Il melodramma apre il Settecento con una forma ancora unificata, dalla quale però si ambisce a eliminare tutti gli elementi buffi e comici. Questo avviene già con Zeno e soprattutto con Metastasio, vero sistematore della riforma che connota l’opera seria settecentesca. Nella struttura canonica di recitativo e aria (aria d’entrata, aria con “da capo”) parola e musica trovano un accordo di compromesso destinato a durare un cinquantennio con pieno successo. Le riforme volontaristiche, senza contenuti culturali pregnanti, non trasformano il genere che verrà riformulato soltanto con la nuova cultura romantica ottocentesca.
L’Arcadia. La prima riforma pastorale
Anche per quanto riguarda il melodramma, oltre che la poesia e il teatro recitato si può considerare come fondativa la data dell’istituzione dell’Arcadia a Roma , il 5 ottobre 1690. L’idea di riforma e di rinnovamento che sostanzia la teoria degli arcadi investe da subito il dramma per musica: il primo intervento teorico riguarda il teatro anche se non dichiaratamente il melodramma. È di fatto un melodramma l’ambiguo Endimione di Alessandro Guidi, cui Gian VincenzoGravina nel 1692 premette un proprio Discorso, proponendolo come modello del nuovo buon gusto e della nuova moralità (L’Endimione di Erilo Cloneo – Alessandro Guidi – pastore arcade con un Discorso di Bione Crateo – Gian Vincenzo Gravina – Roma, 1692).
L’Endimione, scritto per Cristina di Svezia, doveva essere musicato in tre atti con forma secentesca; ma dopo la morte della regina, nel nuovo clima classicheggiante dell’Arcadia e anche sotto l’influenza del grecheggiante Gravina, Guidi trasforma il proprio testo, ampliandolo da tre a cinque atti e aggiungendo i cori, ma mantenendo la struttura originaria di recitativo e arie. Il risultato è quindi ancora un melodramma, ma rinnovato e vitale anche senza musica, che sarà recitato per l’entrata del poeta nell’Accademia; primo vero esempio del tentativo dell’Arcadia di riformare il melodramma dall’esterno della tradizione impresariale, esso mira a un teatro più colto, sull’esempio degli antichi, della tragedia e delle sue strutture, ma si rivolge anche alla pastorale tardocinquecentesca, senza rinnegare la musica e le forme metriche che la poesia deve offrire al musicista per le arie.
Gravina nel Discorso giustifica questa “forma” mista rifiutando ogni rigida poetica di genere, aprendo la strada a forme nuove e contaminate che utilizzino la musica, recuperando allo stesso tempo i contenuti e la funzionalità educativa propria del teatro degli antichi. Anche i contenuti dell’Endimione appaiono riformati nell’ottica graviniana e diventano un modello per utilizzare nuovamente la mitologia attraverso il simbolismo della virtù pastorale e il platonismo amoroso della scala di ascensione alla divinità attraverso la bellezza. Il soggetto pastorale moralizzante (ma nella versione dell’innocenza aurorale) nonché la reintroduzione dei cori caratterizzano L’amore eroico tra i pastori del cardinale Pietro Ottoboni (Roma, 1696), che anche nel titolo condensa l’idea pregnante dell’ideologia arcadica di quegli anni: l’eroismo pastorale. Del resto anche nell’Italia settentrionale, a Milano, Bologna, Verona e Venezia, si tenta un rinnovamento del melodramma basato soprattutto sulla moralizzazione dei contenuti – riproponendo la mitologia e il simbolismo pastorale in forme diverse – sfumati di echi delle pastorali e nutriti di virtù cristiane, all’interno di forme più o meno classicheggianti.
Un altro Endimione di Francesco de Lemene (Lodi, 1692), La fida ninfa di Scipione Maffei (scritta nel 1694), il Dafni di Eustachio Manfredi (Bologna, 1696) e i vari melodrammi pastorali di Pier Iacopo Martello, Il pastor d’Anfriso di G. Frigimelica Roberti (Venezia, 1695) e ancora il Narciso di Apostolo Zeno (Ansbach, 1697) partecipano al tentativo di riforma arcadica pastorale con risultati – a volte – poeticamente più interessanti dell’Endimione di Guidi. Ma già all’inizio del secolo l’esperimento è finito e altrettanto privo di seguito è il tentativo, legato soprattutto al nome del padovano Frigimelica Roberti, d’imporre nei teatri veneziani la forma tragica in cinque atti con cori e talvolta fine infelice.
A Venezia la strada imboccata dal melodramma professionale e seguita per tutta la metà del secolo non è quella del pastorale sapienziale o del pastorale ingenuo e neppure della struttura grecheggiante, ma è la strada dell’imitazione della drammaturgia psicologica francese del Seicento.
Verso una nuova forma: Apostolo Zeno e l’imitazione dai Francesi
La presenza di intrecci ispirati alle tragedie francesi è già evidente nel melodramma negli ultimi decenni del Seicento, anche se non è ancora stata quantificata in quanto soverchiata dalle tracce dell’imitazione di drammi spagnoli. Si ricorda solo nel Flavio Cuniberto di Matteo Noris (Venezia, 1682) l’intreccio amoroso secondario derivato dal Cid di Corneille (anche se non si può escludere la fonte spagnola); lo avverte esplicitamente Nicola Haym, riadattandolo per Händel nel 1723. Il prelievo dichiarato dai Francesi, anche se dalla mitologica tragédie à machine cornelliana Andomède, è praticato a Bologna nel 1697 da Pier Iacopo Martello con il suo Perseo; ma certo l’influsso più decisivo è determinato dal ricorso ai modelli delle tragedie di Corneille, di Racine e anche dei minori, da parte del teatro dilettantesco, di società e di collegio, testimoniato anche dalle numerosissime traduzioni che le accompagnano, manoscritte e a stampa, e che, già dalla fine del secolo, diffondono la drammaturgia francese soprattutto a Roma e a Bologna. Nei Francesi gli scrittori di libretti per musica trovano un repertorio formidabile di intrecci ancora romanzeschi ma coniugati con la raffinatezza psicologica propria della cultura razionalistica, interessata anche dal punto di vista scientifico alla dinamica delle passioni, che giustifica forme espressive ancora intensamente retoriche. Sulla strada di contenuti moralizzati, di affetti e contrasti psicologici si muove a Venezia Apostolo Zeno che appare ai contemporanei il riformatore del sensoriale e immorale melodramma secentesco. Tale è considerato da Crescimbeni che già nel Settecento lo loda insieme a Domenico David ne La bellezza della volgar poesia (Roma, 1712) e come tale lo considera pure Ludovico Antonio Muratori (Della perfetta poesia italiana, Modena, 1706), pur all’interno di una radicale critica all’inverosimiglianza del genere.
Dopo gli inizi pastorali, Apostolo Zeno ottiene il primo vero, grande successo con il Lucio Vero (Venezia, San Giovanni Grisostomo, 1700; musica di Carlo Francesco Pollarolo), esempio di una drammaturgia evidentemente rinnovata, anche se non rivoluzionaria. Le caratteristiche più degne di nota sono rappresentate dalla storia romana, l’antefatto decifrato nell’“argomento” con l’indicazione delle fonti storiche, sei personaggi seri più un servo non buffo, tre atti con una modestissima presenza del coro, 32 arie e tre duetti, arie ancora moderatamente polimetriche, monostrofiche e bistrofiche, posizionate variamente nel corpo della scena, notevole movimento scenico, molte scene a solo, un dialogo vivace a scambio di battute, molte battute a versi spezzati – e cioè con un ritmo più prosastic...