L’influenza straniera nella musica greca
La letteratura della Grecia antica è piena di riferimenti alla musica dei non Greci, rappresentata con i medesimi stereotipi con i quali sono definite le stesse civiltà “barbariche”. Le qualificazioni di “effeminato”, “sfrenato” e “lascivo” sono applicate, a partire soprattutto dall’epoca delle guerre persiane, al paradigma musicale dell’Oriente straniero. Tali attributi, piuttosto che descrivere fenomeni e pratiche, manifestano il tentativo di marcare la distanza dal non greco, in risposta alle esigenze di definizione identitaria associabili a una specifica fase storica. Le narrazioni elleniche sulla musica orientale sono dunque condizionate, soprattutto nell’Atene classica, da elementi sovrastrutturali che risentono del difficile rapporto con lo straniero, rendendo oltremodo difficile l’individuazione degli apporti orientali nelle pratiche musicali dei Greci. Ne consegue che solo partendo dal riconoscimento di matrici ideologiche, e delle strategie politico-culturali cui obbediscono, è possibile distinguere e analizzare i dati reali relativi alla presenza di influssi stranieri. E solo l’individuazione di tali influssi può eventualmente contribuire a smascherare strategie di opposizione culturale capaci di stravolgere la realtà dei fatti.
Nelle fonti greche l’esistenza di apporti orientali è affermata sia a livello materiale (strumenti musicali) sia strutturale (generi, harmoniai) sia stilistico (repertori e pratiche), ma la sua veridicità storica non può essere provata soltanto sulla base di ciò che i Greci affermano. Possono aiutare le fonti archeologiche, le cui divergenze con il dato letterario rappresentano, il più delle volte, la spia di strategie di deformazione più o meno consapevoli. Da utilizzare è anche il dato linguistico, che ci informa dell’esistenza dei prestiti alloglotti nel vocabolario musicale dei Greci. Come pure, limitatamente a determinati aspetti, può essere utile il confronto con quella teoria musicale mesopotamica resa fruibile, da non molti decenni, grazie alla pubblicazione di alcuni testi in cuneiforme.
Influenze materiali e tecniche: gli strumenti
Presso i Greci, la provenienza etnica è uno dei criteri possibili di classificazione degli strumenti. La utilizza il tarantino Aristosseno, il cui elenco di strumenti barbari (ekphyla) comprende il phoinix, la pektis, la magadis, la sambyke, il trigonos, il klepsiambos, lo skindapsos, l’enneachordon, quasi tutti appartenenti alla famiglia delle arpe (dovrebbe fare eccezione solo lo skindapsos, se è corretta l’interpretazione degli studiosi che lo considerano un liuto).
Sulla base della nomenclatura straniera, Strabone conferma la provenienza asiatica di magadis e sambyke, e aggiunge la nablas (un’arpa fenicia), il barbitos (una particolare forma di lira), la cosiddetta kithara asiatica e gli auloi berecinzi o frigi. Posta in questi termini, e considerata nella prospettiva dei Greci, la questione degli apporti orientali nella definizione degli strumenti ellenici si risolve in poche battute, limitata com’è alle arpe e ai liuti, e al più ampliata a particolari tipologie di lira e di aulos. Ma le stesse fonti greche pongono la tematica in una prospettiva più ampia, quando oppongono la lira di Apollo, simbolo del razionale spirito ellenico, all’aulos frigio del satiro Marsia, emblema dell’irrazionalità dionisiaca e orientale. L’avversione nei confronti della musica auletica, maturata nei circoli aristocratici dell’Atene classica, si sostanzia nell’associazione con i Frigi, ritenuti responsabili dell’introduzione in Grecia dell’aulos (non solo delle sue varianti frigia o berecinzia).
Lo stesso termine aulos, come gran parte dei nomi greci di strumenti, sembrerebbe di origine straniera. Andando a esaminare la documentazione archeologica, la questione si complica ulteriormente, evidenziando lo scarto esistente tra dati materiali ed evidenze testuali. L’aulos, aerofono ad ancia provvisto di due canne, è attestato in area egea fin dal III millennio a.C. ed è rappresentato, probabilmente nella variante frigia, sul sarcofago minoico di Hagia Triada (XV sec. a.C. ca.). La sua presenza a Creta in piena età del Bronzo porterebbe a smentire l’origine frigia suggerita dai testi, dal momento che non esistono, a tutt’oggi, tracce documentate di Frigi anteriori al XII secolo a.C., per quanto non si possa escludere, agli albori dell’epoca arcaica (IX-VIII sec. a.C.), un ruolo di intermediazione dei popoli anatolici nella ridiffusione di antichi strumenti egei.
Per quanto riguarda la lira, lo strumento che più di tutti è assurto a simbolo della musica e della cultura greca, ne esistono in Grecia varie tipologie. La più diffusa, e anche la più maneggevole, è la cosiddetta chelys, col risuonatore ricavato da un guscio di tartaruga. Questo tipo di cassa non trova paralleli nelle più antiche civiltà orientali (Mesopotamia, Egitto, Anatolia), il che confermerebbe la caratterizzazione autoctona attribuita allo strumento. Quello che sorprende, invece, è la qualificazione orientale associata al barbitos, strumento in tutto simile alla chelys e ugualmente classificabile tra le lire “a guscio”, contraddistinto solo dalla maggiore lunghezza dei bracci e delle corde (e quindi dalla maggiore gravità del suono), o al più dalle ridotte dimensioni della cassa. L’impressione che se ne ricava è che l’associazione con l’Oriente, piuttosto che indicare la provenienza straniera del cordofono, sia indizio di quel processo di vilificazione che lo strumento subisce nell’ambiente conservatore dell’Atene classica e che si sostanzia nel collegamento con la sfera femminile e la licenziosità del komos.
Delle altre forme di lira, la solenne ed elaborata kithara condivide con le lire asiatiche numerosi dettagli, tra i quali l’uso di metalli e pietre preziose, la probabile presenza di decorazioni zoomorfiche e, soprattutto, la forma quadrangolare della cassa, la cui comparsa in Grecia segna, limitatamente alla elaborazione della forma-lira, la fine della separazione Oriente/Occidente, dovuta alla mancata assimilazione nell’Egeo prearcaico della base “squadrata” tipica delle regioni orientali. Antenata della kithara è infatti la phorminx, che a fronte di significative analogie con le lire mesopotamiche (bracci impreziositi da decorazioni zoomorfiche, sistema di accordatura per lo più eptatonico), presenta il tratto distintivo della cassa a mezzaluna. Non che manchino in Oriente esempi di casse arrotondate.
E tuttavia, laddove l’assimilazione egea di elementi orientali appare quasi ovvia nel contesto della koine mediterranea del II millennio a.C., è il ritardo nell’importazione dei risuonatori quadrangolari il dato da sottolineare, data la capillare diffusione degli stessi nelle regioni medio e vicino-orientali. Tale dato si affianca a quello, non meno significativo, della predilezione per i bracci simmetrici e di uguale lunghezza (laddove nelle regioni orientali predomina, come è noto, il tratto della asimmetria e della diseguaglianza), ed evidenzia i diversi tipi di reazione dell’area egea agli influssi orientali, che non sempre coincidono con l’assimilazione passiva, ma possono estendersi al rifiuto, alla selezione e al riadattamento.
A riprova di ciò si possono citare quei non pochi strumenti, come le arpe (iconograficamente documentate solo a partire dal V-IV secolo a.C., se si escludono le attestazioni cicladiche), i liuti e i timpani, che solo tardi entreranno a far parte dell’apparato organologico dei Greci, pur essendo adoperati da secoli sia in Oriente che in Egitto.
Il loro utilizzo limitato e marginale e la loro tarda importazione confermano la capacità egeo-ellenica di selezionare manufatti sonori e di adattarli a una realtà culturale ed estetica per molti aspetti diversa.