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MATERIALI 1Alessandro Fontana Una educazione intellettuale [1993]Pier Aldo Rovatti Dimmi chi sei. Foucault e il dilemma della veridizioneMassimiliano Nicoli, Luca Paltrinieri Il management di sé e degli altriMauro Bertani La fine di un mondo? Foucault e la veridizione cristianaPhilippe Chevallier Michel Foucault e il "sé" cristianoLaura Cremonesi, Arnold I. Davidson, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli Da dove viene il sé? La forza del dir-vero e l'origine dell'ermeneutica del séTiziano Possamai La pratica filosofica di Michel FoucaultPALESTRARoberto Bertolini Disobbedire alla verità. A proposito del corso Del governo dei viventiEugenio Giacomelli Niente verità senza alterità. Una nota sull'ultimo corso di FoucaultAlessandro Melosso Frammenti di un gesto filosoficoMATERIALI 2Robert Castel L'insicurezza sociale. Rischi e protezioni nella crisi della modernità organizzata [2006]POSTAlessandro Dal Lago Dopo la democrazia globale niente? A proposito di legittimità

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788865763926

Materiali 1
Alessandro Fontana è scomparso nel febbraio del 2013. Ci è parso fosse un omaggio doveroso alla sua memoria e al suo lavoro – e tanto più necessario se commisurato al silenzio della cultura italiana su di lui all’indomani della sua morte – pubblicare alcune sue pagine inedite dedicate soprattutto alla ricostruzione, in forma di autobiografia intellettuale, della sua lunga collaborazione con Michel Foucault, iniziata in un’epoca in cui farlo poteva ancora comportare un prezzo da pagare, a cominciare da una certa solitudine e marginalità istituzionale.
A partire dalla fine degli anni settanta, Fontana è stato anche una presenza significativa su “aut aut”, collaborando in particolare ai numeri dedicati, direttamente o indirettamente, a Foucault (ricordiamo il n. 167-168 del 1978, su “potere/sapere”; il n. 195-196 del 1983, consacrato a “il governo di sé e degli altri”; il n. 205 del 1985; il n. 216 del 1986; o più di recente il n. 323 del 2004, dedicato a “Michel Foucault e il potere psichiatrico”). Alcuni di questi contributi sono stati in seguito ripubblicati nella raccolta Il vizio occulto, uscita nel 1989 (Transeuropa, Ancona), che rappresenta uno degli esempi più originali di lavoro “con” e “a partire da” Michel Foucault. Dal 1969, con la traduzione e introduzione della Nascita della clinica, Fontana era stato uno dei suoi più profondi e acuti lettori: a lui generazioni di studiosi e ricercatori italiani debbono di avere cominciato a leggere Foucault a loro volta in modo nuovo e finalmente affrancato dalla stanca ripetizione di alcuni luoghi comuni e di alcune banalità interpretative che fino ad allora ne avevano accompagnato la circolazione in Italia. A Fontana si dovrà in particolare la predisposizione di un testo, Microfisica del potere, uscito nel 1977 per Einaudi, che, oltre a costituire un vero e proprio modello editoriale che verrà replicato un po’ ovunque nel mondo, sarà all’origine di un modo nuovo di leggere e intendere il lavoro di Michel Foucault (e nuovo forse persino per lo stesso Foucault, a cui venivano così rivelati usi e applicazioni politiche possibili delle sue analisi e dei suoi strumenti in contesti e congiunture a lui sconosciuti): un testo destinato a intersecare alcuni dei movimenti e dei processi politici più rilevanti dell’epoca.
Il lavoro di Fontana sul corpus foucaultiano – che ha inoltre contribuito a prolungare e a far esistere già all’indomani della morte dello stesso Foucault (in un tempo in cui sembrava ormai diventato un “cane morto” per quell’accademia che oggi gli riserva tutti gli onori), dirigendo l’impresa di edizione dei suoi corsi al Collège de France – non appartiene infatti né al genere del commentario né a quello dell’esegesi del suo pensiero. È piuttosto applicazione, prolungamento, “lavoro effettivo” di messa alla prova di alcune delle ipotesi elaborate nel quadro del “Séminaire” ristretto al Collège e poi nelle lezioni pubbliche, il tutto fatto reagire a contatto con un autonomo e originale lavoro di ricerca e di insegnamento presso l’École normale supérieure di Fontenay-Saint Cloud prima, e poi di Lione.
Il testo che qui presentiamo è costituito dai capitoli centrali del Rapport redatto da Fontana nel 1993 in vista dell’ottenimento dell’abilitazione a dirigere tesi di dottorato nell’università francese. Oltre a essere una presentazione davanti a una commissione dei lavori già svolti e pubblicati, questa habilitation consiste in un’autobiografia intellettuale, nella quale il candidato spiega i propri orientamenti di ricerca ed evoca il percorso intellettuale compiuto e quello in atto. Fontana aveva colto questa occasione accademica per fare qualcosa di più: il ritratto di una generazione, la sua, che nel corso degli anni sessanta, in un momento in cui le barriere tradizionali tra le discipline andavano erodendosi, aveva dovuto costruire i propri percorsi individuali fuori dalle vecchie scuole, sotto la guida di nuovi “maestri”, tra cui ovviamente Foucault, che assomigliavano poco ai tradizionali professori di una volta. Il Rapport verrà prossimamente pubblicato, insieme alla totalità dei testi che Fontana ha consacrato a Foucault (e a Deleuze e Guattari, di cui aveva tradotto e introdotto l’Anti-Edipo nel 1975), in una raccolta che sarà edita da La Casa Usher (Firenze) con il titolo Una educazione intellettuale. Saggi su di sé, su Foucault e su altro. La nostra speranza è che possa in tal modo essere riconosciuta la funzione di vero e proprio “intercessore” da lui svolta: tra un paese e un altro, tra una cultura e un’altra, tra una lingua e un’altra, tra un campo di sapere e un altro, tra un sistema filosofico e un altro, tra la filosofia e ciò che è altro dalla filosofia. E all’altezza a cui lui aveva saputo collocarla. [M.B., P.A.R.]
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Una educazione intellettuale
ALESSANDRO FONTANA

L’avvicinamento alla storia

Per ogni Lucien de Rubempré fermo al bordo di una strada, c’è sempre un Vautrin pronto a soccorrerlo. L’arrivo nella capitale infatti non mi strappò la celebre esclamazione dei “due normalisti di genio”, Sartre e Nizan, dall’alto di Montmartre: “Eh eh, Rastignac”, ma mi pose piuttosto la questione: “E ora, come venirne fuori?”. Il mio Vautrin fu Ruggiero Romano, l’allievo di Braudel, lo storico dell’economia, che conobbi nel 1964 alla Cité universitaire, dove dirigeva la Maison d’Italie.
L’ambiente cosmopolita della Cité, se posso dirlo in una parola, i facili incontri, i numerosi contatti, finirono di guarirmi da quel resto di “provincialismo” che ancora mi trascinavo appresso dai miei anni italiani. Vi feci inoltre l’apprendistato di una militanza attiva nelle azioni di sostegno al Vietnam, insieme con i compagni di rue d’Ulm che si erano raccolti attorno ad Althusser e che pubblicavano i “Cahiers pour l’analyse”. A queste attività più nobili si affiancava quella, più modesta ma più vicina, della riforma dei regolamenti un poco superati che disciplinavano ancora le varie Maisons. Eravamo immersi in un clima febbrile di scambi, di dibattiti, di riunioni. Andavamo per tutto il giorno da una Maison all’altra, per cercare delle alleanze e diffondere i volantini redatti nella notte contro i “nemici” del momento. Ci curavamo poco degli studi e frequentavamo i seminari alla moda, soprattutto quelli di Lacan e di Althusser. Il primo aveva da poco pubblicato la raccolta dei suoi Scritti, il secondo le sue analisi su Marx in Leggere il Capitale. Questi due libri furono l’oggetto di tutte le nostre discussioni e rappresentarono per me, e per molti di noi, una ventata d’aria fresca, che ci liberava dall’atmosfera un poco angusta delle opere di Lévi-Strauss. Lo spirito di amicizia e di solidarietà, che ci univa alla Cité, fu per me l’esperienza di un lavoro comune verso il quale non ho cessato di nutrire un sentimento più forte della nostalgia, e che più tardi ho ritrovato nel seminario di François Furet, in quello di Michel Foucault, in quello di Adelin Fiorato e in quello che io stesso animo alla Scuola normale con Jean-Claude Zancarini. Devo aggiungere che a quell’epoca, nel 1964, portai alla redazione della rivista “Les Temps Modernes” un lungo articolo dal titolo ambizioso, Esperienza, manipolazione e discorso. Fu accettato e subito tradotto. Alla fine, Simone de Beauvoir ne bloccò la pubblicazione, per ragioni che ignoro. Fu una delusione dalla quale impiegai molto tempo per riprendermi.
Queste attività “politiche” e questo clima di contestazione interna non piacevano affatto a Ruggiero Romano, tutt’altro; egli condivideva con Carlo Diano, se non le idee politiche, almeno un carattere che l’antica medicina degli umori avrebbe definito “atrabiliare”. Sembrava infatti aver trascorso la vita impiegando tutto il suo genio nel battibecco, e solo il suo talento, che pure era grande, nei suoi libri. Ci era riuscito, e praticava, come pochi sanno fare, ciò che il pittore Whistler ha definito, in un piccolo libro, “the gentle art of making enemies”. Dopo aver letto la mia tesi (che avrebbe voluto pubblicare, se avessi acconsentito ad apportarvi delle modifiche), decise che ero troppo “filosofo” e che bisognava dunque, per usare le sue stesse parole, “spezzarmi le reni”. Mi indirizzò dunque da due storici dell’École des hautes études, François Furet, l’astro nascente, che aveva appena pubblicato, con Denis Richet, un libro sulla Rivoluzione francese, e Alphonse Dupront, l’autore di una tesi monumentale sull’idea di crociata, che non cessava di proseguire, da anni, le sue inchieste sui pellegrinaggi in Francia. Rappresentavano la vecchia e la nuova scuola. Dupront, le cui movenze assomigliavano a quelle di un grande prelato romano (si sussurrava che avesse dei contatti in Vaticano), era circondato da una cerchia di devoti, di curati e di zitelle che frugavano instancabilmente gli archivi dipartimentali degli antichi “baliaggi” per l’inchiesta sulle devozioni popolari delle quali voleva, come l’abate Jean Rousselot aveva fatto per i patois, tracciare la mappa. Attorno a Furet, invece, si riuniva un gruppo di giovani storici destinati a un brillante avvenire: Le Roy Ladurie, che voleva delineare un’“antropologia” della Francia dell’Ancien régime, Daniel Roche che si occupava delle Accademie di provincia, André Burguière che si era lanciato nella “demografia storica”, Mona Ozouf che preparava un libro sulle feste rivoluzionarie, e molti altri. A quell’epoca, probabilmente a causa dell’influenza dello strutturalismo, molti storici cercava-no di “riciclarsi”, e flirtavano volentieri con i nuovi metodi. Furete Dupront avevano pertanto intrapreso dei lavori che chiamavano di “semantica storica”, dedicati soprattutto all’analisi dei cahiers de doléances del 1789. Il progetto di Dupront era più modesto, ma più concreto: si trattava di stilare una sorta di indice analitico dei grandi temi e delle occorrenze più frequenti dei cahiers (l’inventario, insomma, di parole come “re”, “nazione”, “nobiltà” ecc., all’interno del loro contesto discorsivo). Le intenzioni di Furet erano invece più ambiziose. Sapendo che mi interessavo di linguistica, cominciò col propormi di tenere, per un anno, un seminario all’École, proposta che accettai con una leggerezza che, oggi, mi fa un po’ rabbrividire. Fui ascoltato con cortesia, non senza una punta d’ironia condiscendente. Oltre a quello dei cahiers, vi era poi un altro progetto allo studio. Ci si chiedeva, infatti, come si potesse “sfruttare” il catalogo dei titoli della libreria francese nel XVIII secolo, quello che Bernard Quemada aveva costituito, con procedimento meccanografico, nel Centro studi del vocabolario francese di Besançon. Sostenuto e incoraggiato da Julien Greimas, col quale avevo discusso del progetto, proposi dunque un tentativo di applicare i metodi della disciplina che gli antropologi americani chiamavano “etnoscienza”. Sono stato il primo a parlarne in Francia. Si trattava, in sostanza, di studiare dei campi semantici strutturati, come quello dei colori, o dei termini di parentela; ci si poneva la questione di sapere se era possibile tentarne un’applicazione al “corpus” dei titoli.
Il primo risultato di questo lavoro fu un articolo che Jean Sumpf mi aveva chiesto per un numero della rivista “Langages”, dedicato alla “sociolinguistica”, e che apparve nel 1968 con il titolo: Histoire et linguistique. Les titres d’ouvrage au XVIIIe siècle. Seguirono poi tre lunghi contributi, uno dei quali scritto con François Furet, per il secondo volume di un’opera collettiva intitolata Livre et société au XVIIIe siècle, pubblicato nel 1970 da Mouton. Dopo alcune considerazioni teoriche preliminari su ciò che definii una “situazione concreta di comunicazione”, tentai un’analisi di tutti i titoli che comprendevano la parola “metodo”, appoggiandomi sui lavori di un linguista russo, Jurij Apresjean, e su quelli di due allievi di Noam Chomsky, Jerry A. Fodor e Jerrold J. Katz. Il mio problema era di sapere se si poteva portare alla luce una struttura, tipica e canonica, all’interno dei titoli dei libri comprendenti la parola “metodo”, a quali ambiti essi appartenevano e quali erano le loro relazioni, di similitudine e di differenza, con altri insiemi di titoli comprendenti parole contigue come “teoria”, “sistema”, “quadro”. A quest’ultima questione, troppo complessa per un’analisi condotta “manualmente” (la si potrebbe senz’altro fare oggi, con il computer), non diedi risposta, limitandomi a segnalare una pista. Mi accontentai dunque di esaminare il campo semantico dell’insieme “metodo”, con il magro risultato, come accade spesso in questo genere di analisi formali, di mostrare, col supporto di grafici, diagrammi e statistiche, che questa parola nel XVIII secolo era utilizzata principalmente in opere dedicate al giardinaggio, e che dalla distribuzione dei titoli reali si poteva, per “inferenza”, ricavare un titolo “modello”; risultato al quale sarebbe stato facile pervenire, meno “scientificamente”, procedendo semplicemente “a naso”. Ma le analisi erano elaborate e complesse, giacché il rigore della procedura e l’eleganza della dimostrazione primeggiavano, come dicono i matematici, sulla modestia delle conclusioni.
Questo lavoro fu ben accolto negli Stati Uniti, dove c’è sempre stato un terreno favorevole per questo genere di analisi. In Francia, esso lasciò scettici gli storici (che, in generale, non si occupano di linguistica), e a malapena bendisposti i linguisti (che si interessano poco di storia). Tuttavia, con la benedizione di Braudel, l’appoggio di Romano e gli incoraggiamenti di Furet, avrei potuto continuare a coltivare questo piccolo giardino che ero il solo ad aver dissodato. Non se ne fece nulla, e mi fermai lì, accontentandomi di aver apportato un modesto contributo alla storia del libro di cui il titolo costituisce, a condizione di lavorare su serie lunghe ed esaustive, un elemento importante, tanto per l’uso che ne fanno gli autori che per l’“aspettativa” che si crea nell’immaginario del pubblico. Non ancora del tutto rimesso dall’ebbrezza strutturalista, facevo però, con questo lavoro, la mia prima incursione nella storia, della quale, a partire da un materiale tutto sommato piuttosto frusto, cercavo di mostrare le linee di una continuità e di una discontinuità, attraverso trasformazioni e permanenze: in una parola, il tipo di intelligibilità che emerge quando, con l’analisi dei caratteri prossimi e delle differenze specifiche, si giunge a mettere in evidenza – in ciò che si presenta, a prima vista, come una distribuzione aleatoria – delle regolarità.
Oggi procederei un poco diversamente: mi interesserei meno all’architettura e alla struttura formale dell’insieme che alla circolazione effettiva, al di là dei titoli, delle parole che tentavo di analizzare. Cercherei anche (ciò che allora avevo appena abbozzato) di ricostruire l’intero contesto semantico, di cui il titolo non è che un elemento che da esso riceve il suo vero senso. Quello che avevo tentato di fare non era veramente storia, ma piuttosto una semplice sociologia del “quantitativo”. Ci si sarebbe potuti chiedere, quindi: al di là della struttura formale di un insieme astrattamente isolato, quali possono essere le determinazioni che ne costituiscono, a monte, le condizioni di possibilità? Come situare la parola chiave di un titolo nella costellazione complessa di significati che essa assume nel suo uso corrente? Come valutare gli effetti del titolo sull’organizzazione della materia nel libro che lo porta? E infine, su un piano più elevato, come può questo tipo di analisi permettere di cogliere ciò che rientra meno nella regolarità della “struttura” che nella singolarità dell’“evento”? Erano questioni che non avevo mancato di porre, più o meno chiaramente; ma, allora, avevo potuto soltanto abbozzare una risposta. Ecco la vera ragione dell’abbandono di queste ricerche, delle quali nondimeno ero stato, come mi è accaduto talvolta di essere, il pioniere un poco avventuroso.
In realtà, tutte queste questioni erano di natura storica, e non vi si poteva rispondere che attraverso la storia. Il mio lavoro sui titoli non rappresentava altro che un primo passo in questo senso, avanzato quanto basta tuttavia per aprire, in sottofondo, e su una linea d’orizzonte che si accennava in lontananza, un intero campo di problemi destinati a restare irrisolti, a causa delle premesse stesse delle analisi che vi erano condotte. Questo lavoro non era infatti che una sorta di esercizio di stile formale, che avrebbe potuto adattarsi, indifferentemente, a tutt’altro oggetto, quali che fossero il suo “statuto” e la sua “situazione” storica, a condizione che si trattasse di un insieme ben costituito e dai confini ben delimitati. Retrospettivamente, il suo interesse mi sembra risiedere meno nelle risposte che apportava che nelle questioni alle quali non rispondeva, e che si profilavano però, in prospettiva, con la nitidezza di un paesaggio invernale al dissolversi della foschia. Vi era un limite “costitutivo” (“autoreferenziale”, come si dice) in questo tipo di analisi: potevano esse applicarsi a insiemi meno strutturati, o a serie meno esaustive? E vi era una regolarità immanente, descrivibile come un’architettura, di cui poter disegnare il piano indipendentemente dal punto di vista dell’osservatore, nella massa eteroclita e disordinata dei fatti che costituiscono uno stato di cose storico? Insomma, vi era una “logica” degli eventi, e se sì, quale?
Queste furono le questioni che mi posi quando Ruggiero Romano mi offrì di presentare un contributo sulla “scena” per il primo volume (I caratteri originali) della Storia d’Italia Einaudi, che aveva messo in cantiere con Corrado Vivanti. Non mi diede alcuna direttiva, lasciandomi carta bianca. Si limitò a precisare che si trattava, in un centinaio di pagine, di mostrare ciò che vi era di “tipico”, di “specifico”, lungo tutta la storia italiana, in un oggetto, la “scena” per l’appunto, dai contorni nondimeno vaghi e dai limiti indefiniti. Accettai, lusingato dall’invito, ma con una certa imprudenza; infatti, a lungo non seppi come avrei potuto cavarmela. Non avevo quasi nessuna esperienza della ricerca storica, non sapevo cosa si dovesse intendere per “storia italiana”, né se in essa vi fosse una qualche continuità, al di là delle storie locali di questo o quello stato. Avrei fatto il catalogo di tutte le feste italiane, l’inventario degli spettacoli, la descrizione delle cerimonie pubbliche? Avrei scritto un testo “teorico” sulla festa, un argomento divenuto alla moda dopo il 1968, quando si cominciò a interrogarsi sullo statuto del “tempo libero” e dello “svago”? Che cos’era, in fondo, questa “scena”? Un oggetto costituito, un concetto, una serie di pratiche, un aggregato di eventi, un Idealtyp, come diceva Max Weber? Stretto tra i lavori teorici, che mi apparivano di scarso aiuto, e le ricerche erudite, che conducevo un poco confusamente, compresi come avrei potuto venirne a capo il giorno in cui, sul filo delle mie letture, incappai in un piccolo evento, un semplice piccolo aneddoto, una ludicrous story raccontata, in polemica contro i costumi religiosi romani, da Samuel Sharp, in una lettera scritta in occasione di un viaggio in Italia nel 1765 e nel 1766. È la storia di un monaco predicatore napoletano che, a Largo di Castello, seccato dal successo di un saltimbanco che si esibiva rumorosamente su una pedana, si mette ad agitare il crocifisso gridando: “Eccolo, il vero Pulcinella!”. Questo aneddoto, che avrebbe fatto il giro d’Europa, è riportato, tra gli altri, da Diderot, Nietzsche, Benedetto Croce, e anche da Lacan. Mi parve allora che si sarebbe potuta raccogliere tutta la massa eterogenea di racco...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Materiali 1
  4. Alessandro Fontana – Una educazione intellettuale
  5. Pier Aldo Rovatti – Dimmi chi sei. Foucault e il dilemma della veridizione
  6. Massimiliano Nicoli - Il management di sé e degli altri
  7. Mauro Bertani - La fine di un mondo? Foucault e la veridizione cristiana
  8. Philippe Chevallier – Michel Foucault e il “sé” cristiano
  9. Laura Cremonesi, Armold I. Davidson, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli – Da dove viene il sé? La forza del dir-vero e l’origine dell’ermeneutica del sé
  10. Tiziano Possamai – La pratica filosofica di Michel Foucault
  11. Palestra
  12. Roberto Bertolini – Disobbedire alla verità. A proposito del corso Del governo dei viventi
  13. Eugenio Giacomelli – Niente verità senza alterità. Una nota sull’ultimo corso di Foucault
  14. Alessandro Melosso – Frammenti di un gesto filosofico
  15. Materiali 2
  16. Robert Castel – L’insicurezza sociale. Rischi e protezioni nella crisi della modernità organizzata
  17. Post – Alessandro Dal Lago – Dopo la democrazia globale niente? A proposito di legittimità