Black Out
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Black Out

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Black Out è un diario di viaggio in un mondo ossessionato dallo spettro della "grande penuria" di oro nero. È una testimonianza diretta di ciò che è stato detto e fatto per una rivoluzione verde prossima ventura. È un documento sulle reazioni alle proposte a volte improbabili, spesso irrealizzabili per un'alternativa eco-friendly al petrolio. È un illuminante saggio in cui Serge Enderlin ha analizzato le interconnessioni tra risorse energetiche, sviluppo (o inviluppo) economico e strategie politiche intervistando i produttori d'energia in tutti i settori, politici, studiosi e ambientalisti, raccogliendo i dati più recenti sulla querelle energetica ed esponendoli in un linguaggio chiaro e ironico, né apocalittico, né ideologico. Soprattutto, ha smontato impietosamente i falsi miti e i miraggi che perennemente risorgono sull'argomento, da quella dell'etanolo ricavato dal mais, alla scoperta d'impraticabili giacimenti d'oro nero al Polo Nord fino all'ultima moda, anche italiana: la riscoperta del nucleare. Senza tacere gli spropositati progetti di ricerca di energia alternativa che vedono tra i principali paesi impegnati niente meno che gli Emirati Arabi. Un testo essenziale per scoprire come stanno davvero le cose sulla terra.

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Informazioni

Anno
2010
ISBN
9788865760413
1. Cina
L’abisso energetico
Attesi da un intero popolo già da anni, i Giochi olimpici di Pechino, nell’agosto del 2008, manterranno le promesse per quanto riguarda la Cina. Questa nazione è infatti in prima fila tra le potenze dello sport e rastrella più medaglie d’oro degli Stati Uniti. I suoi atleti sono emersi dal nulla per distinguersi in innumerevoli discipline, dalla scherma al canottaggio e al nuoto, che non erano mai state le loro specialità. L’obiettivo era stato fissato dalla dirigenza del Partito: questi Giochi cinesi dovevano consacrare, a tutti i costi, compreso l’allenamento militaresco in stile campo di lavoro e il doping industriale, il ritorno dell’Impero di Mezzo al tavolo delle superpotenze. L’importante non era partecipare, ma vincere; non era una questione di vita o di morte, ma molto di più. Le gare negli stadi avevano come finalità l’affermazione geopolitica di una certezza. Un giorno, forse domani, l’economia cinese scalzerà allo stesso modo quella del rivale americano. Tutto era stato previsto in questi termini. E tutto si è svolto come previsto.
E poiché la cornice ha quasi la stessa importanza delle prestazioni, i cinesi per l’occasione hanno trasformato il volto della loro capitale millenaria per imporla come punto di snodo essenziale del mondo di domani, brulicante, collegata al mondo. Mai, dall’epoca dei grandi lavori haussmanniani nella Parigi del xix secolo, una vecchia metropoli aveva conosciuto un simile sconvolgimento del proprio tessuto urbano in così poco tempo. Noi eravamo là qualche settimana prima dei Giochi.

Per amore del cemento

Ovunque sono in funzione scavatrici, gru, macchinari da costruzione; il ritmo quotidiano di Pechino è quello del martello pneumatico, un incessante «staccato». Nuove strade, nuove linee di metropolitana che raggiungono nuove stazioni. Nuovi quartieri (d’affari, residenziali), nuovi incroci. Un vecchio quartiere tutto stradine e case basse, i famosi hutong, dà fastidio? Viene raso al suolo, e gli abitanti traslocati in verticale in una lontana periferia. Ecco un luogo in cui l’espressione «forza pubblica» va presa alla lettera. E questa crescita a ogni costo, agevolata dalla natura autoritaria del regime, vera e propria dittatura del mercato, non si fermerà presto, nonostante la crisi mondiale: ci sono ancora più di 1000 miliardi di dollari di riserva nelle casseforti della Banca centrale della Cina. Gli esperti ritengono che il rallentamento generale dovrebbe tradursi, da queste parti, in un ritorno al di sotto della barra del 10% di crescita annua, per la prima volta da oltre un decennio. Per gli standard cinesi, è già recessione.
Tutti gli architetti più quotati sono stati invitati dai miliardari rossi a dotare Pechino di edifici la cui finalità è la testimonianza politica. Sono destinati a diventare icone universali, simboli dell’audacia e del potere della Cina nel xxi secolo. La lista, non esaustiva, include l’olandese Rem Koolhaas, che firma un grattacielo bislacco, più audace che elegante; due «corpi» di palazzi che cadono l’uno sull’altro, dando l’impressione di sostenersi a vicenda nella caduta, un abbraccio di cemento e acciaio. Per ora sono gli operai a cadere, a volte, dalle impalcature di bambù, per trovare la morte qualche decina di metri più in basso, immediatamente sostituiti da quelli che aspettavano il loro turno. L’opera è stata commissionata dalla televisione centrale Cctv. Un po’ a nord della Città proibita, gli architetti svizzeri Herzog & De Meuron hanno disegnato lo stadio olimpico, detto «Nido d’uccello» perché l’insieme di travi metalliche che ne costituisce l’ossatura fa pensare a un nido di rondine. Durante i Giochi è stato il teatro planetario delle imprese degli atleti. Il francese Paul Andreu ha concepito a Pechino un nuovo teatro dell’opera nazionale, una gigantesca goccia di vetro e titanio, a due passi dalla piazza Tiananmen e dal Comitato centrale del Partito. Il cantiere è in ritardo, unica eccezione all’implacabile regola di celerità che qui la fa da padrona: si lavora giorno e notte, con la pioggia e con il vento. Il guru britannico del modern style, Norman Foster, ha, dal canto suo, messo mano al terzo terminal dell’aeroporto, che è, come è ovvio che sia, il più grande del mondo (986mila metri quadrati in un unico blocco). L’enumerazione potrebbe continuare per ore, a simboleggiare la competizione dell’architettura prometeica e l’aspetto più evidente del grande salto in avanti cinese.
Tuttavia, malgrado l’esplosione degli immobili prestigiosi, quel che più colpisce a Pechino, quando vi si torna dopo quindici anni, è un nastro steso rasoterra. Quello, spesso lento quanto denso, della circolazione stradale. All’inizio degli anni novanta c’erano quasi solo biciclette, e le limousine nere con i vetri oscurati dei capi del Partito, le Zil sovietiche acquistate dai vicini. La bicicletta, vecchio luogo comune della massa dei lavoratori cinesi, talvolta si vede ancora, ma i suoi giorni sembrano ormai contati. Va detto che lanciarsi su due ruote in quel flusso rivela incoscienza o coraggio straordinario. Incoscienza polmonare, coraggio fisico.

La motorizzazione del popolo

Segnale esteriore di appartenenza alla classe media cittadina, l’acquisto di automobili è esploso. Ogni giorno duemila nuovi veicoli fanno la loro apparizione nelle strade della capitale. Lo smog è permanente, fastidioso, stancante. Perché l’accelerazione del motore cinese ha per corollario un inquinamento anomalo. Il governo municipale studia un sistema di circolazione a giorni alterni (targhe pari e dispari), come si fa a Singapore nei giorni di smog, ma non è certo che questa misura sia sufficiente. Servirà solo a dimezzare la circolazione, mentre il traffico è decuplicato in meno di dieci anni! Se dovessimo sintetizzare in una sola immagine il salto culturale cinese, sarebbe questa: la nazione più popolosa del pianeta, un quinto degli abitanti del mondo, è passata dallo status di pedone a quello di popolazione motorizzata in meno di due decenni. All’inizio degli anni ottanta, il «piccolo timoniere» Deng Xiaoping aveva lanciato il suo famoso appello «Arricchitevi!», e i cinesi hanno obbedito. Ne è emersa una grandissima potenza economica in poco tempo. Premete il tasto «avanzamento rapido» e assisterete alla compressione del tempo: dall’età preindustriale alla società dei consumi in meno di trent’anni…
Se un rapido giro di Pechino è già sufficiente a misurare fino a che punto «la Cina cambia il mondo», per citare il titolo del libro del giornalista Erik Izraelewicz, 1 sarebbe sbagliato parlare di sorpresa. Tutto, o quasi, è già stato detto sul fantastico boom della costa e delle sue megalopoli, da Pechino a Canton passando per Shanghai e Shenzhen, una nuova città nata circa vent’anni fa in un luogo deserto a nord di Hong Kong e che ora conta 7 milioni di abitanti – dato non ufficiale, probabilmente sono di più. Quella del censimento urbano, in Cina, è un’arte complessa.
Rechiamoci piuttosto nel cuore dell’impero. Destinazione la città di Chongqing, situata alla confluenza tra lo Yangzi e lo Jialing. Non avete mai sentito parlare di Chongqing? Non mi stupisce. In generale quasi nessuno, a parte i cinesi, la conosce. E se dovessimo ricordare i nomi di ognuna delle novanta città cinesi con oltre un milione di abitanti…

La porta dell’Ovest

Chongqing appartiene a un’altra categoria. Con i 32 milioni di persone che la popolano, la municipalità è semplicemente la più grande del mondo! È vero che la sua estensione è di 82mila chilometri quadrati, corrispondenti alla superficie dell’Austria e che è ancora possibile trovarvi, ancora non per molto, qualche sentiero di campagna, isole eroiche del passato nel mezzo di un oceano di cemento. Fino al 1997 Chongqing faceva parte della provincia dello Sichuan. Il governo di Pechino allora ha deciso di connetterla direttamente al potere centrale, con l’obiettivo politico di farne la capitale incontestata della Cina interna, la porta dell’Ovest. Anzitutto per convogliarvi una parte dei migranti che affollano la costa a causa del massiccio esodo dalle campagne: oltre 10 milioni di contadini ogni anno abbandonano le loro province per trasferirsi in città. Inoltre, e soprattutto, per imitare il modello della Chicago del xix secolo: l’esplosione demografica della metropoli sul lago Michigan, polo dell’industrializzazione a tappe forzate, aveva consentito di conquistare il Far West. E l’Ovest, per l’appunto, in Cina si sottrae ancora, in buona parte, alla rivoluzione economica che sconvolge la costa. Nelle intenzioni degli autocrati di Pechino, l’Ovest irredentista (Tibet, Xinjiang, Qinghai) deve diventare l’ultima frontiera della corsa verso il progresso, e Chongqing ne costituirà la «metropoli equilibratrice».
E funziona: ogni anno, mezzo milione di contadini arriva qui, un vero e proprio fiume umano, attratto dalle luci della città. È pur necessario dare loro alloggio e lavoro, perché sono venuti per questo: un lavoro qualsiasi, un salario qualsiasi. Perciò, a perdita d’occhio nuovi quartieri, torri verticali, foreste di grattacieli di vetro e acciaio, architetture scadenti e facili da costruire si innalzano a velocità folle. Zone industriali, autostrade, superstrade, tunnel, ponti, metropolitane di superficie, complessi sportivi spuntano dalla terra. Subito sono affiancati da centri commerciali con i loro parcheggi – simbolo principale della rincorsa all’Occidente – e subito dopo centri d’affari, un nuovo stadio. Le gru sono ovunque, migliaia di gru, di cantieri frenetici, nel caos dei camion e delle scavatrici.
La fisionomia dell’agglomerato cambia così in fretta che le mappe della città sono ristampate ogni due mesi! Ogni giorno l’economia locale cresce di 100 milioni di yuan (10 milioni di euro). Ogni giorno si contano 568 decessi e 813 nascite. Ogni giorno 1370 persone sbarcano dalla campagna per contribuire a questo esperimento di crescita unico al mondo. Chongqing è una metafora. «La Cina è il più stupefacente campo di sperimentazione per gli urbanisti» dice l’architetto francese Marie-Caroline Piot, responsabile della succursale cinese di AS Architecture-Studio, uno studio parigino e internazionale. «Mai nella storia città così grandi sono state ricostruite tanto rapidamente. La Cina sta portando a compimento la sua rivoluzione industriale in due decenni, quando in Occidente essa è durata un secolo e mezzo. Passiamo molto rapidamente dalla discussione iniziale ai modelli tridimensionali e alla realizzazione finale.» Di fatto, Chongqing ha un solo scopo: recuperare il tempo perduto. Appena uscito dall’aeroporto ultramoderno, il visitatore si imbatte in grandi cartelloni che valgono da professione di fede, da confessione esistenziale: «Il mondo deve conoscere Chongqing! Chongqing deve conoscere il mondo!». Al ritmo con cui vanno le cose, dovremmo esserci.
Prendiamo un appuntamento con Qiu Shujie, responsabile dell’ufficio urbanistico del governo municipale. «Vedrete, è facile da trovare» ci dice al telefono «siamo al terzo piano di un vecchissimo palazzo di quarant’anni almeno, l’unico all’interno di un parco circondato da nuove torri in costruzione.» In realtà, ci vuole un’ora perché il taxi riesca a trovare il posto. L’autista è un tipo del Sud, appena arrivato in città. Non sa i nomi delle strade, che in ogni caso spesso non ne hanno. Di questo diremo poi. In più, l’intero quartiere un anno fa non esisteva ancora.
Qiu Shujie ha 35 anni. È vissuto per un po’ in Germania, a Stoccarda, per imparare il funzionamento di un’amministrazione moderna («ci mandano all’estero per copiare i buoni metodi»). Parla inglese e tedesco, ricorda che Chongqing è stata per breve tempo la capitale della resistenza cinese del Kuomintang di Chiang Kai-shek, durante l’occupazione di quasi tutto il paese da parte dei giapponesi nella Seconda guerra mondiale. Una scelta tutt’altro che casuale: incassata nei profondi meandri dello Yangzi, la città presentava l’innegabile vantaggio di poter sfuggire ai bombardamenti aerei a causa della nebbia costante. Il caldo e l’umidità appiccicosa ci sono ancora. In più, si è aggiunto l’inquinamento. Ne riparleremo.
Qiu Shujie dice anzitutto, ma lo immaginavamo già, che «qui si rilasciano molto in fretta i permessi per costruire». Poi commenta le vedute aeree appese ai muri del suo ufficio («scattate da satelliti cinesi!»). Mostrano una città-piovra che estenderà ulteriormente i suoi tentacoli. «La penisola dello Yujong, al centro, è sovrappopolata, 3 milioni di persone in un perimetro minuscolo, perciò costruiamo al più presto nuovi quartieri sull’altro lato delle colline» dice.
«Quanti?»
«Una decina, forse di più, i piani cambiano spesso. È meglio parlare di nuove città, perché saranno quasi autonome rispetto al centro.»
«E procedete in fretta?»
«Abbastanza: 10 milioni di metri quadrati di nuove costruzioni ogni anno, e realizziamo 100mila appartamenti ogni anno, andiamo in fretta; non ci mancano certo le braccia.»
«E l’energia non è un problema?»
«Sì, il più importante. Spesso la corrente va via, perché la produzione di elettricità non tiene il passo con la domanda crescente. Consumiamo troppo rispetto alla rete elettrica.»
L’energia, in Cina, è un vero rompicapo, il tallone d’Achille dell’Impero di Mezzo, forse l’unica seria minaccia alla sua promozione annunciata al rango di principale potenza mondiale. I cinesi si tranquillizzano dicendosi che l’America è anch’essa in preda al panico energetico. Ma c’è una differenza di dimensioni: mentre gli Stati Uniti cercano con tutti i mezzi di lenire la loro dipendenza dal petrolio e iniziano proprio adesso a misurare il drammatico impatto sull’ambiente delle emissioni di gas a effetto serra (ma anche, forse, sulla salute economica del paese nel lungo termine), la Cina non può concedersi il lusso della riflessione: nuocerebbe alla sua rincorsa allo sviluppo.

Dipendenti dal carbone

La macchina impazzita della sua crescita economica ha fame di combustibile come non mai. Nel 2007 la Cina ha bruciato l’equivalente di 2,7 miliardi di tonnellate di carbone, i tre quarti di quanto gli esperti avevano stimato che avrebbe consumato nel 2020. In altre parole, è assai probabile che il paese avrà bisogno sin dall’anno prossimo della quantità di energia che le previsioni più pessimistiche assegnavano al 2020!
Questa gargantuesca fame di energie fossili si spiega con il tipo di crescita. Il paese non sta passando dall’età industriale a una società di servizi, come avviene nell’Occidente – che ha impiegato qualche decina d’anni per portare a termine questa mutazione. La Cina, invece, fa tutto in contemporanea. Si dota degli attributi della potenza moderna (autostrade, aeroporti, esercito modernamente attrezzato), senza dimenticare quelli che costituivano la forza delle vecchie potenze (fabbriche, capacità produttiva, conquista dello spazio): è la fabbrica del mondo, un gigante dell’industria pesante dai metodi inquinanti, il cui principale vantaggio è il costo irrisorio (o assurdamente basso, a seconda dei punti di vista) della manodopera. Ma al tempo stesso scommette tecnologicamente sul futuro e diventerà presto la principale concorrente delle nostre aziende di punta. Questa duplice evoluzione assorbe quantità gigantesche di capitali. La Cina può permetterselo: mai nessun paese aveva fatto registrare un attivo commerciale di tale portata. Ma essa consuma anche quantità incredibili di energia. E, a parte il carbone, non ne possiede a sufficienza.
Nel 1997, nel pieno del tornado finanziario che sconvolgeva l’Asia, il Comitato centrale a Pechino decise di dar vita a un programma di incentivi all’industrializzazione; crediti fiscali e sovvenzioni in grande quantità. Questo piano ha funzionato così bene che è impossibile oggi gestirne le conseguenze. Costruire è diventato un riflesso. Nel 1996 Cina e Stati Uniti detenevano ciascuno il 13% della produzione globale di acciaio. Dieci anni dopo gli Stati Uniti sono scesi all’8%, mentre la Cina è salita al 35%. Ma non è sufficiente: la Cina importa così tanto acciaio (dall’Ucraina, dalla Russia), che il prezzo di quest’ultimo è andato alle stelle nel 2006, prima di subire l’effetto della crisi. Allo stesso modo, essa produce ormai la metà del cemento e del vetro mondiali. Fabbrica un terzo dell’alluminio totale – e questo settore consuma, da solo, altrettanta energia del settore commerciale, compresi alberghi, ristoranti, negozi, centri commerciali, banche. Impressionante.
Per il momento è quindi ancora il carbone a «coprire», nell’85% dei casi, questo fabbisogno energetico. Ciò spiega in buona parte la nuvola grigio-giallastra che copre la totalità delle zone urbane. Si può vivere, permanentemente, o almeno sopravvivere, sotto una nuvola grigio-giallastra? Non si sa, nessuno ci aveva mai provato finora. Qui l’aria è talmente spessa, talmente carica di particelle, da trasmettere una sensazione fisica di pesantezza.
Chongqing non sfugge all’angoscia per la penuria di energia, malgrado la relativa vicinanza dell’immensa diga delle Tre Gole, 300 chilometri a valle dello Yangzi. Questa diga, i cui lavori sono durati dieci anni, è entrata in funzione nella primavera del 2007. Originariamente doveva soddisfare le necessità addizionali di energia per almeno 15 anni. Ma, a pochi mesi dalla messa in funzione, già non è più sufficiente a rispondere alla domanda. Il cantiere del mondo è un pozzo mangia-kilowatt.
Per fronteggiare l’emergenza, quindi, si brucia carbone, quantità allucinanti di materiale nero e grasso, come lo si fabbricava da noi oltre un secolo fa. Ogni settimana in Cina si inaugura una n...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Introduzione
  3. 1. Cina. L’abisso energetico
  4. 2. Canada. L’ultima frontiera del greggio
  5. 3. Peak oil. Guerra di cifre attorno a uno spettro
  6. 4. Geopolitica. La somma di tutte le paure
  7. 5. Carbone. L’avvenire radioso di un delinquente climatico
  8. 6. Biocarburanti. Dal miracolo alla truffa
  9. 7. Nucleare. Il come-back insperato
  10. 8. Danimarca, Spagna. Verso un mondo rinnovabile
  11. 9. Epilogo provvisorio. Idee verdi nel paese dell’oro nero
  12. Post scriptum: Postfazione all’edizione italiana
  13. Ringraziamenti
  14. Bibliografia