerare centro e periferia come una realtà omogenea: al momento della massima espansione la superficie dell’Impero è calcolabile in 6 milioni di km², con circa 100 mila km di strade con ponti per una popolazione, nel II secolo, approssimativamente valutabile attorno ai 60 milioni di abitanti.

Modelli di comportamento tra scienza e tecnica

Le caratteristiche regionali sono note e sfruttate: vocazione agricola per Egitto e Spagna, metallurgica per Spagna, Gallia e Britannia. In uno scenario così ampio, è possibile individuare alcuni modelli di comportamento che hanno molto a che fare con la tecnologia. Basta pensare al modello urbano, cioè alla fisionomia della città romana esportata ovunque con i suoi colonnati, il foro, le terme, l’anfiteatro, l’acquedotto a arcate. Tra l’altro, proprio in questo settore è emblematico il caso del già citato Q. Haterius, appaltatore dell’anfiteatro Flavio e di altri edifici importanti di Roma, il quale investe in tecnologia, ovvero in macchine per risparmiare manodopera e accelerare i tempi della costruzione. Inoltre, la famiglia degli Haterii è legata al collegio dei fabri tignarii, a sottolineare il vincolo tra costruzione di macchine da cantiere e corporazioni di falegnami. In una società propensa a ricordare il committente e non l’esecutore, dal II secolo in poi sono molti gli architetti che l...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Colophon
  3. Frontespizio
  4. La collana
  5. Introduzione
  6. La matematica in età greco-romana
  7. Astronomia
  8. Natura, magia e alchimia
  9. Scienze e tecniche a Roma
  10. Medicina
  11. Piano dell'opera