Americana. Storie e culture degli Stati Uniti dalla A alla Z
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Ci sono motel, grattacieli, diner, drive-in, fast food, ponti, parchi, battelli a vapore. Ci sono metropoli, ghetti, piccole città e città fantasma. Ci sono treni, taxi gialli e aquile solitarie. Ci sono orsi, orsetti, trote e alligatori. Ci sono toffolette, apple pie, hamburger e hot dog, ziti e zeppole. Ci sono cowboy, telepredicatori, wobblies e flappers, quaccheri e mormoni. Ci sono Peanuts, Simpson, Barbie, nerd, supereroi e ufo. Ci sono i re Elvis e Michael, Charlie Parker, Dolly Parton e Billie Holiday. Ci sono Hollywood e Broadway, Dallas e E.R., Walker Evans e Edward Hopper, Dean Moriarty, Huck Finn, Gatsby, Achab e Rossella. E poi femministe tenaci, capi tribù, intellettuali radical, esploratori coraggiosi, scienziati visionari… Ma anche ammutinamenti di schiavi, massacri di indiani, battaglie coloniali, guerre sanguinose, lotte operaie, movimenti di protesta, scandali politici, armi, stragi, catastrofi ambientali. L'avete riconosciuta? È l'America che avete sognato nei film, letto nei romanzi, ascoltato nel rock e nel blues, amato di un amore totale oppure odiato senza riserve: l'avete vista, fotografata, perduta, ritrovata. È l'America delle grandi città, certo, ma anche delle isole, dei luoghi isolati e sperduti, delle «cinture» della Bibbia e del cotone, delle aree postindustriali e postminerarie. È l'America dei deserti e del Mississippi, delle praterie e della Silicon Valley, della Route 66 e di Roswell, delle frontiere di ieri e di oggi. Ma poi, che cos'è l'«America»? Da che parte sta? A queste domande cerca di rispondere «Americana», dizionario atipico di più di trecento voci a stelle e strisce. Non per tracciare un'impossibile cartografia definitiva degli Stati Uniti, non per «dire tutto» sull'America, ma per cogliere e interpretare l'affascinante, e a volte disturbante, complessità di un paese-mondo, attraverso storie note e meno note, singolari ed emblematiche, reali e mitiche.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788865762721

[C]

Caccia alle streghe

Nel 1947, due secoli e mezzo dopo i processi di Salem, le streghe tornano alla ribalta: quale segno dei tempi, snobbano il freddo e cupo New England e scelgono di apparire nella soleggiata California. Hollywood sembra piuttosto accogliente: nel 1939, la Strega dell’Occidente, con tanto di volto verde e naso adunco, trova spazio nel film tratto dal romanzo di L. Frank Baum, Il mago di Oz, mentre, due anni più tardi, un’esemplare decisamente più avvenente (interpretata dalla bionda Veronica Lake) sarà protagonista di Ho sposato una strega. Il clima però non rimase favorevole a lungo, e dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale, con il manifestarsi delle divergenze tra Stati Uniti e Russia riguardo alla determinazione delle rispettive sfere d’influenza, la «caccia alle streghe» riprese con altro vigore, riproponendo il clima di sospetto, l’incentivo alla delazione, la fabbricazione di prove inconsistenti, la negazione dei diritti fondamentali che avevano accompagnato i procedimenti di Salem. In quest’occasione, però, l’accusa dalla quale le nuove «streghe» avrebbero dovuto difendersi non riguardò malefici o rapporti con Satana in persona, ma l’affiliazione al Partito comunista o altre associazioni a esso vicine.
La formula witch hunt, «caccia alle streghe», era stata usata dallo scrittore britannico George Orwell in Omaggio alla Catalogna (1938), con riferimento all’accanita campagna di persecuzione contro la frangia trotzkista da parte dei partiti di osservanza moscovita durante la Guerra civile spagnola; e comparve negli Stati Uniti in un editoriale pubblicato da Film Daily nel settembre 1947, all’indomani dell’annuncio che la Huac (House Committee for Un-American Activities, Commissione della Camera per le attività antiamericane) avrebbe svolto un’inchiesta sulla presenza dei «rossi» a Hollywood.
L’iniziativa non colse di sorpresa chi aveva osservato con attenzione l’evoluzione delle questioni del lavoro a Hollywood nei quindici anni precedenti. Durante la Grande depressione (), i sindacati avevano ottenuto alcune importanti vittorie, come la creazione del National Labor Relations Bureau, un organismo federale che aveva imposto una serie di linee guida nella conduzione dei negoziati tra imprese e lavoratori. Gli effetti del nuovo clima si erano sentiti anche a Hollywood: nel 1938, allo Screenwriters’ Guild (Swg), la sigla sindacale che raggruppava la maggior parte degli sceneggiatori, molti dei quali vicini al Partito comunista, era stato riconosciuto il diritto di negoziare il contratto collettivo di categoria. La decisione rappresentò una sconfitta per le case di produzione, che avevano finanziato la creazione di una sigla alternativa dal profilo conservatore, la Screen Playwrights, con un numero notevolmente inferiore di iscritti.
Il 1941 era stato un anno importante: prima, il vittorioso sciopero dei disegnatori della Disney (agitazione promossa per il mancato pagamento degli straordinari), che per cinque settimane bloccò la realizzazione di Dumbo; in seguito, la resa dei produttori alle richieste della Swg, la quale aveva votato all’unanimità per uno sciopero nel caso fossero state rifiutate. I produttori rinunciarono a adottare un atteggiamento intransigente perché, con l’approssimarsi della guerra, il governo avrebbe destinato molti fondi alla propaganda audiovisiva: non era il momento opportuno per bloccare l’attività. Ma la vendetta era solo rimandata.
E, finito lo sforzo bellico, non tardò ad arrivare, sotto forma delle indagini avviate dallo Huac, un comitato costituito nel 1938, ma che fino a quel momento era rimasto piuttosto nell’ombra. Dopo alcune sessioni a porte chiuse, furono diramati 43 mandati di comparizione a personaggi del cinema, divisi più o meno equamente fra testimoni «favorevoli» (di cui era noto l’anticomunismo) e «ostili» (di cui invece era nota l’affiliazione al Partito comunista). Molti di questi ultimi erano sceneggiatori iscritti alla Swg, tra cui Lester Cole e Ring Lardner, Jr., membri del consiglio direttivo. Jack Warner, capo della Warner Bros, fu il primo a testimoniare e sfruttò l’occasione per denunciare la forte penetrazione dei comunisti a Hollywood. Gli attori Ronald Reagan e Gary Cooper, pur senza lanciare accuse altrettanto pesanti, espressero viva preoccupazione per l’atmosfera che si era creata nella città del cinema. Furono poi interrogati, uno dopo l’altro, dieci «ostili» – oltre a Cole e Lardner, anche gli sceneggiatori Dalton Trumbo, Albert Maltz, Alvah Bessie, Herbert Biberman, i drammaturghi Samuel Ornitz, John Howard Lawson, il produttore Adrian Scott e il regista Edward Dmytrick, i quali divennero noti come gli «Hollywood Ten», i «dieci di Hollywood». Costoro si rifiutarono di fare i nomi di altri membri del Partito comunista e furono denunciati per oltraggio alla corte. Anche Bertolt Brecht fu inquisito, ma se la cavò: in quanto cittadino tedesco, venne fatto rimpatriare. Per gli altri, iniziò invece un periodo turbolento. L’atmosfera di ostilità portò all’allontanamento degli sceneggiatori dalla Swg; poco dopo, in una riunione informale tra i produttori tenuta presso l’Hotel Waldorf Astoria di New York, si decise di inserire i «dieci» in una lista nera e di rifiutare loro qualsiasi tipo di incarico (l’unico a muovere una debole protesta fu Samuel Goldwyn; Hollywood/land): oltre a perdere il lavoro, furono messi sotto processo e condannati a un anno di reclusione. Il solo Dmytrick, piegato dalle dure condizioni del carcere, ritrattò la testimonianza pur di riottenere la libertà, sottoponendosi poi a un nuovo interrogatorio davanti allo Huac nell’aprile 1951: e questa volta fece i nomi di una ventina di compagni. Dopo la deposizione, Dmytrick riprese a lavorare, possibilità che invece venne negata agli altri anche dopo aver scontato la pena; per poter guadagnare qualcosa si accontentarono di incarichi marginali e mal pagati, oppure ricorsero all’aiuto di amici che accettarono di fare da prestanome per vendere sceneggiature originali ai grandi studi di produzione: Dalton Trumbo scrisse le sceneggiature di Vacanze romane (1953) e La più grande corrida (1956), entrambe premiate con l’Oscar – che naturalmente non venne ritirato da lui, ma da chi lo aveva coperto.
La testimonianza di Dmytrick si svolse nel corso di una seconda tornata di udienze dello Huac. Dopo la conclusione della prima, il clima a Hollywood era peggiorato: se, prima delle sessioni del 1947, molte voci si erano levate per difendere la libertà di pensiero garantita dal Primo emendamento, dopo la creazione delle liste nere ogni pubblica espressione di opinione indipendente era guardata con sospetto. Humphrey Bogart, uno dei più attivi nel difendere i «dieci» prima delle udienze, firmò un articolo su Photoplay dal titolo eloquente: «I’m no Communist».
L’atmosfera era resa più pesante dal contemporaneo cambiamento della situazione internazionale, che aveva visto la nascita della Repubblica popolare cinese, lo scoppio della prima bomba atomica russa, l’incriminazione per spionaggio dell’avvocato e funzionario delle Nazioni Unite Alger Hiss e il processo contro i coniugi Rosenberg (Maccartismo). A complemento della lista nera, andò compilandosi, in maniera non ufficiale, una «lista grigia», nella quale finivano coloro che, pur non essendo mai stati iscritti al Partito comunista, avevano comunque mostrato simpatie per la sinistra. Costoro incontrarono serie difficoltà nell’ottenere lavoro. L’attore Edward G. Robinson, popolare interprete di gangster e cattivi in genere, si era speso a favore della guerra contro la Germania nazista, partecipando anche al film «interventista» Confessioni di una spia nazista (1939) di Anatoli Litvak. Nella sua autobiografia, però, egli ricorda come di colpo le offerte di lavoro, che non erano mai mancate, fossero cominciate a diminuire, la negoziazione dei contratti si fosse fatta più tortuosa e complessa e accordi ritenuti quasi definitivi sfumassero per un niente subito prima della firma: fu così che decise di offrirsi come testimone volontario e dimostrare davanti alla nazione la propria innocenza, dando in pasto alla pubblica opinione nomi di altri comunisti o presunti tali. Nella primavera del 1951, cominciò una nuova sfilata di professionisti, fra cui lo scrittore Budd Schulberg (autore del romanzo Perché corre Sammy? e della sceneggiatura di Fronte del porto), il drammaturgo Clifford Odets, il regista Elia Kazan, gli attori Josè Ferrer (Oscar per Cyrano de Bergerac) e Sterling Hayden; quest’ultimo descrisse con efficacia lo spirito con il quale lui e i suoi colleghi si prestarono docilmente al gioco: se c’era da fare il verme per poter lavorare, ebbene lui avrebbe strisciato. Dashiell Hammett, invece, si rifiutò di dire chi fossero stati i contribuenti al Civic Rights Congress, un’associazione progressista, di cui aveva ricoperto la carica di presidente, e per questo dovette scontare una pena in prigione ( Hardboiled). Viceversa, le sceneggiatrici Lilian Hellman e Bess Taffel, appellandosi al Quinto emendamento (che tutela il diritto di una persona di non rispondere a domande che potrebbero incriminarla), evitarono l’accusa di oltraggio alla corte, ma non furono più in grado di trovare lavoro.
BIBLIOGRAFIA
Larry Ceplair, Steven Englund, Inquisizione a Hollywood. Storia politica del cinema americano, 1930-1960, Editori Riuniti, Roma 1981.
Giuliana Muscio, Lista nera a Hollywood. La caccia alle streghe negli anni cinquanta, Feltrinelli, Milano 1979.
S.M.Z.

Cajun

Storia di fughe ed esodi, quella dei cajun, che oggi abitano le regioni a ovest e nordovest di New Orleans, sospese tra fiumi e mare, marcite e boscaglie: «terra di caffè nero e di bayou, di fumanti gamberi di fiume e di paludi», come scrivono Macon Fry e Julie Posner, nella loro Cajun Country Guide. Nei primi decenni del Seicento, dalle province della Francia centroccidentale (Poitou, Aunis, Angoumois, Saintonage, Anjou), a migliaia giunsero alla Baia di Fundy, in Nova Scotia (Canada), di proprietà della Compagnia della Nuova Francia – in fuga da miseria, disordini, guerre di religione, peste (del 1631) e caccia alle streghe (Loudun, 1634). Con l’aiuto fondamentale degli indiani micmac si reinventarono trappolatori e cacciatori, artigiani e costruttori di dighe e, poiché la regione era chiamata dai micmac con un termine che suonava più o meno come «La Cadie» e aveva una vaga ma speranzosa assonanza con Arcadie, cominciarono a chiamare se stessi acadiens, «abitanti dell’Acadie». Popolazioni compatte per origini geografiche e sociali, per tradizioni e dialetti usati, per il sistema di famiglia estesa, per l’abitudine al lavoro collettivo e per l’ostilità nei confronti del governo centrale, gli acadiens vissero così per un secolo in Nova Scotia.
Poi, dopo un braccio di ferro di alcuni decenni, quel territorio passò in mano agli inglesi, i quali, nel 1755, posero agli acadiens un aut aut: o anglicizzarsi (nella lingua, nella religione, nelle usanze) o partire. Ebbe allora inizio una sorta di «pulizia etnica»: il Grand Dérangement, come venne chiamato, «il grande scompiglio» – che volle dire deportazioni di massa, resistenza armata, rappresaglie, dispersione di nuclei familiari, confisca di beni, rimpatrio forzato, malattie ed epidemie, morti a centinaia. Pochi fecero ritorno, molti si diressero verso gli altri possedimenti francesi: in particolare, intorno al 1764, verso Nouvelle Orléans e di lì – mal visti dalla ricca aristocrazia francese della città – verso le paludi dell’interno. S’insediarono così in quel mondo strano e misterioso di bayou () e di vegetazione tropicale, a nordovest e ovest della città (che in quei decenni passava continuamente di mano tra Francia e Spagna, per diventare infine, nel 1803, americana): tra il Bayou Lafourche e il Bayou Tèche, fra il Mississippi e l’Atchafalaya, gomito a gomito con tribù locali di Native Americans e comunità di schiavi neri fuggiaschi. E diedero origine a cittadine chiamate Chacahoula, Jeanerette, Abbeville, Lafayette, Morgan City, Breaux Bridge…
Gli acadiens (detti acadians dagli americani – da cui, per progressive deformazioni, cajuns) delimitarono le terre secondo l’usanza francese (i longs champs rettangolari, con il lato più corto a contatto con il fiume), costruirono strip villages (villaggi a striscia) snocciolati lungo le rive, bonificarono paludi e aprirono sentieri nella boscaglia, crearono una fitta rete di comunicazione con piroghe, canoe e battelli, continuarono la tradizione dei lavori collettivi (il coup de main: la costruzione di case, stalle, granai; il trainage: il trasloco; la boucherie: l’uccisione di animali con distribuzione delle carni) e dei passatempi comunitari (i bals de maison, le veillées: feste e balli nelle radure; fino al Mardi Gras, ribaltamento dell’ordine quotidiano del mondo).
Il loro francese parlato (di origine seicentesca) s’andava sempre più trasformando per la distanza dalla Francia e per i contatti con al...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Introduzione
  3. A
  4. B
  5. C
  6. D
  7. E
  8. F
  9. G
  10. H
  11. I
  12. J
  13. K
  14. L
  15. M
  16. N
  17. O
  18. P
  19. Q
  20. R
  21. S
  22. T
  23. U
  24. V
  25. W
  26. X
  27. Y
  28. Z
  29. I testi
  30. La musica
  31. I film