La paga
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La paga

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Quali sono le conseguenze dello spaventoso baratro che separa i bonus di chi gestisce fondi d'investimento e gli stipendi dei dipendenti? Qual è il futuro del rapporto tra paga, voto, mercato e democrazia? C'è il rischio che le politiche neoliberiste escludano dalla vita democratica milioni di persone che subiscono la dipendenza crescente del lavoro dalla finanza pagandone, unici, i costi dei fallimenti. Il lavoro è quindi sotto assedio, è sempre più difficile difenderlo tra chi non si fida più dei sindacati e chi cerca di spingerli sempre più indietro. Inoltre, le politiche neoliberali stanno erodendo alcune garanzie fondamentali, come il diritto alle cure sanitarie attaccato da chi vuole affidarle, come negli Stati Uniti, al mercato, aprendo scenari inquietanti.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788865760802
1. Il call center dell’universo
Quando la Cina ha svelato le immagini del rito di inaugurazione delle sue Olimpiadi è avvenuto qualcosa di grandioso e strano. Si è detto che mai giochi olimpici sono stati aperti in modo tanto insolito e spettacolare, ed è vero. Si è detto che la sequenza di effetti visivi è stata molto bella, sorprendente, diversa. A questo punto però i giudizi si sono fatti generici, hanno puntato sul lato estetico, su sincronizzazioni, effetti sonori e colori. Dopo aver letto molto, visto molto e ascoltato molto attraverso stampa e televisioni del mondo e rivisitazioni in rete, l’impressione è che i commentatori si siano tenuti a distanza, come in prossimità di una grande fiammata, o di una voragine causata dall’apertura improvvisa di un enorme sipario. Il controllo ferreo dell’evento ne garantiva la perfezione, ma creava sbigottimento negli spettatori di tutto il mondo.
La Cina, con i suoi millenari segreti di dinastie, rituali sociali e pratiche di potere, per la prima volta ha mostrato qualcosa di sé, si è rivelata.
Per la prima volta ha voluto farci vedere – nel più efficace dei modi, nel più bello e nel più meraviglioso dei modi – come si intrecciano i fili del suo lungo passato, in modo da arrivare a oggi. Una forza che diventa bellezza attraverso un immenso gioco di controllo dei numeri che significa annuncio, potenza, minaccia.
La minaccia arriva – persone e fuochi e improvvise visioni dall’alto – così avvolta nella sorpresa da essere scambiata per meraviglia. La meraviglia scatena l’ammirazione. È già accaduto altre volte – anzi è tipico – ammirare la rivelazione della potenza. C’è un rapporto stretto e antico fra potenza e bellezza, e quel rapporto è stato minuziosamente calcolato nella concezione, regia, esecuzione del grande gioco.
Tutto ciò ha provocato emozione, e l’emozione scatena ricordi, stranamente sconnessi e di natura diversa, ma curiosamente concordi. Ricordi non come chiave di interpretazione, ma come segni e risvegli provocati dalla meraviglia.
Uno è lo scavo aperto dei guerrieri di Xi’an, le 8000 statue di terracotta di fanti e cavalieri – di straordinaria bellezza e di proporzioni perfette, sepolte in un’immensa tomba insieme all’imperatore – scenario che lascia sempre con il cuore in gola. Uno è la piazza del discorso di Hitler a Norimberga, la fiaccolata, la perfetta sincronia delle truppe e della folla, delle ovazioni ritmate. Uno, ancora, è la maestosa parata delle razze prima dell’apertura di tornei e battaglie mortali fra i guerrieri dell’impero di Ming, nell’indimenticata storia a fumetti di Flash Gordon, scritta e disegnata dal profetico Alex Raymond. So che sto montando insieme in un’unica sequenza scene diverse, ma a volte non è un errore lasciare briglie sciolte alla memoria.
Ciascuno dei tre ricordi assume un suo senso mentre cerco di mettere ordine nelle emozioni del grande spettacolo cinese che, sostengo, sia molto più di uno spettacolo. Le statue di Xi’an sono tutte uguali, tutte belle, tutte giovani, tutte sacrificabili a qualcosa che non è la gloria personale dell’imperatore, ma è quella della Cina con la sua vastità e la sua disponibilità infinita di persone uguali, belle, giovani, sacrificabili. Non per crudeltà di un imperatore, ma perché così funziona un impero.
La piazza del discorso di Hitler evidenzia come quantità, disciplina, potenza siano un annuncio drammatico da prendere sul serio, senza scambiare il primitivismo militare in scena a Norimberga con la raffinata concatenazione di tempo, spazio, forza, corpo e mente del computer.
L’impero di Ming sottolinea che la grande sfida dell’atleta cinese è ormai lontanissima dall’impegno estremo ma senza vincoli dell’atleta greco, il più libero, il più individuale fra gli uomini.
Questo gioco grandioso, collettivo, all’ultimo sangue, è adesso sincronizzato con i motori di un’economia fondata sull’armonia, sul numero e sulla potenza. Veder sfilare il «carro» dei bambini delle diverse razze dell’impero è stato un momento di struggente tristezza sia pure mischiata all’ammirazione per uno spettacolo di una bellezza rara, persino eccessiva. Non era un carro trionfale, eppure i bambini sembravano piccoli, splendidi prigionieri di un immenso sistema interiorizzato dalla nascita: Confucio e il computer.
Alcuni anni fa ho pubblicato un libro sulle conseguenze sociali dell’informatica, Confucio nel computer. Non pensavo alla Cina, pensavo a ciò che stavo sperimentando e verificando mentre vivevo in America. Sostenevo che, tra gli strumenti inventati in ogni tempo, il computer non era quello che avrebbe assecondato l’individuo più da vicino nel percorrere la strada liberamente scelta.
Con i computer si intrecciano le maglie di una grande armonia che trasmette impulsi su una scala universale mai prima conosciuta. Il sistema così creato assorbe e sprigiona energia collettiva attraverso un comportamento «insieme», in cui il gruppo prevale sull’individuo in modo dominante. In questo intreccio percepito come spontaneo, in questa armonia collettiva vissuta come realizzazione di sé, mi era sembrato allora di riconoscere la cultura confuciana. Per Confucio l’armonia è comportamento buono in quanto comune a tutti, comportamento realizzabile soltanto attraverso l’armonia stessa. Che cos’è un call center, con i suoi giovani lavoratori precari, disciplinati e ben armonizzati, se non un «Confucio center», in cui conta solo il lavoro comune, ai fini di un risultato collettivo?
L’inaugurazione dei giochi olimpici di Pechino delle ore 8.08 di sera del giorno 8, del mese 8, dell’anno 2008 è apparso come il più straordinario e grandioso call center dell’universo. L’inaugurazione di un mondo in cui si è addestrati e pronti, con corpi simili e con lo stesso rigoroso e perfetto training, a colpire in un certo modo con gesti semplici, antichi e perfetti, che lo strumento nuovo, il computer, trasforma in un colossale lavoro produttivo.
Nel grande show a Pechino sul futuro del lavoro c’è chi batte i tamburi, chi passeggia in cielo, chi compone la sfera terrestre, chi la sorvola, chi scompare nell’ombra e poi torna a risplendere in un succedersi perfettamente calcolato dei secondi. L’organizzazione ha voluto dirci quasi esplicitamente di essersi attenuta a Confucio, alla sua religione, alla sua filosofia e alla sua politica.
Il richiamo a Confucio serviva per rendere percepibile l’aspetto più sorprendente, più nuovo, più rivelatore del mae-stoso spettacolo. Questo: qui ci sono migliaia e migliaia di persone insieme, qui c’è un’armonia mai prima immaginabile, che propone come esempio l’universo, ma nessuno, qui, compie lo stesso gesto. La segmentazione della diversità è, allo stesso tempo, individuale e di massa, misurata alla perfezione in ogni istante, in un margine di tempo che in questo spettacolo-esempio è di ore, ma può benissimo durare tutta la vita. Ciascuno compie un gesto, un suono, un passo, dissimile da quello dell’altro; i movimenti, con il subito prima e il subito dopo, costruiscono una sequenza totalmente individuale, immensamente armoniosa, e producono un sincronizzato effetto di potenza. Si manifesta la grande rivelazione, l’aggancio fra una filosofia secolare e lo strumento degli ultimi anni: Confucio e il computer. Il confluire di tante forze individuali in cui ciascuna si realizza diventando tutto, e perciò esiste.
Armonia è la parola insieme rassicurante e terrificante. Definisce il risultato grandioso e stabilisce il percorso senza deviazioni con cui si raggiunge questo risultato. L’armonia non lascia spazio ad alcuna forma di disordine, ad alcuna violazione anarchica, seppur minima, delle regole.
Si risale di qui al grande contenitore, l’autorità. Nel momento in cui si realizza il più alto risultato coreografico del lavoro collettivo – fondato su autorità e armonia, regolato nei minimi dettagli – in quel momento l’autorità del gruppo e il suo controllo totale su ciascun frammento di vita individuale mostrano il loro formidabile risultato.
Questo risultato non può che portare esaltazione, orgoglio, benessere a chi ha saputo farne parte, perché ciascuno non è una piccola frazione di quel risultato ma, secondo il credo confuciano, tutto quel risultato. Oggi quel tutto è possibile, immediato, visibile, capace di imporre la grandezza in tutta la sua portata perché il computer ha permesso di realizzare un progetto finora solo sognato. Il resto è disordine.
La grande scena dell’apertura dei giochi annuncia che l’autoritarismo cinese non è alla fine, ma al principio del suo dominio. Soprattutto sul lavoro. Ciò che abbiamo visto, in parte film, in parte gioco astratto di forme e di luci, in parte performance da fantascienza, in parte richiamo abile e ricco di antichi sogni, grandiosi ma pretecnologici, non è metafora della realtà, ma rappresentazione della realtà. Della realtà potrebbe far parte la guerra, ma nello stadio a nido d’uccello l’8 agosto 2008 non c’era un messaggio belligerante. C’era piuttosto lo sfarzoso annuncio dell’enorme balzo in avanti con cui il computer connette gli individui di ogni età (mai così tanti bambini dentro le maglie del grande spettacolo-realtà) attraverso tutti gli stadi della formazione e li rende tutti in grado di produrre a livello perfetto, in quantità pari alla moltiplicabilità di quei gesti di produzione (come il computer), cioè in infinita misura.
Confucio ha trovato il computer e il computer – se l’autorità è perfetta e il gioco della partecipazione fanaticamente spontaneo – dà il risultato immenso di un modo di vivere, apprendere, lavorare, produrre prima inimmaginabile. La carcassa del marxismo giace sul bordo di una strada ormai abbandonata. Ma l’allegra sfida al capitalismo e alla sua presunta ossessione democratica (un uomo, un voto, un lavoro, un premio) è ormai lanciata. Si sono aperti i giochi olimpici. Ma anche i giochi di sopravvivenza nel futuro. Il futuro del lavoro.
2. Il salario della paura
Il caso italiano è esemplare. In ogni assemblea di Confindustria, in ogni convegno dei Giovani Imprenditori (che in Italia sono in gran parte figli di industriali e dunque rappresentanti di dinastie) per anni si è denunciato l’alto costo del lavoro, presentato come il peggior ostacolo alla competitività. Solo molto più tardi e senza clamori, senza la minima autocritica da parte dei focosi antagonisti del lavoro, è diventata nota e pubblica la verità: i salari italiani sono da decenni i più bassi d’Europa.
Eppure presidente, responsabili dell’ufficio studio e notabili di Confindustria sono considerati dai media le voci più autorevoli e competenti sulla questione, mentre i media dipingono i sindacati a turno come infidi, settari, estremisti. Sugli stessi sindacati, rimasti ormai isolati nella difesa dei lavoratori, vengono riversate accuse di privilegio, di improprio vantaggio, e se ne reclama la tassazione.
«Io so benissimo quanto sia seria la questione dei salari. Ma è altrettanto seria quella della produttività. E non possiamo più permetterci di considerarle variabili tra loro indipendenti.» Questo concetto viene ripetuto da decenni dagli industriali italiani nelle circostanze più diverse, in epoche di boom e di recessioni, di crisi (planetarie o locali) e di assestamenti, a volte in occasione della presentazione di bilanci chiusi con risultati straordinari. La frase qui ricordata, in particolare, è stata pronunciata da Emma Marcegaglia, figlia di imprenditori, presidente dal 2008 di Confindustria, già presidente dei Giovani Imprenditori, in un’intervista rilasciata a Raffaella Polato, sul Corriere della Sera del 6 settembre 2008.
Invano la giornalista richiama al presidente: «Inflazione al 4 per cento, consumi in picchiata, produzione industriale in retromarcia, Pil fermo», un quadro economico allarmante la cui responsabilità, se non è delle imprese, lo è anche meno dei lavoratori e di chi li rappresenta. Risponde imperterrita la Marcegaglia:
Ma non è una crisi partita da qui. L’Italia condivide gli effetti delle turbolenze internazionali [...]. Ma la verità è che l’Italia è sempre stata più lenta a uscire dalla crisi. Se vogliamo evitare che anche questa volta si ripeta il copione, serve un’assunzione di responsabilità da parte di tutti. L’obiettivo di aumentare, insieme, produttività e salari, fa parte del percorso che Confindustria ha iniziato peraltro con Luca Cordero di Montezemolo. È un’occasione fondamentale e oggi possiamo raggiungerla, favoriti dalle condizioni create dal governo con la detassazione degli straordinari e dei premi variabili: gli stessi soldi, dati a livello aziendale, invece che nazionale, valgono ora il 20 per cento in più. Non c’è aumento contrattuale che possa compensare questo positivo effetto fiscale.
Da notare il linguaggio in stretto politichese che, a forza di convegni con i ministri, fa irruzione in Confindustria, in particolare nel suo presidente che si mostra del tutto privo di visione globale, molto vicina al populismo confusionario del governo.
Poi il presidente senza occhi, senza visione, senza un’idea del futuro degli imprenditori italiani viene interrogato su come valuti la politica economica del governo italiano, cioè di un paese così lento, così poco reattivo alle crisi. Notare che siamo a pochi mesi dalla deflagrazione della recessione globale.
Il giudizio è positivo sul contenimento del disavanzo, sulla manovra triennale, sulle politiche per il lavoro, sul rilancio del nucleare, sulla semplificazione della burocrazia [...]. Non ci è piaciuta la mancata liberalizzazione dei servizi pubblici locali. E non ci piace una pressione fiscale sempre ai massimi storici.
Nessuna delle cose che meritano il suo «giudizio positivo» è avvenuta e se fosse avvenuta, come il «ritorno al nucleare», sarebbe immensamente costosa e rischiosa. Si è trattato solo di annunci, decisioni mancate, elencate con l’automatismo da intervistato di professione. I provvedimenti non hanno corrispondenza nella realtà, ma, positivi o negativi, sono rimasti sospesi nel vuoto. Annunci perentori e nient’altro.
L’intervistatrice cerca di illuminare il paesaggio di macerie con una domanda sulla scuola. Anche questa volta la risposta dell’imprenditrice, che è anche madre, non tocca terra:
Abbiamo il numero di insegnanti più alto d’Europa. Però la meritocrazia non esiste. Se questo è l’obiettivo del ministro Gelmini, condivido: meno maestri e professori, ma pagati meglio e valutati, forse miglioreranno la qualità.
Sarebbe stato più serio e più civile rispondere: «Non so nulla di questa materia. So di ricoprire un posto per il quale non dovrei solo partecipare a convegni e assemblee sul costo del lavoro e sui tentativi di tagliarlo, ma occuparmi di ricerca, innovazione, competizione, esportazione, motori della crescita come la scuola. Di cui però non so niente». Il fatto è che al nostro «eroe» (trattato al maschile, come «presidente») premeva avallare due concetti. Il primo: licenziare è in sé un bene. Marcegaglia non sa se ci sono troppi maestri e se ha valore il taglio di 87mila cattedre. Ma nel suo mondo «sfoltire» è sempre una buona idea: aumenta il potere dei capi e la paura dei sottoposti. Il secondo: licenziare introduce la parola «merito», fondamentale in un’industria di padri e figli, in cui gli altri devono meritare anche la più piccola parte di quello che loro hanno semplicemente ereditato.
Un mondo di sottocultura, che sente gratitudine profonda e istintiva per il profeta Renato Brunetta, il primo a scoprire la turpe razza dei fannulloni.
Più che alla sociologia del lavoro, i fannulloni sembrano far parte di personaggi della commedia all’italiana. Sono mostri che, nonostante l’eroismo del ministro per la Pubblica amministrazione e l’innovazione, Renato Brunetta, n...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Introduzione. La fabbrica a luci spente
  3. Premessa. Il lavoro, la salvezza
  4. 1. Il call center dell’universo
  5. 2. Il salario della paura
  6. 3. L’impero della solitudine
  7. 4. Dove muore il lavoro
  8. 5. La fabbrica dei fannulloni
  9. 6. Purtroppo l’azienda preferisce personale più giovane
  10. 7. Il tempo vuoto
  11. 8. La prostituta in questione
  12. 9. La paga o la vita
  13. 10. Il posto
  14. 11. La paura della paura
  15. 12. Alla cieca
  16. 13. La grande fuga
  17. 14. Più Stato, più mercato
  18. 15. Uguali a chi?
  19. 16. Chi ci salverà
  20. 17. Qualcuno ha detto «pensioni»?
  21. 18. Il giorno dopo
  22. 19. Ci sarà un mondo