Capitolo 1
“Io voglio un vero corso di letteratura”
Non molto tempo fa, una lodevole studentessa della New Mexico Highland University, un piccolo college nel Nuovo Messico settentrionale, prese il quaderno, l’evidenziatore e la penna, li infilò nello zaino e uscì infuriata dal corso di Letteratura Americana che stava seguendo, per non farvi più ritorno. Qualche minuto prima il suo professore, assorto in una lezione sullo spettacolo del 1982 Live on the Sunset Strip di Richard Pryor, stava pontificando su come lo show non fosse altro che la risposta della stand-up comedy al trecentesco Inferno di Dante. Secondo la sua asserzione, il comico, tanto famoso per l’indole autodistruttiva quanto per le sue battute, aveva costruito una narrazione epica, un one-man-show straziante e complesso in ogni passaggio, per nulla inquadrabile nei canoni consueti.
“Non fa nient’altro che stare lì in piedi a dire parolacce”, disse la diciannovenne appassionata di letteratura americana, una zelante studentessa con tanto di borsa di studio, che aveva intenzione di scrivere una tesi su Flannery O’Connor. “Per non parlare di come tratta le donne”.
Questo indusse il professore a una nuova filippica, in cui sosteneva che la rimozione degli strati più superficiali della performance portava alla luce alcune tra le più nefande colpe americane, quali la schiavitù, l’autoritarismo, la tossicodipendenza e il consumismo. Proseguì mostrando come nello spettacolo prendesse corpo ognuno dei sette peccati capitali in una sorta di conversazione con un’anima dannata: dunque, per il suo carattere personale, terrificante e intimo, si poteva considerare vera letteratura.
“Lo spettacolo comincia con una rinascita”, disse il professore, “e culmina con un doppio battesimo. Uno con l’acqua e l’altro con il fuoco. Osservatene la struttura. È lo stesso materiale della mitologia classica”.
La studentessa si infilò gli occhiali, incrociò le braccia e guardò fuori dalla finestra prima di dire: “Dante non avrebbe detto figlio di puttana una frase sì e una no”.
Scosse la testa, chiuse il suo zaino e se lo mise a tracolla. “Oggi questo, domani merda e scoregge? Io voglio un vero corso di letteratura”.
E uscì.
Quel professore ero io. La scena si verificò qualche anno fa, quand’ero ancora ingenuamente innamorato del mio concepire la stand-up comedy come genere letterario; la reazione della ragazza non fu un caso isolato.
Da quando ho intrapreso questo tipo di studi, ho ricevuto più di qualche sbeffeggiamento, più di qualche occhiataccia da studenti e colleghi, per non parlare delle risatine di scherno, eco dell’ammonimento della studentessa a dirigere i miei sforzi verso la vera letteratura. Un professore ammise che, sebbene credesse che la stand-up fosse una forma d’arte meritevole di interesse, sarebbe stato più opportuno affrontare aspetti davvero rilevanti della cultura americana. Nonostante l’ammorbidimento della mia posizione negli anni, il cuore del mio ragionamento resta intatto: la stand-up comedy è un genere di valore non inferiore a quello della grande letteratura americana, e Richard Pryor Live on the Sunset Strip resta un capolavoro, un prodotto artistico che racconta i costumi americani al pari di gioielli come Il Migliore di Bernard Malamud, Pian della Tortilla di John Steinbeck e Il Colore Viola di Alice Walker, ed è sicuramente più rilevante di alcune opere annoverate tra gli imprescindibili della letteratura americana. Se la grande letteratura, come disse William Faulkner nel discorso di premiazione del Nobel nel 1950, nasce dal “cuore umano in conflitto con se stesso”, allora Live on the Sunset Strip rientra a pieno titolo nella categoria per due motivi: innanzitutto è la storia di un uomo tanto devastato dalla dipendenza dalle droghe da essere in grado di chiedere aiuto soltanto dandosi fuoco; in secondo luogo è il ritratto di una nazione che, nonostante sia trascorso più di un secolo dal Proclama di Emancipazione2 e una generazione dalle Marce per i Diritti Civili,3 ancora non riesce a onorare le promesse della Dichiarazione di Indipendenza.4
Continuo a sostenere che, come Faulkner nel capolavoro L’Urlo e il Furore ci porta nel mondo suicida di Quentin Compson e nella sua patologica devozione all’onore di famiglia, come Shakespeare ci conduce nei recessi della mente caotica del deposto re Lear e proprio come Dante ci guida nell’esplorazione dell’Inferno, anche Pryor ci trascina nelle profondità di una follia alimentata dalla tossicodipendenza. Nel suo one-man-show, Pryor ci tira dentro il mondo dei tossici, poi nelle sue stanze private e infine nella sua personale camera di torture, con i suoi incubi più avvilenti, intrisi di scene orribili degne delle migliori opere di Hawthorne, Poe ed Hemingway.
Tutto questo non è per dire che i dubbi della mia studentessa non fossero legittimi. La sua riluttanza ad accettare ciò che io reputavo una tesi ben fondata e strutturata sollevava importanti interrogativi, il più serio dei quali non ho mai visto affrontato in un college, nonostante i miei venticinque anni di studi letterari. Vale a dire: “Che cos’è, esattamente, la letteratura?” E poi: “Se la stand-up comedy non è letteratura, allora cos’è?”
Se consultiamo l’Oxford English Dictionary, le acque possono sembrare meno torbide, ma non in modo immediato o significativo; definisce la “letteratura” come un insieme di “opere scritte, tenute in particolare considerazione per la rilevanza del valore artistico”.5 La definizione etimologica del termine “letteratura” (che a tutti gli effetti opera contro la mia tesi) ci offre un altro piccolo aiuto. Secondo l’Arcade Dictionary of Word Origins, la parola “letteratura” deriva dal termine latino littera, che significa “lettera” e perciò costituisce il fondamento del termine litteratura, che denota lo scrivere formato da lettere. Dato ciò, si potrebbe obiettare circa lo spessore o la capacità di durare nel tempo di Live on The Sunset Strip o di alcuni brani dei monologhi di George Carlin; potrebbe essere oggetto di discussione considerare i monologhi di stand-up comedy “opere scritte”, dal momento che non tutti gli stand-up comedian scrivono le battute su tastiere omologate o su copie di Word regolarmente registrate. Oltretutto, anche i comedian che di base si attengono fedelmente al copione, nel mezzo di una performance aggiungono, sottraggono, migliorano e modificano una battuta, se non un intero passaggio. Dunque, nel senso più stretto del termine, la stand-up comedy non può essere considerata letteratura.
Però, se il criterio principale è che l’opera debba essere affidata alla carta, allora si fanno necessarie altre considerazioni. Dove si collocano opere come l’Iliade, l’Odissea o le sezioni del Nuovo Testamento, i cui autori non avevano mai valutato la possibilità della stampa o della pubblicazione? Come trattare le opere degli autori che nemmeno contemplavano il linguaggio scritto? Il Winnebago Trickster Cycle6 non è allora letteratura? E la mitologia nordica e i corridos della tradizione orale ispanofona nell’America del Nord? E le storie di fate che circolavano in Europa prima che i fratelli Grimm le riorganizzassero? Queste narrazioni, questi poemi e queste canzoni non sono forse letteratura? O sono qualcos’altro rispetto alla letteratura? Il termine “letteratura orale” è forse un ossimoro?
Perfino a uno stimato critico letterario come Terry Eagleton le risposte non paiono semplici. Nel capitolo iniziale del saggio Literary Theory: An Introduction, Eagleton esamina la questione, adducendo che:
Forse la letteratura si può definire non tanto per il fatto che sia finzionale o “immaginativa”, quanto per il particolare utilizzo che fa del linguaggio. Secondo questa teoria, la letteratura è una categoria dello scrivere che, nelle parole del critico russo Roman Jacobson, rappresenta una “violenza organizzata commessa sul linguaggio ordinario”. Se una persona mi si avvicina alla fermata dell’autobus e bisbiglia: “Non è ancora stato rapito dall’abbraccio della quiete?”, mi rendo subito conto che sono in presenza di un linguaggio letterario. So questo perché la struttura, il ritmo e il suono delle parole sono eccessivamente rivolti verso l’astrattezza del loro significato o, come spiegherebbe più tecnicamente un semiotico, c’è uno squilibrio tra significante e significato. Il linguaggio comune invece presta attenzione a se stesso, si esprime in modo concreto, con frasi come: “Non lo sai che c’è lo sciopero degli autisti?”7
Eagleton prosegue suggerendo che la peculiarità della letteratura potrebbe stare nella sua stessa indeterminatezza, argomentando come sia la mancanza di pragmatismo a renderla differente rispetto ai manuali o alle liste della spesa, perché la letteratura “non è al servizio di uno scopo immediato”;8 suppone inoltre che lo stesso termine “letteratura” funzioni come la parola “erbaccia”, dal momento che “le erbacce non sono classificabili come una particolare tipologia di pianta, ma sono considerate semplicemente un tipo di pianta che un giardiniere per varie ragioni non vuole intorno. Forse letteratura indica il contrario: ogni tipo di scrittura che per varie ragioni viene sovrastimato”.9 In ogni caso appare chiaro che non vi sono risposte assolute, rapide o semplici nemmeno per una delle più eminenti personalità in materia.
Magari il cuore del problema non sta tanto nella mancanza di risposte quanto nell’inadeguatezza delle domande; si fa necessario pertanto un nuovo tentativo di inquadrare il discorso. Piuttosto che guardare a ciò che la letteratura è, sarebbe più fruttuoso esaminare ciò che la letteratura fa. Anche se quest’approccio è stato oggetto di dibattito pubblico perlomeno dai tempi di Aristotele e non offre alcuna risposta facile né immediata, offre per certi versi una prospettiva concreta che ci dà la possibilità di avviare un’indagine che non si impantani nel territorio della semantica. Senza immergersi nelle rigidità della critica letteraria o dell’estetica filosofica, possiamo esplorare alcune tra le funzioni primarie della letteratura, identificate nel corso della storia.
La letteratura codifica l’esperienza
Forse questa dinamica, che fa eco al ragionamento di Tolstoj, secondo cui il proposito della letteratura sarebbe quello di promuovere la fratellanza umana,10 è spiegata al meglio da Robert Pirsig, che scrisse nella sua celebre autobiografia-romanzo Lo Zen e l’Arte della Manutenzione della Motocicletta, come il mito, il corpo di leggende e storie che formano la coscienza collettiva, “unisce le nostre menti come le cellule nel corpo umano”.11 Pirsig spiega che “ogni bambino che nasce è ignorante quanto un cavernicolo. Ciò che impedisce al mondo di ritornare a ogni generazione alla condizione neanderthaliana è la continuità del mythos”.12 Non percepire questa unità, pensare che qualcuno possa accettare o rifiutare il mythos come gli pare, significa non capire davvero ciò che rappresenta.
In altre parole, Pirsig sta affermando che la comprensione del mondo per ogni persona è modellata in misura non trascurabile dalle innumerevoli storie, leggende, aneddoti – reali o di fantasia – che legge, sente o vede. Un bambino che vive in un paese del Kansas, per esempio, sa dell’esistenza delle scimmie, delle balene, degli oceani, delle astronavi, anche se non si è mai avventurato a più di qualche chilometro da casa, né può averne fatto esperienza in prima persona.
Nello stesso modo in cui Leonardo da Vinci e i fratelli Wright sono stati abili a concepire il volo umano grazie alle storie di Icaro e Dedalo, la letteratura permette al bambino di immaginare l’esistenza su un altro pianeta, le condizioni di vita in un gulag o una razzia da parte di un branco di lupi. Ciò perché ogni essere umano attinge a un comune bacino letterario per cominciare a costruire il senso di un mondo altrimenti caotico. Questo serbatoio contiene – oltre al vasto mosaico di immagini, storie e personaggi – le parole, le espressioni e gli idiomi che modellano e definiscono la coscienza umana. Sappiamo, per esempio, come parlavano gli Americani espatriati in Europa negli anni Venti del Novecento, quali erano i loro valori e le loro paure grazie a libri come Il Sole Sorgerà Ancora di Ernest Hemingway o Tenera È la Notte di Francis Scott Fitzgerald. Analogamente, in futuro, gli studenti universitari potranno meglio comprendere le espressioni, gli eventi, i modi di vivere e i conflitti dell’inizio del XXI secolo grazie alle opere di Toni Morrison, di Cormac McCarthy e del rapper Eminem.
Una diversa prospettiva dello stesso concetto si ritrova nell’opera capitale di Sigmund Freud, L’Interpretazione dei Sogni, del 1899. Qui, il padre della psicanalisi discute di come il dramma di Sofocle, Edipo Re, abbia risonanza in ogni persona, che ne sia o no consapevole, perché si tratta di una storia universale e intimamente personale allo stesso tempo. Scrive Freud:
Se Edipo Re riesce a scuotere l’uomo moderno non meno dei greci suoi contemporanei, la spiegazione può trovarsi soltanto nel fat...