Fermi - L'energia atomica
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Enrico Fermi fu artefice, negli anni dal 1926 al 1938, dell'affermazione a livello internazionale della fisica italiana, grazie alle numerose significative scoperte nel campo della fisica quantistica e nucleare, con l'importantissima formulazione della teoria del decadimento beta e l'introduzione di una terza forza in natura (oltre alla gravità e alla forza elettromagnetica, le sole, sino ad allora, note), la cosiddetta interazione debole, che si manifesta a livello nucleare. Nel 1938 gli fu assegnato il premio Nobel per la fisica per la scoperta della possibilità di ottenere reazioni nucleari utilizzando i neutroni lenti. Trasferitosi negli Stati Uniti, riuscì a dare origine, per la prima volta, a una reazione a catena controllata, nel reattore nucleare che aveva progettato e costruito. Dalla sua "pila atomica" si sviluppò il Progetto Manhattan che portò alla realizzazione della prima bomba atomica.

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Informazioni

Editore
Pelago
Anno
2021
ISBN
9791280714756
FOCUS

L’IMPORTANZA DI FERMI

Il 30 novembre 1954, all’indomani della scomparsa di Enrico Fermi, apparve sul Corriere della Sera un articolo dell’allora corrispondente da New York, Ugo Stille, con un’interessante intervista ad Albert Einstein, che così ricordava il fisico italiano: «Alla maggior parte del pubblico, Enrico Fermi è noto principalmente per le sue scoperte sulle possibili applicazioni pratiche della reazione a catena [si riferisce all’energia nucleare – ndr]. Per le generazioni future, tuttavia, la grandezza di Fermi appare nel campo della scienza pura, per la sua comprensione del significato dei neutroni, il suo contributo alla comprensione dei fenomeni nucleari e il suo contributo fondamentale alla statistica dei quanti. In tale ultimo campo i risultati da lui raggiunti hanno un’importanza decisiva per la teoria elettronica dei metalli e costituiscono pertanto un contributo fondamentale e durevole per lo sviluppo della fisica in generale».1
All’epoca dell’intervista, Einstein aveva già, per così dire, “ritrattato” la famosa lettera del 1939 al Presidente americano Franklin Delano Roosevelt, in cui si segnalava la possibilità ipotetica di costruire una bomba utilizzando il principio della fissione nucleare. Quella lettera è considerata il primo passo verso il Progetto Manhattan. Di bombe atomiche Einstein non voleva più nemmeno sentir parlare, dopo esserne stato il primo promotore oltre oceano.
Quando parlava delle applicazioni pratiche della reazione a catena, Einstein intendeva il lavoro svolto da Fermi in collaborazione con il genio ungherese-cosmopolita Leo Szilárd, che portò alla prima reazione a catena controllata e autosostenuta all’interno del reattore a fissione “Chicago Pile 1”, CP-1 (2 dicembre 1942), con cui, dopo la guerra, brevettò il modello di reattore nucleare a uranio-grafite. Si trattava di un modello che gli esperti del giorno d’oggi sicuramente considerano primitivo e rudimentale. All’epoca, però, le potenzialità del reattore e la sua compattezza suscitarono molto interesse. In particolare, venne molto apprezzato dall’ammiraglio Hyman George Rickover per la realizzazione della flotta dei sommergibili nucleari Usa. La pluridecennale Guerra Fredda del secolo scorso, infatti, è stata soprattutto una guerra di sommergibili, oltre che di satelliti per il controllo delle reciproche mosse fra le due superpotenze di allora, gli Usa e l’Unione Sovietica. Inoltre, il famoso e famigerato reattore esploso a Černobyl’ nel 1986 era anch’esso a uranio-grafite: il suo disastro avviò la fine del “comunismo a trazione nucleare”.
Al di là delle applicazioni in campo bellico, gli sviluppi delle ricerche iniziate da Fermi sui neutroni hanno portato ad allargare l’orizzonte di impiego dell’energia nucleare fino al settore medico, dando il via alla cosiddetta medicina nucleare. Ogni anno, milioni e milioni di persone nel mondo hanno la possibilità di curarsi e, magari, guarire da malattie altrimenti incurabili, sfruttando le proprietà uniche dei radionuclidi generati grazie ai flussi di neutroni provenienti da reattori nucleari.
È però indubbio che la motivazione delle ricerche di Fermi sia stata legata al suo interesse predominante per i problemi cosiddetti fondamentali della fisica, la “scienza pura”, per dirla alla Einstein.
La comprensione dei neutroni rimanda alla leggendaria epoca di via Panisperna, nella Roma degli anni Trenta del secolo scorso, e agli ultra-celebrati “ragazzi”, che hanno già fatto versare fiumi di inchiostro e, ora, di bit. La fisica dei metalli, menzionata da Einstein, si è sviluppata e trasformata nella fisica dei solidi, semiconduttori. Questo ha naturalmente portato a una vera e propria valanga di applicazioni nell’ambito dell’elettronica, dell’informatica e delle telecomunicazioni, i cui aspetti sono diventati fondamentali per lo sviluppo e il sostentamento della nostra società, soprattutto per la vita e la cultura di oggi. Le applicazioni della fisica dei metalli sono in realtà dovute allo sviluppo che il sommo fisico teorico tedesco Arnold Johannes Wilhelm Sommerfeld, cattedratico a Monaco di Baviera, diede alla “statistica dei quanti”, ma di questo parleremo in seguito.
L’opera omnia (Note e memorie) di Enrico Fermi raccoglie ben 272 scritti che il fisico italiano ha pubblicato nel corso di trentadue anni di attività scientifica e didattica. I suoi contributi fanno ormai parte del linguaggio dei fisici di tutto il mondo.
Sono tre i contributi fondamentali dovuti a Fermi e per cui lo scienziato è universalmente ricordato. Ci riferiamo alla statistica quantistica per le particelle che soddisfano il cosiddetto principio di esclusione di Pauli (quella comunemente chiamata statistica di Fermi-Dirac), alla teoria del decadimento beta e ai risultati sulle interazioni nucleari.
Questi ultimi, per inciso, hanno portato Enrico Fermi a ricevere il premio Nobel per la Fisica. Si tratta proprio di quei contributi menzionati da Albert Einstein, che, ancora una volta, aveva ragione.
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1U. Stille, L’opera di Fermi esaltata dai maggiori fisici del mondo, in Corriere della Sera, 30 novembre 1954

LE OPERE SCIENTIFICHE

Enrico Fermi e i suoi seguaci sono entrati nel mondo della fisica all’inizio degli anni Venti del secolo scorso. Circa un quarto di secolo prima, una serie di scoperte sperimentali aveva ampliato enormemente il campo delle ricerche con i raggi X, l’elettrone e la radioattività. L’ipotesi di Max Planck del 1900 sulla quantizzazione dell’energia elettromagnetica aveva aperto una crepa in una teoria fondamentale come l’elettromagnetismo di Maxwell e lo portò, nel 1918, al premio Nobel per la Fisica «in riconoscimento dei suoi servizi resi per il progresso della Fisica con la sua scoperta della quantizzazione dell’energia». E questo succedeva proprio negli anni che vedevano il successo planetario della telegrafia senza fili, la radio, la più spettacolare delle applicazioni della teoria enunciata alcuni decenni prima.
In quella fase, innescata anche dalle scoperte del fisico neozelandese Ernest Rutherford sulla costituzione degli atomi, si moltiplicarono gli sforzi per superare lo schema “classico” di Maxwell. I dotti chiamano quella fase “vecchia teoria dei quanti” (old quantum theory) e lo scienziato più influente in questo ambito era senza dubbio il fisico di Copenaghen Niels Henrik David Bohr, premio Nobel per la Fisica nel 1922 «per i servizi nelle indagini sulla struttura degli atomi e delle radiazioni da loro provenienti». Le equazioni di Maxwell già figuravano nei libri di testo ed erano perfette nello spiegare i fenomeni elettrici e magnetici a livello macroscopico, cioè alla scala degli oggetti che più o meno comunemente si trovano a disposizione e con cui abbiamo a che fare ogni giorno. D’altra parte sorgevano grandi difficoltà nell’affrontare le problematiche che si presentavano a livello microscopico, alla scala, cioè, degli atomi e delle molecole, un mondo al di fuori delle usuali esperienze della vita quotidiana.
Secondo il Fermi del 1925, nella vecchia teoria dei quanti mancava la soluzione di alcuni problemi d’importanza fondamentale per la fisica atomica del periodo, anche se non mancava il tentativo di dedurre tutte le regole in modo logico da alcuni principi generali e, diceva,
IL PIÙ GENERALE DI TUTTI ERA IL PRINCIPIO DI CORRISPONDENZA DI BOHR. È QUESTO UN PRINCIPIO DI NATURA ASSAI DIVERSA DA TUTTI GLI ALTRI PRINCIPI DELLA FISICA E DELLA MATEMATICA; MENTRE INFATTI DI SOLITO TALI PRINCIPI CONTENGONO UNA AFFERMAZIONE DI SIGNIFICATO PRECISO, COME PER ESEMPIO A = B OPPURE A > B, IL PRINCIPIO DI CORRISPONDENZA DICE SEMPLICEMENTE CHE A SOMIGLIA A B.1
Qui il discorso riguardava le modifiche da introdurre negli schemi teorici, come quello di Maxwell, che funzionavano benissimo, come detto, per il livello macroscopico della materia. Le suddette modifiche si rendevano necessarie per tenere conto dei cosiddetti effetti quantistici, che si rivelavano invece a livello microscopico. Quelle modifiche dovevano essere tali per cui la teoria modificata avrebbe dovuto somigliare allo schema descritto dalla teoria classica o non quantizzato, in modo da riprodurlo nelle condizioni in cui gli effetti quantistici potevano essere trascurati. Doveva, in definitiva, corrispondere allo schema valido a livello macroscopico.
Pur ammettendo l’utilissimo ruolo di guida del principio di corrispondenza di Bohr, Fermi non si sentiva perfettamente a suo agio quando si trattava di metterlo in pratica, per così dire:
IL COMPLESSO DELLE IPOTESI DI BOHR […] SI PRESENTA ASSAI INSODDISFACENTE DAL LATO LOGICO, POICHÉ SI HA IN ESSO UNA MESCOLANZA DEI CONCETTI CLASSICI E DEI NUOVI CONCETTI QUANTISTICI, SENZA CHE SIA CHIARO IL CRITERIO CHE LIMITA L’APPLICABILITÀ DEGLI UNI E DEGLI ALTRI.
Aggiungendo: «La soluzione dei diversi problemi si ottiene sempre a prezzo di qualche compromesso fra la teoria classica e quella quantistica».2
Quindi, Fermi riconosceva sì la leadership di Bohr in una cruciale fase storica, ma non nutriva un’ammirazione assoluta per lo scienziato danese. Aveva invece una grandissima e incondizionata ammirazione per Otto Stern, il fisico-chimico tedesco che avrebbe conseguito il premio Nobel per la Fisica nel 1943 «per il suo contributo allo sviluppo del raggio molecolare e la sua scoperta del momento magnetico del protone». Fermi, infatti, era molto attratto dalle ricerche di carattere termodinamico (e non solo) portate avanti nel laboratorio di Stern ad Amburgo. Gli interessavano, in particolare, quegli approfondimenti e ampliamenti delle conoscenze sulla scienza del calore, che erano stati conseguiti tramite la loro reinterpretazione in termini statistici grazie a una rielaborazione delle leggi della termodinamica, dette anch’esse classiche e risalenti all’Ottocento, facendo ricorso, diceva, «all’interpretazione cinetica, che riduce tutti i fenomeni termici a movimenti disordinati di atomi e molecole. Da questo punto di vista lo studio del calore va considerato uno speciale ramo della meccanica: la meccanica di un insieme così numeroso di particelle (atomi e molecole) che la descrizione dettagliata dello stato e del moto perde importanza e occorre considerare solamente le proprietà medie dell’insieme. Questo ramo della meccanica […] ha portato a una comprensione molto soddisfacente delle leggi fondamentali della termodinamica».3
Si tratta del primo principio della termodinamica, o della conservazione dell’energia, e del secondo principio, o della dissipazione dell’energia, come si esprimeva lo scienziato inglese Lord Kelvin (William Thomson) nell’Ottocento. Questi due principi sono presi come postulati fondati sull’esperienza e, partendo da questi, si traggono delle conclusioni; in questo modo non si entra nei dettagli del meccanismo cinetico dei fenomeni studiati, ovvero nella meccanica dei movimenti dei componenti elementari, quali atomi e molecole. Riguardo a questo punto, Fermi scrive: «Questo modo di procedere ha il vantaggio di essere largamente indipendente dalle ipotesi semplificatrici che vengono spesso introdotte quando si fanno considerazioni di meccanica statistica; ne segue che i risultati termodinamici sono generalmente molto precisi. D’altro canto è piuttosto insoddisfacente ottenere dei risultati senza essere in grado di vedere in dettaglio come vanno le cose; è assai spesso opportuno quindi completare un risultato termodinamico con una interpretazione cinetica sia pure grossolana».4
Il brano appena citato è un’espressione minimalista tipica dello stile espositivo di Fermi. Le «ipotesi semplificatrici» stanno a indicare i sottili problemi dei cosiddetti fondamenti della fisica statistica. Si tratta, in effetti, di questioni molto complesse, che sono state dibattute per decenni e talvolta lo sono tuttora. La voglia di «capire in dettaglio come vanno le cose» indica probabilmente la problematica dei modelli conoscitivi o cognitivi, a proposito dei quali pedagogisti, psicologi, epistemologi, filosofi e storici a vario titolo hanno riempito intere biblioteche.
Ma torniamo alla linea di ricerca perseguita da Stern, giocata sulla dialettica fra termodinamica pura e statistica, che tanto ha influito su Fermi. In realtà bisognava tenere conto anche del cosiddetto terzo principio della termodinamica, o principio di Nernst [sviluppato da Walther Hermann Nernst, chimico tedesco – ndr], che può essere interpretato statisticamente solo mediante concetti quantistici. Il principio di Nernst riguarda il comportamento dei gas a temperature vicine allo zero assoluto della scala delle temperature, corrispondente a -273,15 °C, ed esso asserisce, in sostanza, che tale zero assoluto non potrà mai essere raggiunto.
La via seguita da Fermi verso la cosiddetta “statistica di Fermi” ha seguito proprio le tracce di Stern e di Nernst estendendo la meccanica statistica dei gas alle bassissime temperature, ed era la via che era stata segnata da Einstein con i suoi lavori sui calori specifici dei solidi alle basse temperature (vedi volume su Einstein in questa collana).
L’inizio della cosiddetta rivoluzione quantistica risale, come detto, a Max Planck e alla sua proposta di quantizzazione dell’energia. Ma quella proposta era diventata oggetto di numerose rielaborazioni da parte delle menti più acute della fisica teorica dell’epoca, tese alla ricerca di una giustificazione più profonda e più solida di quella offerta dallo stesso Planck per la sua rivoluzionaria proposta. Un passo dal grande significato è stato fatto da Einstein quando ha, per così dire, ampliato la proposta della quantizzazione dell’energia nell’affrontare il problema dei calori specifici dei solidi, cioè una questione molto più ampia di quella affrontata da Planck nella trattazione della radiazione di corpo nero. Proprio nella frontiera della criogenia, i vecchi paradigmi e i vecchi schemi si erano mostrati inadeguati a dare conto dei dati sperimentali. La proposta rivoluzionaria di Planck, relativa alla quantizzazione dell’energia, trovava proprio lì un ampio spazio di applicazione (e di giustificazione), ben al di là del recondito problema della radiazione di corpo nero analizzato dal fisico tedesco.
I fenomeni alle bassissime temperature erano ampiamente indagati nel laboratorio di Leida sotto la direzione di Heike Kamerlingh Onnes, premio Nobel per la Fisica del 1913 «per le sue indagini sulle proprietà della materia a basse temperature che ha portato, tra l’altro, alla produzione di elio liquido», dove avevano portato alla luce una serie di dati sperimentali da interpretare sulla base della quantizzazione dell’energia.
In particolare, il comportamento dei gas alle bassissime temperature era la nuova frontiera su cui si stavano cimentando lo stesso Einstein e Fermi.
La meccanica statistica classica (valida, quindi, alle alte temperature e che necessitava di essere estesa a quelle basse e bassissime, cioè vicine allo zero assoluto) si basava sulle leggi della meccanica altrettanto classica di Newton e Galileo. Immaginava, cioè, il comportamento di atomi e molecole come se fossero delle sferette in continuo movimento e con continui urti elastici fra loro: particelle microscopiche, sì, ma soggette alle leggi macroscopiche della meccanica classica.
D’altra parte, gli esperimenti condotti principalmente a Leida avevano dimostrato alcuni comportamenti peculiari dei gas a bassissime temperature.
Più in dettaglio, i risultati mostravano che, avvicinandosi alle basse temperature, era necessario introdurre delle modifiche agli schemi termodinamici classici in modo da tenere conto degli effetti quantistici che non potevano essere più trascurati nelle vicinanze dello zero assoluto.
Secondo il principio di corrispondenza di Bohr, invece, la statistica dei gas atomici e molecolari alle basse temperature doveva “so...

Indice dei contenuti

  1. Collana
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. La pietra di paragone della fisica
  6. PANORAMA
  7. FOCUS di Lanfranco Belloni e Stefano Olivares
  8. APPROFONDIMENTI
  9. Piano dell'opera