Orfeo
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Orfeo

La nascita della poesia

Roberto Mussapi, Salvatore Renna, AA.VV., Roberto Mussapi, Roberto Mussapi

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Orfeo

La nascita della poesia

Roberto Mussapi, Salvatore Renna, AA.VV., Roberto Mussapi, Roberto Mussapi

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Orfeo il poeta, Orfeo il musico, che per amore della 10 moglie Euridice – morta per il morso di un serpente – riuscì a scendere al regno degli Inferi, precluso ai viventi, commuovendo con il suo canto i cupi Plutone e Proserpina, sovrani di Ade, e ottenendo di riportarla al mondo dei vivi. E poi, quel gesto, forse per il desiderio irrefrenabile di vederla: Orfeo si voltò prima del ritorno alla luce, violando la condizione sancita dagli dèi, e in un attimo Euridice sparì per sempre. Così il canto di Orfeo, il primo dei poeti, i cui versi commuovevano animali, piante e rocce, ci racconta un amore profondo, quel sentimento che proprio come questo mitico personaggio è destinato a non morire mai, tanto da arrivare alla modernità nei versi di Whitman, di Rilke, di Dino Campana che non esita a dedicare il suo capolavoro Canti orfici proprio a colui che della poesia seppe fare consolazione per un'assenza che mai si sarebbe colmata.

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Informazioni

Editore
Pelago
Anno
2021
ISBN
9791280714497

Il racconto del mito

Orfeo ed Euridice in un’illustrazione neoclassica del primo Novecento.
Orfeo ed Euridice in un’illustrazione neoclassica del primo Novecento.

Il canto di Orfeo

C’era un colle, e sul colle una radura, alberi, fiori, cespugli. E animali docili, conigli, cerbiatti, furetti, e, distanti, in agguato, lupi, orsi, leoni. Fra gli alberi e nel cielo, tanti uccelli in volo. Orfeo intonò la sua lira alla voce dell’allodola e dell’usignolo, e cominciò a cantare.
Modulando i versi, recitando poesie, raccontava e rievocava storie lontane che aveva udito, altre che gli erano apparse in sogno, o in quello stato di veglia simile al sogno: la visione, che è caratteristica del poeta.
Chi era Orfeo? Una risposta definitiva a tale domanda sarebbe complessa anche per un mortale, figuriamoci per un mito. Ma tutti gli esseri che popolano il mondo – che non è solo quello corporeo, il sogno è una realtà non meno ricca, lo sapevano bene Omero, Platone, Ovidio, Dante e Shakespeare – tutti gli esseri che abitano il mondo materiale e immateriale, spesso mescolati, hanno una loro anagrafe. Una storia. Orfeo è un eroe. Il poeta che sa cantare e incantare, al richiamo della cui voce si muovono gli animali mansueti e quelli feroci, si piegano e fluttuano le querce e i pini, e anche le grandi rocce delle vicine montagne paiono ascoltare. Orfeo ha un passato da eroe. Dai tempi di Omero fino a oggi perdura l’aura di leggenda intorno a una grande impresa delle origini: la spedizione degli Argonauti che partirono alla ricerca del vello d’oro. L’oro è simbolo di immortalità, in ogni cultura: dall’oro del Faraone, consustanziale al sole, a quello rituale nelle più diverse culture. D’oro era il vello di un montone sacro e sacrificato, la cui conquista fu la prima impresa dell’uomo che si avventurava per mare, per lidi sconosciuti e pericoli continui, alla ricerca del tesoro. Jim Hawkins, il ragazzo dell’Isola del Tesoro di Stevenson, è un giovanissimo erede di quegli eroi.

Il viaggio degli Argonauti

La leggenda di Orfeo è superiore anche a quella del vello d’oro, per una ragione molto semplice: quell’avventura si concluse con la conquista, Orfeo invece non è mai morto, la sua storia non si conclude, egli vive perennemente. Perché Orfeo è il mito della poesia, ne è il fondatore, il padre irraggiungibile di tutti i poeti. Anche Omero, Dante, Shakespeare, i più grandi, sanno che possono essere suoi discepoli, imitatori, entusiasti interpreti, ma che la poesia di Orfeo, loro modello, è irraggiungibile. Con un assunto decisamente ardito potremmo insinuare che la poesia di Orfeo corrisponda all’idea platonica di poesia. Ancora più ardito perché Platone si oppose al mito della religione dominante, considerandolo menzognero, al punto da voler espellere dalla città ideale i poeti stessi. Anche se il suo procedere argomentativo è narrante, visionario, più poetico che strettamente logico... È importante ricordare che il primo poeta, il fondatore della poesia stessa, è un giovane eroe: così anche se non dovranno o non potranno partire per la Colchide per affrontare mostri e ninfe, nemici feroci, armati di spada e scudo, tutti i poeti avranno sempre, nel loro cuore, a volte inconsapevolmente, una briciola di quell’origine eroica. Scrivere poesia significa reagire alla morte, sognare che qualcosa sopravviva grazie alla memoria e alla parola, e alla musica che adombra l’eterno moto delle Sfere. Le gesta degli Argonauti compaiono in Omero e le loro imprese occupano una parte importantissima del mito, basti pensare a Giasone, il loro comandante, e alla tragica vicenda di Medea.
La leggenda di Orfeo è superiore anche a quella del vello d’oro, per una ragione molto semplice: quell’avventura si concluse con la conquista, Orfeo invece non è mai morto, la sua storia non si conclude, egli vive perennemente. Perché Orfeo è il mito della poesia, ne è il fondatore, il padre irraggiungibile di tutti i poeti. Anche Omero, Dante, Shakespeare, i più grandi, sanno che possono essere suoi discepoli, imitatori, entusiasti interpreti, ma che la poesia di Orfeo, loro modello, è irraggiungibile.
Guardiamo agli Argonauti: una cinquantina di eroi che sotto la guida di Giasone salparono con la nave Argo, la cui prua era ornata da una polena antropocentrica, alla riconquista del vello d’oro. Araldi inviati da Pelia in tutta la Grecia, avevano ottenuto l’adesione di tanti giovani ardimentosi; inizialmente si pensava di affidare il comando a Eracle, per la fama conquistata con le sue leggendarie fatiche, ma questi rifiutò a favore del più giovane ma non meno valoroso Giasone. Non è interessante ora, per il lettore che voglia conoscere Orfeo, la cronistoria di tutte le tappe, le trame, i dissidi, gli alterchi, le ambizioni e le invidie che segnano questa avventura, che, come ogni vicissitudine umana, inizia su una nave alla ricerca di un tesoro lontano: risse famigliari, usurpazioni, patteggiamenti, trattative, oracoli intricati e mendaci, permalosità cromosomica degli dèi greci, a partire da Zeus, Atena, Hera, i più autorevoli, e Afrodite, la più gradita agli umani; inutile seguire questo turbinio trascinante e rapinoso. Bisogna però soffermarsi su un episodio centrale: Zeus detesta e invita a evitare i sacrifici umani, siamo quindi in un momento di notevole evoluzione della spiritualità greca. Nasce il simbolo: una vittima rituale in luogo di un essere umano. Hermes, il dio messaggero – il più valido quanto imprevedibile collaboratore dei poeti – inviò dal cielo, per ordine superiore, Crisomallo, un ariete alato dal vello interamente d’oro. L’animale magico raggiunse Frisso, un ragazzo di nobile stirpe destinato per un inganno divino a essere sacrificato, e gli si rivolse con parole umane ordinandogli di salire sulla sua groppa. Il ragazzo ubbidì, come rapito, montò l’animale e volò verso la Colchide. Una volta toccato il suolo, sacrificò l’ariete a Zeus. Essendo di natura magica, l’animale lasciò il vello d’oro privo di sangue, intatto, rilucente come un tesoro aureo mai visto dall’uomo. Gli abitanti del luogo lo guardarono con ammirazione e iniziarono a venerarlo. Il vello divenne poi l’oggetto della spedizione degli Argonauti: la pelliccia d’oro di un animale magico, un ariete volante. I mammiferi volanti rappresentavano infatti il culmine della magia concessa al mondo dei terreni. La leggenda narra della nave Argo, di un oracolo che mise in guardia un re da un giovane con ai piedi un solo calzare, Giasone, che avrebbe incontrato nelle acque fangose del fiume Anaura... Poi il tormento di Pelia per l’ombra di Frisso, a cui avrebbe restituito il trono, come promesso a Giasone, se questi gli avesse portato il vello d’oro... Incroci dinastici, incontri amorosi, come quelli avvenuti sull’isola abitata da sole donne famose per rifiutare gli uomini, fino all’incontro con gli Argonauti... Un giovane rapito dalle ninfe di un fiume, le Arpie... L’approdo alla piccola isola di Dia, sacra ad Ares dio della guerra, stormi di uccelli che si levano in volo attaccando la nave... I rivali dei gemelli Castore e Polluce...
Amori, interventi divini, avventure che hanno nutrito anche il genio di Ludovico Ariosto... E infine la conquista del vello d’oro.
Per recuperare quel prototipico Graal, Giasone avrebbe dovuto aggiogare all’aratro due feroci tori dagli zoccoli di bronzo e dalle narici fiammeggianti, quindi tracciare quattro solchi nel campo di Marte e seminarvi denti di drago: i pochi e dispersi che Cadmo aveva seminato tempo addietro a Tebe. Una prova impossibile, ma in aiuto di Giasone intervennero gli dèi: Eros, il dio dell’amore, fece sì che Medea si infatuasse del giovane comandante. La donna a lungo cercò di soffocare quel sentimento affiorato così all’improvviso, ma la prospettiva della morte di Giasone senza l’aiuto delle sue arti magiche modificò i moti del suo cuore. La principessa, abile maga, diede al suo amato una pozione infusa dal sangue di Prometeo – il dio innamorato degli umani, ai quali aveva donato il fuoco accettando la punizione di Zeus – che lo avrebbe protetto dall’ira dei due tori. Molti furono gli spettatori che accorsero per assistere alla prova; i tori bruciavano l’erba con il loro fuoco e, puntandolo con le corna d’acciaio, si lanciarono contro Giasone, protetto però dalle arti magiche di Medea che lo resero immune alle fiamme. Con grande fatica l’eroe riuscì a domare gli animali per poi costringerli ad arare il campo per l’intera giornata. Giasone trionfò in altre prove grazie al proprio valore e all’aiuto decisivo di Medea, la quale poi lo avrebbe guidato al luogo dove il vello era nascosto. Un enorme e immortale drago dalle mille spire era di guardia al tesoro: il mostro, figlio di Tifone, uno dei giganti uccisi a fatica da Zeus, era lungo più della loro nave; Medea dovette ricorrere a vari incantesimi, grazie ai quali riuscì ad ammaliare il drago fino a farlo addormentare. Giasone, approfittando del suo sonno, staccò il vello d’oro dai rami della quercia e lo portò con sé nella fuga.
Medea curò tutti con i suoi filtri magici; iniziò poi il periglioso ma trionfale viaggio di ritorno.
E venne il momento, centrale, culminante: il vino ha eccitato gli animi dei gagliardi eroi, sia i titolati sia gli aspiranti; non sono partiti da molto, inimicizie, incomprensioni, rivalità crescono, accentuate dalla coatta convivenza di chi viaggia per mare e dagli influssi di una notte particolarmente alcolica! Con vino greco, poi... Sta per scatenarsi una rissa che potrà avere esiti disastrosi.
Orfeo, in quella bolgia da marinai ubriachi e rissosi, impone il silenzio intorno a sé. Con il solo sguardo li ammutolisce. Ricorda agli uomini, rubizzi per il vino, chi siamo, perché siamo al mondo. Canta la storia dell’universo, e subito infonde in loro un senso di pacificazione, presto mutato in beatitudine.
Robert Graves, uno scrittore londinese del Novecento, autore di libri divulgativi sul mito greco, reinterpreta, nella sua opera Il vello d’oro, pur in tono decisamente più narrativo, il ruolo incantatorio e benefico di Orfeo in questo momento cruciale della spedizione. Il registro narrativo adottato, che tende a umanizzare, anche troppo, gli eroi, ha il merito di rendere la natura anche picaresca dell’impresa, il che non cancella il limite di trasformare in perigliosa e anche divertente avventura quello che in realtà è un mito, con tutta la portata misterica e sacrale di ogni mito. Insomma, eccede, seppur con gusto, nella semplificazione, ma la freschezza del suo racconto può essere utile a immedesimarci nei momenti più quotidiani dell’avventura.
Gli Argonauti, diretti in Samotracia, consumano la cena in un silenzio quasi assoluto. Sono pentiti per aver lasciato troppo presto, secondo la maggior parte di loro, l’isola di Lemno, tappa felice, donne amorose, coperte colorate, fuochi fiammeggianti, pentole gorgoglianti. Ida, il più attaccabrighe della comitiva, si lamenta: «Perché lasciare quel posto tanto accogliente, per ripartire sulle dure panche, in un mare di nebbia? È stato Orfeo, con la sua voce e la sua musica, ad attirarci a bordo. Noi volevamo restare. Ma Orfeo ci ha incantati, con il suo sogno, l’impresa ardita, il vello d’oro... con i trucchi dei poeti...». Castore lo interrompe duramente: «Taci, Ida, sei sempre stato un incapace, è un miracolo che tu sia ancora vivo, logorroico e stupido come sei. Litigioso, gretto. Ringrazia Orfeo che ti ha incantato come fa il flautista con un topo e ti ha riportato a bordo. Due giorni a Lemno e con il carattere che ti ritrovi saresti stato accoppato». «Per quanto mi riguarda – conclude Castore con le parole, letteralmente riportate, di Graves – non desidero di meglio che cadere ancora nella magia travolgente di quella miracolosa lira: il suo suono mi reca un piacere di gran lunga più grande di un bicchiere di vino profumato, di un’intera lombata di tenero manzo, o del corpo bianco e rotondo di una ragazza di Lemno, robusta e vogliosa». Altri però la pensano del tutto diversamente, gli animi si accalorano, sta nascendo la rissa. Ma leggiamo come Graves racconta il semplice e prodigioso intervento di Orfeo. «Ascalafo di Orcomeno – scrive l’autore inglese – parlava di rado, ma ogni volta che lo faceva tutti lo ascoltavano, perché la sua voce veniva fuori con un cigolio, come da una porta con i cardini rugginosi, che viene aperta raramente. Allora si alzò in piedi sul banco e sollevò una mano dicendo: “Orfeo, tracio Orfeo, cantaci la creazione di tutte le cose. Di fronte alla tua sapienza, anche il più saggio di tutti noi è come un fanciullo. Purifica le nostre anime, Orfeo, con il canto della creazione”».
Quanto spesso ho immaginato questo canto! Abbandonando Graves, ora attingiamo a Ovidio nella versione delle Metamorfosi da me reinterpretata.
«Prima del mare, della terra, del cielo che avvolge tutto, la natura aveva nell’universo un unico volto, che fu detto Caos, una mole malcomposta e grezza, nient’altro che peso inerte e semidiscorde di cose mal connesse stipate insieme. La terra non si librava in perfetto equilibrio nel cielo circonfuso, la luce del sole e della luna erano assenti e, poiché terra, mare e aria coesistevano in un unico globo informe, la terra non aveva consistenza e le onde non erano navigabili, l’aria era opaca e nulla durava in una propria forma, ma ogni elemento lottava ciecamente con gli altri e, in uno stesso corpo informe, il freddo si opponeva al caldo, l’umido al secco, il molle al duro, il pesante al senza peso.
Fu un dio, una natura più buona, che risolse il contrasto, scindendo le terre dal cielo e le onde dalle terre, estrasse l’etere puro dall’aria spessa, e dopo averli districati e tolti dalla massa informe li unì, distinti, con una pace armoniosa. L’essenza ignea e senza peso del cielo convesso si sprigionò e andò a fissarsi su un’altissima roccia, l’aria si pose accanto, simile per levità e luogo, mentre la terra, più solida, attrasse gli elementi densi e l’acqua, fluendo, giunse agli spazi estremi e circondò la terra.
Poi quel dio buono, chiunque fosse, agglomerò la terra in una sfera immensa, perché si equilibrasse in ogni parte, poi ampliò i mari e impose ai venti di gonfiarsi e circondare le sponde della terra, aggiunse fonti, sorgenti, laghi e torrenti, e cinse tra rive i fiumi che finiscono tutti nel centro della terra, o accolti dal mare, tornano alla loro fonte originaria. Ordinò che si stendessero pianure e abbassassero valli, che i boschi si coprissero di fronde e sorgessero monti pietrosi. E come il cielo fu suddiviso in due zone dalla parte destra, in altrettante dalla parte sinistra, e in una quinta, più calda di tutte, così il dio si preoccupò di ripetere l’identico ordine sulla terra, imprimendole la divisione in parti, come era nel cielo sovrastante. La zona mediana della terra è caldissima, quasi invivibile, due sono coperte da neve alta, e quindi tra l’una e l’altra ne colloca altre due dal clima temperato, ottenuto mescolando ardore e frescura. Su tutte le terre incombe l’aria, più pesante del fuoco, così come l’acqua è più leggera della terra. Lì, ordinò che si raccogliessero le nebbie, e le nuvole, e i tuoni che un giorno avrebbero turbato le menti umane, e i venti che incontrando i fulmini generano i lampi. Ma volle imporre una ragione anche ai venti, per impedire che scorazzassero disordinatamente, facendo irreparabili danni: Euro si ritirò dalla parte dell’aurora, là dove regnano i saggi di Persia, Zefiro dalla parte d’occidente, dove il sole tramonta, Borea, il più gelido, invase le terre della Scizia e il settentrione, mentre in direzione opposta fu spedito Austro, sempre umido di pioggia. E su tutto il dio collocò l’etere limpido e imponderabile, che non ha niente della feccia terrena.
Allora le stelle, che a lungo erano state sepolte nella cieca tenebra del caos indistinto, cominciarono a splendere e palpitare per tutto il cielo.
E affinché non esistes...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Collana
  3. Frontespizio
  4. Copyright
  5. Indice
  6. Introduzione di Giulio Guidorizzi
  7. Il racconto del mito di Roberto Mussapi
  8. Genealogia
  9. Variazioni sul mito di Salvatore Renna
  10. Antologia
  11. Per saperne di più
  12. Piano dell’opera
Stili delle citazioni per Orfeo

APA 6 Citation

Mussapi, R., & Renna, S. (2021). Orfeo ([edition unavailable]). Pelago. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3165653/orfeo-la-nascita-della-poesia-pdf (Original work published 2021)

Chicago Citation

Mussapi, Roberto, and Salvatore Renna. (2021) 2021. Orfeo. [Edition unavailable]. Pelago. https://www.perlego.com/book/3165653/orfeo-la-nascita-della-poesia-pdf.

Harvard Citation

Mussapi, R. and Renna, S. (2021) Orfeo. [edition unavailable]. Pelago. Available at: https://www.perlego.com/book/3165653/orfeo-la-nascita-della-poesia-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Mussapi, Roberto, and Salvatore Renna. Orfeo. [edition unavailable]. Pelago, 2021. Web. 15 Oct. 2022.