Newton - La legge di gravitazione
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Con le tre leggi del moto e la legge di gravitazione universale, Isaac Newton riesce a fondere in un'unica potente sintesi le scoperte di Copernico, Keplero e Galileo, dimostrando per la prima volta che il moto dei corpi terrestri e di quelli celesti è da ricondurre a un unico principio universale. A poco più di vent'anni sviluppa il calcolo infinitesimale, che gli permetterà di descrivere nel modo più rigoroso i fenomeni che variano nel tempo e nello spazio, come il moto ellittico dei pianeti e di molte comete. Inventa il primo telescopio a riflessione, con il quale risolve un problema cruciale delle lenti che riduceva la qualità dei telescopi tradizionali. Studiando l'ottica, dimostra per primo che la luce bianca non è monocromatica, ma è composta dall'unione di tutti i colori, e indaga la natura particellare della luce, con un'intuizione rivoluzionaria destinata ad essere ripresa più di due secoli dopo da Albert Einstein.

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Informazioni

Editore
Pelago
Anno
2021
ISBN
9791280714848
Categoria
Física
FOCUS

L’IMPORTANZA DI NEWTON

Il nostro senso dell’equilibrio ci aiuta per camminare e correre, ma non per girare. Il vissuto dei nostri movimenti, per lo più rettilinei o quasi, limita il buon senso che usiamo intuitivamente per prevedere distanze e posizioni. Seppur di aiuto nei sistemi terrestri in traslazione, l’appello all’intuito non serve per comprendere i moti curvilinei, come quelli dei pianeti lungo le loro orbite centrate nel Sole o la rotazione della Terra attorno al proprio asse. Lo studio del sistema solare usa concetti non intuitivi, che saranno i caratteri principali del testo newtoniano, scritto nel linguaggio tecnico della geometria e della matematica.
All’epoca della laurea in teologia (Cambridge era un’università teologica) di Newton nel 1667, per descrivere il moto dei pianeti non esistevano ancora tutte le grandezze fisiche necessarie, né si era sviluppata quella parte del linguaggio matematico indispensabile per svolgere i calcoli delle orbite planetarie: le derivate e gli integrali. Non si conosceva neppure la natura della luce bianca, l’unica informazione disponibile agli astronomi per conoscere la posizione dei pianeti e delle stelle. In più, i deboli segnali luminosi ingranditi dalle spesse lenti dei telescopi sembravano indecifrabili macchie luminose colorate ai bordi.
Vent’anni dopo, nel 1687, a Londra, il re cattolico Giacomo II riceve dalle mani dell’astronomo Edmond Halley il testo Principi matematici della filosofia naturale. Con la teoria della gravitazione universale Newton completa il suo quartetto di strumenti indispensabile agli astronomi per descrivere la musica celeste: il calcolo infinitesimale, il nuovo telescopio, la teoria della luce e la teoria della gravitazione universale, Terra compresa.
Crea un nuovo capitolo della matematica nel quale sintetizza i fili sparsi della teoria del primo Seicento in un nuovo tessuto: sono le derivate e gli integrali, ottenute inizialmente con l’espansione in serie del suo binomio. Solo Newton lo chiamerà “il metodo delle flussioni”.
Fonde metalli in una nuova lega per costruire con le proprie mani il primo telescopio a riflessione, compatto ma capace di amplificare decine di volte. Usandolo, ottiene precise immagini delle lune di Giove, ingrandite ma prive dei noti, fastidiosi bordi sfumati. Il telescopio a riflessione diventa il modello vincente ma verrà usato in parallelo a quello rifrattore solo mezzo secolo dopo, con le nuove lenti acromatiche.
Conosce e descrive dettagliatamente la natura della luce bianca, composta dai vari colori dell’arcobaleno. Lo spettro, neologismo suo, è il termine che usa quando descrive la rifrazione disomogenea della luce bianca attraverso un prisma di vetro. Spiega la dispersione nel mezzo rifrangente con la sua rivoluzionaria teoria particellare della luce. Prevede una infinita ricchezza cromatica con la fusione di poche luci colorate: la base teorica degli schermi elettronici ora onnipresenti.
Pubblica i Principia, la potente sintesi fra Galileo e Cartesio con le sue leggi del moto e della gravitazione. Non esistevano allora teorie concorrenti per il sistema solare: le tre leggi di Keplero erano, in realtà, già conseguenze della gravitazione universale che all’epoca di Keplero era ancora da scoprire. Newton l’aveva dimostrato con la geometria, nel linguaggio perfetto di Euclide. La sua teoria supera quasi tutti i controlli rispetto alla coerenza con le leggi già esistenti e corrispondenza con i dati sperimentali dell’astronomia. Rispetto alle misure terrestri, invece, le formulazioni newtoniane e i dati allora già esistenti evidenziano un conflitto.
Le stesse formule newtoniane per descrivere e prevedere il moto dei pianeti, quando applicate alla rotazione della Terra, restituivano un quadro opposto a quello cartesiano, allora prevalente. La teoria di Newton prevedeva infatti una Terra con la forma di uno sferoide oblato, allargata all’equatore e appiattita ai poli. Secondo la teoria newtoniana, la forza centrifuga dovuta alla rotazione della Terra avrebbe dovuto avere come effetto un allargamento della sua forma all’equatore. Cartesio, invece, aveva previsto una forma allungata, simile a un (allora inesistente) pallone da rugby in rotazione attorno all’asse messo in verticale. Solo una precisa misura della Terra avrebbe potuto stabilire definitivamente la teoria vincente. Precedenti misure locali avevano incoraggiato i francesi confermando la teoria di Cartesio, e quindi era prevedibile una vittoria cartesiana sulle questioni terrestri.
Luigi XV autorizza e finanzia la spedizione per misurare la sfericità della Terra e nel 1736 partono due gruppi. Il primo si dirige in Lapponia e dopo solo un anno riporta la misura della lunghezza dell’arco di meridiano corrispondente a un grado di differenza di latitudine. La misura dovrà essere paragonata con quella presa all’equatore: la teoria di Cartesio prevedeva una misura equatoriale più lunga che ai poli. Quella di Newton invece affermava che la Terra fosse appiattita ai poli, quindi la misura polare sarebbe stata superiore. La questione era di facile comprensione. Ben meno facili sarebbero state le misure.
Il secondo gruppo si sposta verso la quasi inesplorata costa andina del Sudamerica e ripete le procedure nelle montagne a sud della città di Quito, vicino all’equatore. Dopo nove anni di avventure la spedizione torna in Francia con il valore richiesto. Libri affascinanti descrivono le vicissitudini della spedizione tropicale che perde quattro esploratori, si divide in due fazioni antagoniste e presenta ben due risultati, comunque poco diversi, per la misura equatoriale della lunghezza dell’arco di meridiano corrispondente a un grado di latitudine. La misura polare risulta più lunga di quella equatoriale, aveva ragione Newton. La Francia conferma al mondo la forma della Terra come un ellissoide oblato prevista da Newton e stabilisce definitivamente la validità della teoria della gravitazione universale.

LE OPERE SCIENTIFICHE

L’ANALISI AI TEMPI DI NEWTON

Nei classici manuali di storia della matematica Newton compare nel bel mezzo del percorso, dopo molti altri matematici la cui opera è ancora considerata fondamentale. La geometria e l’algebra di antica formulazione sono studiate ancora oggi: anche se con una notazione diversa dall’originale, il loro contenuto rimane quasi inalterato. Pensiamo ai postulati di Euclide, alle proporzioni di Talete, al teorema di Pitagora, alle dimostrazioni di Archimede. Nella matematica, le nuove creazioni e scoperte generalmente non vanificano il lavoro precedente e la conoscenza si accumula in un processo più o meno ordinato, a volte pure con scoperte simultanee da parte di matematici che lavorano in totale autonomia in luoghi distanti creando poi occasioni per conflitti di priorità. Nel Settecento le scoperte nel campo dell’algebra e dell’analisi scorrevano velocemente come un fiume in piena, con numerosi esempi di scoperte simultanee e molti casi di rivalità per la precedenza.
L’opera matematica di Newton ben si adatta a un racconto sequenziale in cui la conoscenza in un determinato periodo porta allo sviluppo successivo senza uno stravolgimento delle teorie precedenti.
Come matematico, diversamente dal suo ruolo in fisica, Newton non ha dovuto contraddire nessuno, né cambiare il corso della disciplina creando una branca nuova. Il suo lavoro è un anello importante di una lunga catena, collegato direttamente a monte al suo professore a Cambridge, Isaac Barrow. L’anello successivo nello sviluppo del suo lavoro di matematico sarà il tedesco Wilhelm Gottfried Leibniz; una vicinanza scomoda per entrambi.

IL CALCOLO INFINITESIMALE

Barrow viene da studi classici, ha viaggiato fino a Firenze dove ha studiato matematica nella cerchia di Galileo; durante gli anni di conflitto politico in Inghilterra ha vissuto a Costantinopoli ed è ritornato in patria solo dopo un fortunoso viaggio. Di nuovo a Cambridge, continua gli studi di matematica e si occupa del maggior problema dei telescopi dell’epoca: il funzionamento delle lenti convergenti. Nel 1667 e 1668 insegna ottica e, secondo il regolamento della cattedra che occupa, deve depositare in biblioteca il testo di almeno dieci lezioni all’anno. Prepara quindi un libro sull’argomento e chiede a Newton di rivedere i suoi appunti e, per le correzioni e suggerimenti fatti, ringrazia il brillante giovane nella prefazione dell’opera.
Barrow, uno dei fondatori della Royal Society, è un matematico competente; come professore di Newton gli consiglia letture e segue il suo lavoro sulle serie infinite. Per esplorare la matematica, andando oltre il contenuto delle lezioni impartitegli dai professori, Newton studia da autodidatta. Le sue letture non sono strutturate in un percorso logico temporale e gli mancherà all’inizio quel fattore comune a tanti altri matematici inglesi e scozzesi dell’epoca: il viaggio nel Continente. Parigi, Firenze, Bologna o Padova compaiono in molte biografie dei precursori di Newton, un fatto culturalmente importante che troppo spesso viene palesemente dimenticato oppure omesso nella storiografia anglo-sassone.
Il primo documento storico che prova la collaborazione fra il professore e il giovane laureato porta la data del 1669. Se Newton aiuta Barrow a rivedere il suo libro Lectiones geometricae, in mancanza di altra documentazione, possiamo solo intuire che abbia frequentato le lezioni sull’argomento negli anni precedenti. La capacità creativa e la velocità di apprendimento del giovane, all’epoca ventisettenne, è tale che Barrow lo indica come suo successore nel 1669. Nello stesso anno Barrow decide di dedicarsi a studi teologici e si dimette dalla cattedra lucasiana [la cattedra di matematica istituita con un lascito del reverendo Henry Lucas e occupata poi da Newton e tra gli altri da Babbage, Dirac e Hawking – ndr].
Newton è già noto tra i matematici inglesi, scozzesi e del Continente tramite il sistema della comunicazione epistolare. Il carteggio fra i matematici inglesi e scozzesi richiama il modello parigino, centrato sulla figura del gesuita francese filosofo, matematico e musicista Marin Mersenne, il quale funge da centro di diffusione di notizie. A Londra, il matematico (e contabile) John Collins, membro ufficiale e bibliotecario della Royal Society, rappresenta l’equivalente di padre Mersenne. Competente in matematica applicata, rapido ed efficace divulgatore epistolare, Collins ha nella sua “mailing list” internazionale i migliori matematici dell’epoca, come Barrow a Cambridge e John Wallis a Oxford in Inghilterra, James Gregory a St. Andrews in Scozia, Giovanni Borelli in Italia, per citarne alcuni. Questi nomi compariranno spesso nelle opere di Newton, prova che lo scambio di idee era di mutuo arricchimento.
Nel 1669 Barrow chiede permesso a un diffidente Newton, all’epoca Junior Fellow del Trinity College, di divulgare il lavoro di questi Analisi con serie infinite, mandandolo a Collins e promettendo di restituire l’originale all’autore in tempi brevi.
Collins è entusiasta del lavoro di Newton, a lui già noto in occasione di collaborazioni editoriali precedenti. Newton, come sempre, non vuole che sia pubblicato. Conoscendo questo aspetto del carattere del giovane scienziato, Collins cerca invano di convincerlo a rendere noto il suo nuovo metodo delle serie infinite e flussioni. Non riuscendo, Collins continua nondimeno a divulgare le sue copie manoscritte solo fra i matematici di sua conoscenza. L’accusa di Newton nella futura disputa con Leibniz sulla paternità di questo metodo sarà basata sulle due comunicazioni mandate dall’autore a Collins: il rivale avrebbe potuto vederle e copiarle, per usarle successivamente come riferimento.
La nuova tecnica di calcolo di Newton risolve in modo algebrico, e non geometrico, almeno due dei grandi problemi matematici allora in discussione: il calcolo di aree sottese da curve (allora chiamato “quadratura”) e la determinazione dell’equazione della retta tangente a una curva in un dato punto.
In termini moderni, usando la nomenclatura di Leibniz, integrali (quadratura) e derivate (tangenti).
Le sue serie infinite che permettono operazioni matematiche semplificate sono, allora, novità assolute. Le tecniche delle quadrature e delle tangenti, limitatamente ad alcuni casi particolari, erano già note a molti matematici: a Padova e Firenze Evangelista Torricelli e Lorenzo Viviani avevano già calcolato l’area sottesa da una parabola; a Parigi, Christiaan Huygens e tanti altri avevano esplorato ogni segreto della cicloide; già nel 1639 il milanese Bonaventura Cavalieri, allievo di Galileo, era capace di integrare funzioni algebriche semplici del tipo
f052-1
per valori da 1 a 9 con metodi geometrici. La notazione che usava non era ovviamente questa, di origine molto posteriore.
Anche Barrow sapeva derivare (trovare la tangente) e integrare (trovare la quadratura) alcune funzioni elementari con metodi geometrici e aveva riconosciuto che, geometricamente, l’integrale era l’operazione inversa della derivata. La sua pubblicazione in merito, stesa con l’aiuto di Newton, Lezioni di geometria, è datata 1670. In essa, Barrow usa solo il linguaggio geometrico in 180 pagine con molti diagrammi e poco testo. Lungo tutta l’opera non arriva alla generalizzazione algebrica delle due procedure inverse. Al suo lavoro mancava infatti la generalità algebrica, segno di una teoria matura e sviluppata in tutta sua potenza.
È questo il contributo caratteristico di Newton: la possibilità di generalizzare.
Egli sintetizza i risultati di buona parte dei progressi matematici svolti in passato e, cosa importantissima, usa il linguaggio algebrico, e non geometrico, per dimostrare che la derivazione è l’operazione inversa dell’integrazione e viceversa; dimostra quindi la reversibilità dei due processi tramite serie infinite. Non dimostra la convergenza a zero delle serie infinite, passo indispensabile perché non tutte le serie convergono, ma lo verifica con calcoli e lascia il compito teorico al lavoro di altri matematici lungo i decenni successivi.
Nella sua terminologia con flussioni e fluenti la similitudine fra i termini “fluenti” e “flussioni” è tale che la frase sembra uno scioglilingua, per cui rimarrà nella storia della matematica la sua idea ma non la sua nomenclatura. Leibniz, quasi vent’anni dopo, sarà più chiaro, agile e didattico. Questa fama non è tanto meritata dato che, in termini di chiarezza, l’opera di Leibniz deve molto alla revisione svolta dai fratelli Johann e Jakob Bernoulli.
Come farà dopo nella meccanica, Newton arriva alla sintesi di tanti contributi isolati e va molto oltre rispetto a ogni singolo suo precedente. Egli vuole applicare la nuova teoria al caso particolare della meccanica: infatti con integrali e derivate diventerebbe possibile calcolare lo spazio percorso da un pianeta lungo la sua orbita e valutare la sua accelerazione a ogni istante.
Nel moto dei pianeti le variazioni sono temporali e le grandezze fisiche che variano nel tempo sono lo spazio e la velocità. Come nel cronometro ad acqua di Galileo usato per misurare il fluire del tempo nei moti dei suoi esperimenti di meccanica, Newton, e anche Barrow prima di lui, chiama la variazione durante lo scorrere del tempo “flussione”. Le flussioni, pertanto, corrispondono alle nostre derivate, allora chiamate anche “tangenti” quando venivano considerate in senso geometrico. La quantità della quale si calcolano le variazioni è la “fluente”. Quindi nell’ermetica dicitura caratteristicamente newtoniana la frase «la flussione del fluente è l’operazione inversa del calcolo del fluente della flussione» oggi equivale a «l’operazione della derivata è l’inverso dell’integrale». La complessità dei processi algebrici rimane la stessa ma, almeno verbalmente, la dicitura leibniziana è più semplice ed elegante.
Newton considera “le quantità matematiche” come “un moto continuo”, che genera curve, una genesi che trova riscontro nella natura delle cose.
Il calcolo infinitesimale nel Seicento nasce dalla necessità di trattare problemi complessi collegati con il moto non uniforme dei corpi. La ricerca dell’epoca era collegata ai moti e alle questioni di are...

Indice dei contenuti

  1. Collana
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. La rasoiata di Newton
  6. PANORAMA
  7. FOCUS di Ruth Silva Loewenstein
  8. APPROFONDIMENTI
  9. Piano dell'opera