I movimenti del suono
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I movimenti del suono

Tra modernità e tradizione nel primo Novecento musicale

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Tra modernità e tradizione nel primo Novecento musicale

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Questo libro è un'incursione nei territori della prassi musicale del primo Novecento, partendo dall'inizio del progressivo scompaginamento della tradizione del sistema tonale, fino ad accenni alla contemporaneità musicale. L'autrice si sofferma con particolare attenzione sulla teoria e la prassi musicale del flauto traverso, esaminando l'opera di alcuni autori emblematici del Novecento.Giorgia Gagliano è una musicista, insegnante di musica e docente di flauto traverso nata a Soverato nel 1993. Trasversalmente all'attività performativa si appassiona gli studi storici e musicologici, portando avanti parallelamente le due inclinazioni complementari. Attualmente scrive e insegna come docente di musica e di strumento musicale presso la scuola primaria e la scuola secondaria di primo grado.

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Informazioni

Editore
Ikonaliber
Anno
2022
ISBN
9788897778721

I. STORIA E CULTURA

I. 1. GERMI DELLA CRISI DI UN’EGEMONIA CULTURALE

Il Novecento, pregno di rivoluzioni in campo musicale e non, è un secolo denso di storia, e porta con sé la rottura degli equilibri, i cui sentori durante il secolo precedente annunciavano già la crisi di una civiltà che non si riconosceva piú sulla nozione di musica basata sull’armonia tonale e sui presunti rapporti naturali tra i suoni armonici; al contrario, tale tendenza conservatrice veniva recepita come oppressiva dell’ispirazione nonché della libertà creativa e dell’autenticità espressiva. Come infatti sosteneva Helmholtz, «la conformazione delle scale e la trama dell’armonia sono prodotti dell’invenzione artistica e non sono in alcun modo insiti nella struttura o nel funzionamento naturali dell’apparato uditivo, come si riteneva generalmente in passato» [1].

Questo è uno dei punti piú fortemente di rottura rispetto alla tradizione, dopo circa tre secoli di predominio incontrastato e di evoluzione del linguaggio, il quale a un certo punto sembra esaurire ogni sua nuova possibilità.
Si tratta di una rottura insanabile, e forse neppure ai nostri giorni si è ricomposto un quadro in cui si profili all’orizzonte un nuovo equilibrio creativo, nonostante le diverse soluzioni e le ricerche adottate.

Per comprendere a fondo ciò che è accaduto nella musica moderna è bene fare un passo indietro e trovare i germi del rovesciamento di valore già presenti in alcuni autori del Romanticismo: ultimo grande capitolo della sinfonia classico-romantica è forse la Quarta sinfonia di Johannes Brahms (1833-1897), dall’incipit indimenticabile, realizzato in realtà in modo alquanto singolare, ovvero con pochissimo materiale: suoni quasi isolati, enfatizzati da una pausa, come un piccolo abisso nel quale tutti gli ascoltatori precipitano. Tale sistema retorico è basato su materiali estremamente economici, minimi, dunque oggetti sonori, con i quali Brahms costruisce quasi l’intera struttura del primo tema della sua quarta sinfonia. E cosí come Brahms conclude la storia della sinfonia classico-romantica, insieme a Richard Strauss (1864-1949), Gustav Mahler (1860-1911), e altri, Giacomo Puccini (1858-1924) conclude la storia gloriosa del melodramma italiano, con la sua Turandot ., insieme naturalmente a Wagner.
Nell’Ottocento si possono rilevare due tendenze contrastanti tra i compositori e a volte nello stesso compositore: da una parte un’enfasi che porta a un ingigantimento delle forme, sinfonie che diventano sempre piú ampie nella loro natura, cicli operistici di grande lunghezza, ampliamento smisurato delle forme orchestrali e degli organici orchestrali, generale dilatazione all’infinito del meccanismo formale con conseguente costante rinnovamento della materia; materia che cosí può espandersi liberamente (seppur con controllo e coerenza formale); dall’altra un nuovo gusto per le forme piccole, per le composizioni di dimensioni sempre piú ridotte, con durate sino a pochi minuti, ma di grande intensità espressiva, con richiami affettivi appena accennati e con largo spazio lasciato alla fantasia uditiva dell’ascoltatore, predilette, queste ultime, nella scelta del repertorio della prova finale della mia laurea.

Posto questo primo quadro generale, è fondamentale al contempo un sintetico sguardo d’insieme volto alla realtà storica del periodo, segnato da una fase capitalistica che coinvolse non soltanto paesi come Francia e Inghilterra ma anche Germania, Italia, Russia e Stati Uniti, e contrassegnato da un’espansione produttiva impetuosa, aggressiva nella ricerca dei mercati, avente il suo sbocco piú immediato nell’industria degli armamenti. Da qui l’esaltazione della tecnica produttiva industriale, della civiltà occidentale come la piú avanzata, della razza bianca come portatrice di questi valori alle razze inferiori.

«L’esaltazione della scienza e della tecnica, che è sempre presente nelle società industriali in età moderna (l’Illuminismo nel Settecento e il positivismo nell’Ottocento) si colora improvvisamente di aspetti violenti, aggressivi, intolleranti, razzisti» [2].

Dunque il mito ottimistico del progresso si tinge di cupezza, di forze negative che influenzano la società e la sua ideologia, riflesso di una crisi incombente causata dalla minaccia di una guerra mondiale all’orizzonte, e dall’acuirsi della questione sociale. Crisi che, in tale circostanza, ebbe negli intellettuali e negli artisti una reazione decisa di contrapposizione, con la condanna dello scientismo e il ritiro dal mondo della scienza e della tecnica: a partire dal 1870 compenetra nell’età dell’imperialismo, paradossalmente, quella del decadentismo. Dalla svalutazione della ragione scientifica nasce l’esaltazione dell’arte come linguaggio misterioso, capace di penetrare nell’oscurità e di dotare l’uomo dell’unico strumento attraverso cui può comprendere le cose del mondo: il simbolo, l’analogia, l’allusione.
La figura dell’intellettuale, ormai inutile e obsoleta in una società plasmata e devota al progresso industriale, ostenta la propria inutilità e “inattualità” in una vita da bohème o da dandy; ciononostante il decadentismo perse in poco tempo la sua natura eversiva conformandosi alla cultura ufficiale. Infatti, adottando una visione d’insieme, emerge come la società tra Otto e Novecento sia segnata da una progressiva omogeneità culturale, e nelle strutture adibite alla produzione e fruizione musicale, e nei suoi protagonisti, ma soprattutto nel “repertorio”, ovvero
quel corpus di opere stabilmente eseguite, sempre piú appartenenti al passato, e sempre meno al presente, e facente riferimento all’asse Beethoven-Wagner. Tale fenomeno deriva dal desiderio di continuità rassicurante con la tradizione, quindi frutto di un atteggiamento conservatore e reazionario. Ma ben presto lo scenario musicale mitteleuropeo verrà sconvolto, dapprima sotterraneamente, da quello scompaginamento della tradizione che ha cambiato per sempre il modo d’ascoltare e d’intendere la musica.


[1] Hermann von Helmholtz, in La musica moderna, Otto Karolyi, Toledo, Mondadori Electa, 2003, p. 15.
[2] Guido Salvetti, La nascita del Novecento, Torino, EDT, 2018, p. 4.

I. 2. I PADRI DELLE AVANGUARDIE E L’EMANCIPAZIONE DELLA DISSONANZA

I compositori delle maggiori scuole europee, particolarmente quelli della scuola viennese, raccolgono l’eredità mistica e ascetica dell’arte wagneriana, lo spiritualismo piú accanito, convogliato in un’arte che assumeva, secondo la lezione di Schopenauer, il dolore dell’esistenza per indicare una via di redenzione attraverso l’arte stessa.
L’ipertrofia di Wagner, relativa ovviamente anche all’aspetto formale della sua musica, all’ipercromatismo esasperato (emblematico è il celeberrimo accordo del Tristano, costruito attraverso progressioni per semitoni, riconosciuto per molto tempo dai piú come simbolo iniziale del disfacimento della tonalità generalmente intesa come ordine precostituito), alla perdita di centri di gravitazione tonale, all’enarmonia, all’impiego di catene di accordi dissonanti senza risoluzioni, al tipo di organico assolutamente colossale, alla moderna concezione di Leitmotive, ecc., e del suo concetto di drammaturgia totale e di opera d’arte totale, offriva ai posteri un modello talmente grandioso da risultare paralizzante.

Emblematica testimonianza di tale “paralisi” sono le parole di Debussy in una lettera all’amico Pierre Louÿs dell’autunno del 1892: «È il Tristano che ci impedisce di lavorare. Non si vede… Io non vedo… che cosa si possa fare dopo il Tristano » [1].
Volendo infatti discorrrere del panorama musicale europeo a cavallo tra i due secoli, è quantomeno palese come la specificità “storica” della musica tedesca, abbondantemente sovvenzionata dallo Stato e divulgata all’estero mediante gli Istituti germanici (svolgendo cosí il suo ruolo di sostegno alla politica dei destini mondiali degli Imperi), sia stata molto forte, anche perché fondata nella coscienza nazionale specifica di quell’area geografica. Questo stabilí precise discriminanti nei confronti di culture musicali limitrofe, in particolare quella francese. Tuttavia, questo senso di appartenenza si ruppe gradualmente con il radicalismo delle avanguardie e l’uscita dal sistema tonale.

«Negli anni intorno alla prima guerra mondiale si deteriorò irreparabilmente la coscienza della comune civiltà musicale e della continuità con il passato: con la morte di Mahler (1991), Reger (1916) e Skrjabin (1916) diventò palese la svolta generazionale […], diventò sempre piú evidente l’inconciliabilità tra i difensori dei valori acquisiti nel passato e coloro che intendevano stabilire un rapporto con una realtà storica cosí profondamente mutata» [2].

Tale svolta generazionale è guidata e anticipata cronologicamente da Mahler, un uomo immerso nella dimensione storica del suo tempo, paralizzato dall’impotenza di ogni affermazione, travagliato da problemi e da contraddizioni che nel giro di pochi anni condurranno a conflitti terribili e irrisolti.
L’impotenza di affermazione (o, meglio, la deformazione dell’affermazione) si evolve riscontrandosi non a caso in molte composizioni dell’ormai invecchiata avanguardia, la quale infatti raccoglierà l’eredità di Mahler, declinandosi in quella che sarà la corrente atonale, espressionista, dodecafonica, in seguito serialista, presentando spesso caratteri regressivi dal punto di vista linguistico: eventi sonori assai semplici come contrasti violenti tra masse sonore, ritmi ripetitivi elementari, urti timbrici o dinamici scarsamente strutturati. Vi è pertanto un richiamo molto piú istintuale dal punto di vista percettivo rispetto a molta produzione settecentesca od ottocentesca, evidenziando cioè «l’importanza della percezione uditiva del suono in quanto suono come singolo fenomeno, come microfenomeno visto nella sua singola evoluzione» [3].

La distruzione del concetto stesso di linguaggio musicale e di opera musicale avvengono come inevitabile conseguenza dell’abolizione degli elementi attraverso i quali qualsiasi linguaggio si definisce e prende vita, ovvero dei propri limiti e confini, delle proprie regole. Si tratta probabilmente di una musica che è fatta piú per essere creata ed eseguita che per essere ascoltata, e che pertanto richiede una rimodulazione radicale del nostro orecchio e soprattutto della nostra intelligenza: per aiutarsi bisognerebbe pensare che non si tratta di un’opera musicale ma di affermazioni filosofiche o parafilosofiche tradotte in suoni o in rumori che dir si voglia.

Eppure Mahler, per formazione o forse anche per ragioni generazionali, non partecipò davvero alla sperimentazione musicale delle avanguardie nell’età dell’espressionismo e dell’atonalismo; non collaborò in maniera significativa con letterati, pittori o drammaturghi; rimase perplesso davanti alle opere di Schoenberg e dei suoi allievi, che pure difese accanitamente di fronte agli ottusi detrattori: Mahler fu l’esponente per antonomasia di questa gigantesca transizione, tra un mondo che stava finendo e uno che stava sorgendo nel medesimo tempo. Insieme al suo maestro, Bruckner, è stato designato piú volte come esponente della “fine”: di questa strana dimensione, percezione in base a cui un’intera civiltà, come un organismo vivente, avverte in sé un declino inarrestabile e l’ansia di una nascita diversa: per tradurla in ottica cristiana, è il paradigma della creazione che contiene in sé entrambi gli elementi: vita e morte.


[1] François Lesure, Debussy. Gli anni del simbolismo, Torino, EDT, 1994, p. 232.
[2] Guido Salvetti, op. cit., p. 129.
[3] Enrico Fubini, Intorno alla musica, Venezia, Marsilio Editori, 2019, p. 34.

I. 3. PERCEZIONE DEL TEMPO MUSICALE E AMPLIAMENTO DEI LINGUAGGI

Per comprendere realmente le rivoluzioni linguistiche, il gusto musicale e quella che è la prassi esecutiva del Novecento manca, di fatto, un elemento fondamentale, che è quello nel quale il suono si svolge, ovverosia il parametro del tempo, questione che è stata trascurata dai mutamenti del secolo: il modo in cui il suono si distribuisce nell’arco temporale è il modo fisico attraverso il quale l’ascoltatore entra in contatto con il discorso musicale; è nel tempo che si svolge la sua esperienza musicale, come naturalmente anche quella dell’interprete.

Per comprendere la na...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Ai confini della tonalità.
  3. Indice dei contenuti
  4. Epigrafe
  5. Introduzione
  6. I. STORIA E CULTURA
  7. II. PRASSI ESECUTIVA
  8. III. I VOLTI E LA MUSICA
  9. APPENDICE. COMPOSITORE E PUBBLICO, UNA ROTTURA INSANABILE?
  10. BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA