Varsavia 1944
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Varsavia 1944

  1. 112 pagine
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Varsavia 1944

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Questo libro racconta di un evento della Seconda Guerra Mondiale solitamente trascurato dai manuali di storia nonostante sia caratterizzato da un tasso di drammatica assurdità che lo rende per molti aspetti unico. Ciò che ne viene è una vera e propria narrazione civile.Intrecciando la Storia politica con singole storie individuali e specifiche vicende, Paolo Colombo ricostruisce in maniera toccante e avvincente l'evoluzione bisecolare dei rapporti tra Germania e Polonia fino alla agghiacciante decisione nazista di radere letteralmente al suolo la capitale polacca prima di abbandonarla all¿avanzata dell'Armata Rossa sovietica, nel 1944.Il testo restituisce il tono fluido e coinvolgente della narrazione in pubblico che l'ha generato così da risultare di agevole e al tempo stesso emozionante lettura e offre la sintesi di una vicenda che acquista ancora maggior valore nella ricorrenza della "Giornata della memoria". «Una storia potente».
Così si scrive spesso di certe pellicole cinematografiche
nelle recensioni che ne annunciano l'imminente uscita.
Ma qui, purtroppo, non stiamo parlando di un film.
La vicenda della distruzione di Varsavia
è una storia "potente" innanzitutto perché drammaticamente vera.

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788863459517
Argomento
Economia

Il ghetto

Finora non abbiamo toccato un tema angoscioso e decisivo: la Polonia ospita la comunità ebraica più numerosa del mondo europeo.
È stato scritto che “la Polonia, nella sua massima espansione geografica – che comprendeva anche la Lituania e una parte della odierna Bielorussia – fu considerata per molti secoli, in confronto a ciò che accadeva negli altri Paesi del Centro e dell’Est Europa, una sorta di «Paradisus Judaeorum»”,15 come lo storico romano Giovanni Battista Pacichelli l’aveva definita nelle sue Memorie de’ viaggi fatti per l’Europa cristiana edite dalla Stamperia Reale di Napoli nel 168516. Ma perché proprio la Polonia? La risposta sta nella lungimiranza dei regnanti polacchi che – per supplire alla mancanza di una borghesia locale – a partire dal XIV secolo favorirono un massiccio insediamento di ebrei nel Paese attraverso la concessione di numerosi privilegi generali come quello concesso da Sigismondo II Augusto Jagellone che conferiva la possibilità di esercitare autonoma giurisdizione nelle questioni relative alla legge ebraica tramite l’elezione di un rabbino capo e di propri magistrati. Date queste particolari condizioni di favore – assolutamente fuori del comune per l’Europa del tempo –, nel giro di un secolo dall’editto di Sigismondo gli ebrei polacchi crebbero al punto tale da arrivare a rappresentare il 3-5% della popolazione totale e il 20% di quella delle grandi città, affermandosi come la più grande comunità ebraica del Vecchio Continente17. Un trend che proseguirà, peraltro non senza trovare ostacoli, anche nei secoli successivi, a dispetto dell’emigrazione di molti ebrei verso le Americhe durante l’Ottocento. Nel 1939, prima dello scoppio della guerra, la Polonia ospitava circa 3,3-3,5 milioni di ebrei su 35,3 milioni di abitanti: un decimo. Nella sola Varsavia risiedevano quasi 400.000 ebrei su una popolazione complessiva di circa 1,3 milioni di abitanti18. Una sorta di “Paradisus”, in effetti, destinato però nel giro di pochi anni a trasformarsi nel peggiore degli inferni immaginabili.
Perché, attenzione: stiamo spalancando qui la finestra su uno dei panorami più allucinati dell’era contemporanea: talmente atroce e allucinato da risultare accecante per chi abbia l’ardire di guardarlo davvero in faccia. E infatti, va detto, la descrizione di quel panorama – doverosa, stremata, terribile (per chi l’ha tentata e per chi l’ha ascoltata) – ha finito in un certo senso per annichilire tutto il resto, non potendo che balzare in primo piano, sfolgorante nel suo cupo orrore, e relegare sullo sfondo ogni altro, pur sconvolgente evento. Ma quello che qui cerchiamo di fare è proprio di guardare altrove, non per ignorare l’Olocausto, ma per vedere qualcosa che accade accanto e insieme ad esso. Ciò nondimeno, qualcosa – anche se certo non abbastanza – c’è da dire.
A Varsavia gli arresti e le esecuzioni di ebrei si fanno numerosi fin dai primi giorni dell’occupazione: dapprima segreti, poi palesi, poi pubblici ed infine annunciati con manifesti affissi sui muri. Il 23 novembre del ’39 viene introdotto l’obbligo di portare il bracciale con la stella di David.
Un anno dopo, è il 16 novembre del 1940, in un drammatico crescendo di repressione inizia ufficialmente nella parte centro-settentrionale della città la chiusura del ghetto. Secondo le fonti tedesche, 380.740 ebrei vi sono rinchiusi, ma saranno anche di più. Il ghetto – che i nazisti con un agghiacciante eufemismo chiamano “zona residenziale ebraica” – è circondato per tutto il suo perimetro da un muro.
Ora: la Storia è ritmata dall’erezione di muri, che spesso poi percepiamo come capolavori dell’ingegno e dell’industriosità umana: il Vallo di Adriano, la Grande Muraglia cinese, le Mura di Babilonia… Ma un muro è prima di tutto la risposta più logica, istintiva e risoluta a un ancestrale bisogno della natura degli uomini, quello di porre un confine: di qui c’è qualcosa, di là c’è qualcosa di diverso.
Così, un muro – un confine – dice essenzialmente due cose: che intendo definire ciò che è diverso da me (i barbari stanno al di là del Vallo) e che desidero proteggermi da ciò di cui ho paura (i mongoli vanno tenuti oltre la Muraglia…). E quasi sempre, quando sono di fronte a un muro, sono sul confine che somma entrambi questi sentimenti: metto un muro fra me e qualcosa che voglio negare, che non voglio pensare che esista, o che voglio pensare che non esista.
È difficile pensare a tutto ciò quando immaginiamo i nazisti erigere le mura dei ghetti: eppure è in un certo senso salvifico farlo, perché a me piace pensare che i nazisti abbiano paura degli ebrei. Pensarlo non sposta una virgola di ciò che è accaduto ad Auschwitz o a Buchenwald o a Treblinka, non altera una sola cifra delle devastanti sequenze di numeri che perimetrano il cimitero dell’Olocausto, ma mi rovescia la prospettiva, mi rivolta come un calzino quella conclamata passività ebraica davanti alla persecuzione che si dissolve nell’infinità delle vicende individuali, mi rende l’immagine degli ebrei come collettività, come popolo.
Mi piace pensarlo: i nazisti hanno paura degli ebrei, e c’è ragione di pensarlo, perché lo studio delle teorie razziste ce lo insegna: gli ebrei sarebbero l’unica razza che può assurgere al livello di antagonista di quella ariana. Sono gli unici ad aver mantenuto nei secoli la propria identità a dispetto di ogni migrazione, di ogni tentazione di meticciato. E, diciamolo, sono molto più bravi degli ariani, in questo: hanno difeso la propria cultura senza un attimo di cedimento e con un accanimento senza eguali, proteggono da sempre l’endogamia – e dunque la purezza genetica – lottando all’arma bianca, sempre in bilico sul limitare della discriminazione femminile.
I tedeschi hanno paura degli ebrei: al fondo dei campi di concentramento e dei loro giganteschi forni crematori c’è l’incubo che i morti nei loro sepolcri possano ricomparire come spiriti e attirare nuovi olocausti, futuri pellegrinaggi: rifiutare la sepoltura al nemico vuol dire, come per gli antichi sciamani, annientarlo, farlo scomparire senza lasciar traccia, senza ricordo. È un atteggiamento da Caino, adottato significativamente non solo verso gli ebrei, ma anche verso le vittime della “Notte dei lunghi coltelli”, quando nel giugno 1934 le SS eliminano le camicie brune di Ernst Röhm: quando non se ne può proprio fare a meno, ai parenti non sono consegnate nulla più che le ceneri degli assassinati. Himmler, al congresso dei Gauleiter a Poznam, proprio nell’agosto del 1944, ricorderà, al proposito dei nemici eliminati in quella faida, che furono sepolti tanto in fretta da lasciar loro addosso la croce da cavaliere. L’indomani si diede ordine di disseppellire i cadaveri e bruciarli, spargendone poi le ceneri per i campi, affinché non ne restasse il minimo ricordo in una tomba o in qualunque altro luogo.
Himmler ha talmente paura che vuole incatenare il morto perché non risorga.
I tedeschi hanno paura degli ebrei e fanno bene, ad avere paura, perché alla fine la guerra la “vinceranno” proprio loro: pagheranno un prezzo che non esistono superlativi per definire, ma perdio, vinceranno. In una sorta di assurda nemesi, saranno loro i veri, definitivi trionfatori. E la Germania dovrà pagare gli interessi al tribunale della Storia e al senso di giustizia umano per il resto dei suoi giorni…
Ma mentre decine di migliaia di mattoni si vanno a incastrare uno sull’altro a tagliare fuori 403 ettari dal resto della città, tutto questo non si vede: sono gli ebrei a vivere nel terrore, e gli occupanti nazisti a disporre di Varsavia con la prepotenza di chi apparentemente non ha nulla da temere perché sembra invincibile.
403 ettari. Si tratta di un’area di modeste dimensioni: pochi palazzi alti al massimo cinque piani. La densità abitativa è spaventosa: circa 100.000 persone per chilometro quadrato.
Dal ghetto niente e nessuno entra o esce senza il permesso della polizia nazista.
Ad organizzarlo viene chiamato Adam Czerniàkow: ha sessant’anni, ha studiato in Germania. Prima della guerra ha coltivato qualche ambizione politica, ma non di alto livello. Nell’ottobre del 1939 questo tranquillo borghese viene convocato presso la sede della Gestapo di Varsavia. Trascorre insonne la notte precedente tormentato da mille congetture: “Cosa vorranno da me i nazisti…?”. Gli viene ordinato di diventare presidente del “Consiglio ebraico” e di nominare un comitato di 24 persone, lo Judenrat, unica autorità riconosciuta dal governo d’occupazione germanico, che si trasforma in una macchina burocratica che deve occuparsi di ogni cosa: alimentazione, educazione, sicurezza e soprattutto lavoro.
Ma già nel maggio 1940 l’allora comandante delle SS e della Polizia di Sicurezza del Governatorato Generale, Jurgen Stropp, aveva sostenuto che il numero degli ebrei concentrati nel ghetto rappresentava un problema serio.
Erano troppi.
La soluzione che sarà inizialmente adottata sarà quella di ucciderne per fame il ma...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Prefazione
  6. Introduzione: L’urgenza di narrare una storia
  7. 9 parole
  8. La Cenerentola d’Europa
  9. La Parigi dell’Est
  10. Truppe corazzate all’orizzonte
  11. “Si può germanizzare una terra, mai gli uomini…”
  12. Combattere per la propria terra senza mai neppure vederla
  13. Il ghetto
  14. Duemila anni prima
  15. L’insurrezione
  16. Il delirio distruttivo finale
  17. Non esistono le parole
  18. Bibliografia essenziale
  19. Ringraziamenti