I. GENESI
La casa era al piano terra e dava sul mare. Il mare era nella casa e la casa era il mare. Un mare in tempesta che sbatteva a destra e sinistra le ondate di donne indaffarate e uomini eccitati. Le loro parole, pronunciate tutte insieme si accavallavano proprio come fanno le creste d’acqua spumosa nell’incontro in prossimità di una secca. Il silenzio dopo le grida, il volto di un padre felice, un nonno al settimo cielo e una nonna, Marianna, che non poteva ancora sapere che quel nipotino, Salvatore Antonio, una ventina d’anni dopo, le avrebbe dedicato la sua prima canzone incisa su un disco, ricambiandola di tutto il suo affetto. È il 29 ottobre del 1950 e Salvatore Antonio viene dato alla luce a due passi dall’immenso, profondo mare in via Cristoforo Colombo, a Crotone, sul pianeta Terra. La guerra era finita da poco e la città, che fino al 1928 si chiamava Cotrone, a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 era diventata il centro industriale più importante della Calabria. Nonostante questo, molte persone vivevano ancora nelle baracche e c’era tanta povertà. Le industrie, infatti, avevano creato posti di lavoro per molti ma benessere solo per pochi. Di sicuro, continuavano a disseminare nell’ambiente veleni terribili e questo la popolazione lo avrebbe pagato a caro prezzo negli anni a venire. Salvatore Antonio cominciò ben presto a sentirsi chiamare con un più facile e spontaneo “Rino”, abbreviazione di Salvatorino.
La terra in cui trascorse i suoi primi dieci anni era piena di potenzialità, un albero carico di frutti che però era vietato raccogliere. C’erano impianti chimici alimentati dall’energia idroelettrica della Sila e anche industrie metallurgiche, meccaniche e alimentari. L’acqua corrente nelle case, però, rimaneva un sogno. Lì, come avrebbe poi cantato Rino, le persone non avevano l’acqua corrente, non avevano niente. Si poteva respirare l’aria del mare, sentire il profumo degli agrumi, al sole era permesso scaldare, al mare bagnare, ma ai frutti della terra non era permesso nutrire tutti. Il porto di Crotone era molto attivo, le campagne producevano vino, olio, frutta e si allevava il bestiame; era anche molto diffusa l’apicoltura che dava miele e cera. Rino avrebbe continuato per tutta la vita a interessarsi del suo Sud, a studiarlo minuziosamente durante i suoi viaggi, leggendo, ascoltando le testimonianze della gente e gli avrebbe dedicato alcune canzoni; la prima in assoluto fu Ad esempio a me piace il Sud: “Guarda, [...] è stata una delle prime canzoni che ho fatto, l’ho scritta dopo un viaggio in autostop nel Sud… [...] Il Sud mi interessa più da un punto di vista politico che da un punto di vista nostalgico, perché ho sempre vissuto a Roma, quindi non mi è rimasta neanche la nostalgia dell’emigrato. Però m’interessa dal punto di vista politico, perché il Sud rappresenta [...] all’ennesima potenza il sottosviluppo italiano… È così. Cioè, se tu vai al Sud, l’acqua veramente manca. Ma non manca perché al Sud l’acqua non arriva, perché non ci sono i fiumi, manca perché c’è una volontà politica di non far arrivare l’acqua al Sud. E quindi si ricade sempre in questo problema politico. Mostrando queste immagini anche turistiche, [...] m’interessa mischiare il turismo, la natura, con la situazione politica. Infatti, le lampare che rispecchiano le loro luci sul mare, quello può essere anche un fatto folkloristico, come una sagra del pesce. Mentre il fatto del contadino che fa il vino e non riesce a berlo, quello è un fatto chiaramente politico. Perché non c’è nessuna legge naturale che t’impedisce di bere il vinoˮ.
A circa due anni di età Rino venne ricoverato in ospedale per un problema di lieve entità. Era sdraiato su un lettino quando, dalla radio di una paziente, partì la canzone Ufemia e lui cominciò a muoversi seguendo la musica come se la conoscesse da sempre. Un primo episodio rivelatore...
Maria, la mamma di Rino, oltre a lavorare, doveva prestare assistenza al marito Domenico le cui condizioni di salute non erano buone. Così, a badare al piccolo era soprattutto la nonna Marianna. A nove anni non ancora compiuti Rino la dovette salutare per seguire la famiglia che si era trasferita a Roma: un evento abbastanza traumatico e doloroso che si sommò ai disagi sofferti a causa delle condizioni di vita modeste e della salute cagionevole oltre, naturalmente, alla situazione di continua preoccupazione in cui la sua famiglia era costretta a vivere a causa della cardiopatia del papà.
II. Roma
Giunto nella capitale, Rino cominciò a frequentare la quinta elementare presso la scuola “Don Bosco” di Montesacro. L’inserimento non fu facile, il nuovo venuto faceva fatica ad ambientarsi e a fare amicizia con i compagni in quanto proveniente da un mondo totalmente diverso dal loro; gli altri bambini non parlavano la sua lingua, non avevano lo stesso accento e il suo modo di esprimersi. Rino, come racconta il suo compagno di banco Michele Paulicelli, si sentiva piuttosto spaesato. Anche Michele proveniva dal Sud e tutti e due ancora ignoravano di avere in sorte un futuro da compositori; furono compagni di banco in quinta elementare e in prima media. Michele, quando era più piccolo, si era già costruito una chitarra da solo ma sebbene anche in lui, come in Rino, fosse presente una forte passione per la musica, in quel momento aveva problemi più urgenti da risolvere. I due amici erano spesso presi in giro dagli altri perché considerati i due “paesani” della classe, “quelli che venivano dal Sud”. Michele ricorda benissimo il papà di Rino, Domenico, che spesso lo andava a prendere: “Un uomo di poche parole, salutava e basta”. Rino gli spiegò che il papà stava male e per questo non lavorava e non doveva agitarsi. Michele e Rino si erano ritrovati all’ultimo banco, esclusi ma anche, in qualche modo, più in vista in quanto le loro abitudini diverse suscitavano la curiosità dei compagni. Avevano, per esempio, nel fare le operazioni, un modo completamente differente di incolonnare i numeri e per questo, quando erano alla lavagna, facevano ridere tutti, mentre loro non riuscivano a spiegarsi la reazione dei compagni e assumevano per questo strane espressioni che aumentavano ancora di più l’ilarità della classe. Dopo la prima media e due anni di questa vita, Rino accennò a Michele che l’anno seguente sarebbe andato in una scuola di preti a Narni, un seminario. Il compagno, lì per lì, capì che si voleva fare sacerdote ma questo gli sembrò strano perché non gliene aveva mai parlato prima. I due si persero così di vista ma il caso volle che, molti anni più tardi, si rincontrassero alla It, una casa di produzione legata alla RCA: “Ascoltavo questo ragazzo parlare con la sua inflessione che non perse mai completamente”, ricorda Michele, “e mi chiedevo perché mi fosse così familiare. A un certo punto gli domandai se per caso non si chiamasse Gaetano e lui subito: “Sì… ah, ma te sei Paulicelli! Ti ricordi di quando la professoressa Arbib…» e via con i ricordi dei nostri trascorsi scolastici!” La professoressa di italiano, che si chiamava Arbib, li aveva presi a benvolere mentre quella di matematica li odiava talmente tanto che Michele non ne ricorda più neanche il nome.
In ogni caso, dopo aver frequentato la quinta elementare in piazza Monte Baldo alla “Don Bosco” e l’anno successivo la prima media alla “Monte Sacro” in piazza Sempione, nell’edificio che oggi ospita gli uffici della circoscrizione, nel 1962 Rino partì per l’Umbria dove era stato deciso che avrebbe dovuto terminare le scuole medie alla Piccola Opera del Sacro Cuore. Così, senza aver avuto nemmeno il tempo di ambientarsi in una nuova città, già partiva per un’altra. Sarebbe tornato a casa solo sporadicamente, soprattutto in occasione delle feste. La prima casa romana della famiglia Gaetano era nei pressi di piazza Conca d’Oro, lì dove parallelamente, a soli duecento metri di distanza, l’Aniene scorre rapido e silenzioso inoltrandosi nel Parco delle Valli. Tutti i palazzi della zona sono stati costruiti durante il secondo dopoguerra su una piana alluvionale del fiume e le falde acquifere hanno pian piano eroso il terreno sotto le fondamenta, per cui diversi palazzi sono inclinati e la pendenza è visibile a occhio nudo. Sui motivi per cui Rino fu mandato a studiare in Umbria ci sono pochi dubbi. Infatti, come riferito da chiunque abbia vissuto a Roma in quel periodo, a Narni venivano mandati i figli delle famiglie maggiormente afflitte da problemi economici.
III. NARNI
Nel 1977 Rino dichiarò: “Politicamente sto a sinistra, però scrivo sempre canzoni d’amore. Nel senso che, se non ami una cosa, un argomento, non ci puoi scrivere niente sopra”. Quindi, tutto ciò che scriveva, anche le cose più dure, proveniva sempre da un sentimento d’amore verso il prossimo e verso il suo paese. Forse anche verso i suoi tutori in quel di Narni… La Piccola Opera del Sacro Cuore era un istituto gestito da sacerdoti missionari; tra questi c’era padre Simeone. Ecco che cosa ci ha raccontato sul rapporto che Rino aveva con la fede quando era adolescente: “Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, ovvero che Rino avesse un concetto religioso molto scanzonato, lui fu, in quegli anni, uno dei ragazzi che mi accompagnarono con più frequenza, per aiutarmi, alla parrocchia di San Cassiano, una piccola frazione di Narni dove andavo a celebrare messa. Rino veniva con me la domenica pomeriggio ma spesso anche durante la settimana. Ricordo che partivamo in due sulla mia Lambretta per andare a preparare la celebrazione della liturgia e questa era una cosa che lo rendeva molto responsabile. Per questo, insisto nel dire che Rino era un ragazzo abbastanza attivo nella fede. A lui piaceva tanto passeggiare, parlare, e i suoi discorsi erano sempre pieni di domande. Ad esempio, era molto curioso di conoscere i particolari e il funzionamento della vita sacerdotale”.
Padre Simeone ci ha raccontato che quando la mamma e il papà andavano via, Rino soffriva moltissimo, soprattutto per il distacco dalla madre: “Ricordo che lui sentiva dentro di sé un gran bisogno dei rapporti famigliari e aveva quindi un forte legame affettivo con la mamma, oserei dire quasi viscerale. Quando lei veniva a trovarlo, il successivo distacco era sempre un momento doloroso. Rimaneva a lungo aggrappato alle sbarre del cancello a guardarla mentre si allontanava e si vedeva chiaramente che quelli per lui erano momenti di grande sofferenza che, però, grazie alla presenza dei compagni, riusciva sempre a superare. Quanto alla scuola, beh, la sua materia era storia mentre non poteva tanto soffrire il francese. Aveva una grande passione per la letteratura: ricordo che recitava con enfasi la poesia Alla luna di Giacomo Leopardi. Credo che fosse una poesia che Rino sentiva molto”.
In collegio, i ragazzi si alzavano presto e andavano in chiesa per dire lunghe preghiere tre volte al giorno. Non sempre, ma ogni tanto tornavano a casa per le feste e, una di quelle volte, quando Rino...