1. Il partito di Francesco II
Carmine Crocco si considerava un grande brigante. E si atteggiava spavaldo e potente: non era un banditello da strada, ma un capo riconosciuto e temuto. Raccontò al capitano Eugenio Massa, l’ufficiale italiano che ne raccolse, colorò e pubblicò i ricordi, che «nei vari anni della mia vita di bandito, dormii poche volte al bivacco, e trovai alloggio e ristoro presso persone da tutti ritenute intangibili sotto ogni rapporto».
Insomma, era riconosciuto anche da quei «baroni» di cui parlò sempre nelle note scritte a mano come nella sua autobiografia ed in ogni passaggio della sua vita. Infatti sapeva muoversi tra baroni, briganti e contadini. Era consapevole che i suoi predecessori più famosi nella storia del brigantaggio, da Angelo Del Duca ai fratelli Vardarelli, erano stati al centro di reti di potere locale e di solidarietà sociale. Anche Crocco si inserì in uno schema che ebbe due volti: il notabilato aristocratico-borghese e i gruppi familiari-contadini. Rappresentarono il mondo del «manutengolismo», un sostegno al brigantaggio politico, animato nel nome di Francesco II di Borbone, che intrecciò vantaggi materiali e operativi di amici e soci, con il raggiunto status di grande capobanda.
Un tema che arricchisce la comprensione della guerra combattuta nel Mezzogiorno dopo il 1860. Nell’estate, quando Francesco II decise di resistere alla rivoluzione e raccolse l’esercito sul Volturno, il governo borbonico e i suoi sostenitori costruirono una rete clandestina nelle province in mano agli unitari meridionali. Il Re di Napoli, anche dopo la resa di Gaeta, la fortezza dove tentò l’ultima resistenza, continuò la sua lotta contro la nazione italiana. Fu ospite di Pio IX, prima al Quirinale e poi a Palazzo Farnese. Debole e indeciso, stretto dalle lotte e dalle invidie dei fratellastri, mantenne comunque la decisione di non ratificare l’estinzione del Regno.
Confermò un suo governo in esilio, guidato da Pietro Calà Ulloa, un vecchio conservatore liberaleggiante, legato al padre, energico, grafomane e passionale. Al suo fianco c’era soprattutto il cardinale Sisto Riario Sforza, arcivescovo di Napoli, in esilio a Roma. Il Borbone si inserì all’interno dalla battaglia condotta dal Papa e dal mondo legittimista contro il nazionalismo e il liberalismo italiano. Pio IX aveva scelto una linea di intransigenza, respingendo la proposta di Cavour di un incontro tra Chiesa e Stato.
I borbonici organizzarono una mobilitazione politica e la lotta armata, con un progetto indipendentista garantito dalla monarchia nazionale borbonico-cattolica. Si formò un blocco di resistenza con settori dell’aristocrazia napoletana, spesso con il re in esilio, i vescovi che si opposero all’unificazione con le loro reti nelle province, la piccola quota di militari e di funzionari restati più o meno apertamente legittimisti. Inoltre, mobilitarono giornalisti, scrittori, intellettuali, pennaioli. Il corpo diplomatico, restato fedele al Re, fu tenuto in servizio per cercare alleati, organizzare comitati e impedire il riconoscimento del nuovo Stato.
In realtà, Francesco II non ebbe la forza di mettere in difficoltà l’esercito di artisti, intellettuali e politici che avevano plasmato il romanticismo nazionale italiano e ne interpretavano il trionfo. Inoltre, già nel 1862 quasi tutte le principali potenze avevano stabilito rapporti con il Regno d’Italia. Infine, l’esilio legittimista fu condizionato da profonde e rabbiose divisioni tra gli stessi borbonici, registrando continue congiure e tradimenti interni alla corte ed ai suoi sostenitori, producendo la triste e malinconica rappresentazione di un sovrano tradito e imbrogliato da amici, parenti e nemici.
Francesco II non mollò. Insieme al suo governo, combatté per cinque anni per restaurare la dinastia borbonica, almeno della parte continentale del Regno. Privi di un esercito e di combattenti regolari, puntarono tutto sul brigantaggio politico. Certo, il re e i militari al suo fianco, Tommaso Clary, Giovanni de Torrenteros, Giuseppe Statella, Pietro Vial, Ferdinando Bosco non si illudevano di riconquistare il Regno con i briganti. Anzi, molto spesso li disprezzavano. Non vollero unirsi direttamente a loro né pensarono mai di rientrare nel Regno e battersi in prima persona.
Al brigantaggio assegnarono un ruolo di destabilizzazione dell’unificazione. Cercano a volte di negarlo, in altri casi di presentarlo come una reazione all’annessione, in vista di una ipotetica crisi europea (c’era anche una reggenza segreta pronta a prendere il potere in questo caso). In termini operativi, si costruì una rete di comitati di appoggio clandestini, cercando di promuovere un coordinamento centrale tra Napoli e Roma. Anche in questo caso, con scarso successo.
Pochi militari, per lo più stranieri e solo nella prima fase, accettarono di raggiungere i briganti. L’idea di una direzione coordinata fallì nel giro di un anno. Riuscì invece la mobilitazione delle bande, promosse da gruppi segreti mossi da odio verso gli stessi meridionali al potere, ambizione di recuperare ruoli perduti, legami con la dinastia borbonica, passioni politiche. Si conosce l’esistenza di un comitato centrale perché in almeno tre o quattro occasioni fu sgominato dai temibili questori napoletani Carlo Aveta e Nicola Amore. Tra i riferimenti c’erano prima il conte Giulio Ricciardi poi un ex maggiore dell’esercito borbonico, il barone Achille Cosenza.
A livello locale i comitati organizzarono azioni di propaganda clandestina e il sostegno logistico alle bande, cercando di politicizzarle e spesso di gestirle, a volte di proteggere i briganti in fuga. Alcuni materiali sequestrati dalle forze di sicurezza italiane, mostrano comitati provinciali e locali in corrispondenza con Roma e Napoli. Avevano un qualche peso quando erano disponibili personalità influenti, con ricchezze e protezioni.
Le bande di Carmine Crocco, che per dimensioni e importanza furono quelle che ebbero il...