Città di memoria
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Seguire percorsi alternativi, incuriositi dalle geometrie degli edifici e dal labirinto delle vie; abbandonarsi al fascinoso magnetismo delle mappe; tralasciare le guide ufficiali per osservare una città da angolature diverse, da prospettive ignorate, spesso occultate: e così scoprirne la storia nascosta, rievocarne i trascorsi eroici e drammatici, evitando la superficie piatta dei percorsi turistici. New York, New Orleans, Parigi, Manchester, Salford, Londra: Mario Maffi racconta sei metropoli, teatri di vissuti collettivi passati e presenti, frammenti in continua mutazione del nostro mondo urbanizzato. E, sul filo della memoria – sua e dei luoghi –, ci conduce attraverso la sghemba Manhattan del Lower East Side, cancello d'ingresso per milioni di immigrati a due passi da Wall Street; fra i sentieri e i crocevia di una New Orleans multietnica, segnata nel profondo dalle cupe tragedie della schiavitù; su per le ripide colline di Parigi che ancora ci parlano dell'assalto al cielo della Comune del 1871, e lungo una Senna muta testimone di feroci repressioni; nell'intrico dei fiumi e dei canali, delle strade e delle fabbriche di Manchester e Salford, le culle della rivoluzione industriale esplorate da Friedrich Engels, cantate da Ewan MacColl, dipinte da L.S. Lowry; dentro i vicoli angusti e nel convulso ma vitale angiporto dell'East End londinese, ieri combattivo e proletario, oggi minacciato dalla tracotante gentrification. Città di memoria è un lungo itinerario, ripercorso e rivissuto passo dopo passo, che collega luoghi e tempi distanti fra loro grazie a un unico filo rosso: l'empatica meraviglia con cui Maffi ci propone scorci inaspettati, storie di conflitti e di rivolte, musiche, sapori e odori, parole, aneliti e passioni, intensamente assorbiti nei suoi percorsi di esploratore urbano. Per riportare alla luce quelle tracce che, racchiuse in interi quartieri, non cessano di parlare, davanti all'incedere di un nuovo troppo privo di memoria.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788865763964
Categoria
Viaggi

Londra. Laggiù, a est

1. Il pub Salmon & Ball si trova alla fine di Bethnal Green Road, subito oltre il ponte della ferrovia: un edificio di tre piani, il pianterreno e le modanature dipinti di un verde scuro, i mattoni a vista di un colore antico, la lunga insegna verticale – anch’essa verde – a coprire lo spigolo del primo e secondo piano, fioriere alle finestre; dentro, l’ampia sala in penombra, tavolini sparsi, il banco rilucente di caldo ottone, molti regulars sugli alti sgabelli alle prese con pinte dalla schiuma densa, alle pareti foto e programmi di incontri di pugilato e scene di noti film di gangster. La mattina è calda e, dopo aver zigzagato a lungo per le vie intorno attratti da questo e da quello, siamo entrati per una bitter ristoratrice: un avventore ci segue con gli occhi, leva la sua pinta in segno di saluto, l’atmosfera è famigliare, è un pub di quartiere, il luogo giusto dove fermarsi, riposarsi, lasciar decantare suggestioni e impressioni. Bethnal Green Road finisce qui davanti, intersecata dalla larga Cambridge Heath Road, e oltre diventa Roman Road; di fronte al pub, da una parte e dall’altra della strada, si aprono le due bocche degli accessi alla stazione dell’underground (Central Line); poco più in là, nel mezzo di un esteso giardino, si allunga il basso edificio carico di anni della Library; a destra e a sinistra del pub, si snocciolano case a un piano, anch’esse di vecchia data, intonacate di bianco o con i classici mattoni londinesi d’un rossiccio sporco; a qualche decina di metri, su Cambridge Heath Road, si affacciano la St. John Church e l’imponente edificio ottocentesco del V&A Museum of Childhood; dentro al pub, di fianco all’ingresso laterale, in una cornice fissata al muro, il programma di un incontro di pugilato alla Royal Albert Hall («Tuesday, December 11th 1951») annuncia nomi di richiamo, Tommy McGovern e Allan Tanner, e sette incontri di contorno con celebrità locali – Ron Johnson, Jimmy Davis, Charlie Kray, Reg Kray, Ron Kray… Lo inquadro e lo fotografo, e l’avventore che ci aveva salutato si volta, l’alto bicchiere in mano, ed esclama: «The Kray Twins!», e anche il suo vicino di sgabello borbotta qualcosa a proposito dei «gemelli». Sappiamo chi erano, Reg e Ron e il fratello maggiore Charlie, e glielo diciamo. «Ragazzi di qui» ci spiegano. «Educati, rispettosi.» Gli chiediamo se li hanno conosciuti, scherzano fra loro sulle rispettive età. Poi: «Molti qui intorno se li ricordano ancora…». Fra risate e pacche sulla schiena, ricominciano a prendersi in giro, davanti alla giunonica barista divertita. Quando usciamo, il vecchietto con il bastone, che nel frattempo è entrato e si è seduto a un tavolino vicino alla porta immergendosi nella lettura di un grosso libro, alza lo sguardo, ci sorride, ci strizza l’occhio.
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Il cuore dell’East End.
In certi luoghi, tutto s’intreccia e si rivela – magnetiche convergenze. E così il crocevia su cui da quasi tre secoli veglia il pub Salmon & Ball è sintesi e simbolo di ciò che è (stato) l’East End di Londra. Lì, su quell’angolo trafficato, basta ruotare lo sguardo di 360 gradi e si attraversa il tempo e lo spazio, la storia e la cultura di quest’ampia regione della città. Roman Road, la «strada romana», parla da sola: ma gli altri sottotesti sono più elusivi, vanno individuati come con il legnetto del rabdomante, portati alla luce, scavati fuori. E allora…
Il pub esisteva già da una quarantina d’anni, quando lì davanti, il 6 dicembre 1769, su una forca costruita in fretta e furia in questo luogo periferico per evitare pericolose aggregazioni (ma anche qui la tensione non tardò a manifestarsi), furono impiccati John Doyle e John Valline, membri di una società segreta di tessitori di seta, la «Bold Defiance» (come dire, «A muso duro»), ritenuti colpevoli di aver promosso una sollevazione contro l’introduzione dei telai meccanici, «macchine ruba-lavoro» – un primo atto di luddismo. Quanto alla St. John Church, fu disegnata ed eretta nel 1826-1828, in stile neoclassico, da sir John Soane, architetto emerito fra i molti emeriti architetti di Londra, mentre l’affascinante V&A Museum of Childhood risale al 1872, quando era solo il Bethnal Green Museum, costruito per portare «cultura e identità nazionale» alle genti dell’East End, con strutture in ferro utilizzate anche per il Victoria and Albert Museum e edifici vicini e affini: ma la sua «destinazione» – l’universo infantile – è recente, i primi progetti risalgono al 1922, l’inaugurazione è del 1974.
Ancora: a fine Cinquecento, nel cuore di quello che era il villaggio di Blythenhale («angolo felice»: da cui, per modifiche e corruzioni successive, Bethnal), il bell’edificio della Library faceva parte del Green and Poor’s Land (un ampio spazio verde) e di un complesso di costruzioni noto come Kirby’s Castle, che nel 1727 divenne un manicomio e tale rimase per quasi due secoli (ancora oggi, il parco circostante è detto «Barmy Park», «Parco dei picchiatelli»). Poi: in una delle case basse lungo Cambridge Heath Road, giusto vicino al crocevia, visse Daniel Mendoza (lo ricorda una di quelle bellissime tonde targhe azzurre sulla facciata che s’incontrano un po’ ovunque a Londra, a segnare luoghi di abitazione di personalità; non lontano di qui, a Hoxton, su iniziativa del tutto locale, ne sono state messe anche a ricordare gente comune, domestiche, falegnami, operai, fioraie): primo pugile inglese di origine ebraica, campione d’Inghilterra fra il 1792 e il 1795, famoso per aver «codificato» le regole dello sport in un libro-manuale a tutt’oggi reputato fondamentale, The Art of Boxing (1789). Invece, sull’angolo del parco che abbraccia la Library, la stretta e ripida scalinata che porta giù, alla stazione della Central Line, fu teatro di una vera strage: poco dopo le otto del mattino del 3 marzo 1943, al risuonare della sirena della Civil Defence, una folla che si accalcava per scendere nella stazione trasformata in rifugio fu presa dal panico quando dal vicino Victoria Park giunse il rombo cupo di ripetute esplosioni, scambiato per l’inizio di un nuovo bombardamento: si seppe in seguito (ma per lungo tempo ogni notizia al riguardo fu soppressa o censurata) che si trattava di una non annunciata esercitazione di tiro per sessanta nuovi razzi antiaereo; nel caos che seguì, morirono schiacciati o soffocati 27 uomini, 84 donne, 62 bambini: li ricorda oggi, accanto all’ingresso dalla triste notorietà, lo Stairway to Heaven Memorial, con nomi e cognomi e toccanti testimonianze.
Infine, i Kray Twins: nati nel 1933, famiglia di rivenditori di abiti di seconda mano, discendenza irlandese-ebraico-austriaco-zingara, dalla casa al 178 di Vallance Road (una traversa di Bethnal Green Road) nota in seguito come «Fortress Vallance», con la supervisione della madre Violet («our Queen») e la saltuaria complicità del fratello maggiore Charles, i gemelli Ronnie e Reggie, giovanili promesse del pugilato, estesero il proprio regno del crimine (taglieggiamenti, protezione, controllo di pub, club, case da gioco, locali notturni) a tutto l’East End e ad altre zone di Londra, scontrandosi con boss e bande concorrenti e diventando presto paradossali e contraddittorie icone cittadine degli anni cinquanta e sessanta – rispettati localmente, intervistati alla tv, frequentati in più di un’occasione da gente dello spettacolo e delle arti come il fotografo David Bailey, la cantante Judy Garland, la regista Joan Littlewood, il pittore Francis Bacon, le attrici Diana Dors e Barbara Windsor (in seguito sarà una delle protagoniste della soap opera televisiva EastEnders) o da personalità del mondo politico e dell’aristocrazia – fino alla «caduta» nei tardi anni sessanta e alla condanna all’ergastolo per l’uccisione di alcuni «concorrenti» (Ronnie, diagnosticato schizofrenico paranoide, morirà nel manicomio criminale di Broadmoor nel 1995; Reggie sarà scarcerato nell’agosto del 2000, qualche settimana prima della morte per cancro).
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I gemelli Reggie e Ron Kray.
360 gradi, alcune centinaia di metri quadrati e, in sintesi, molto di ciò che ha reso e rende l’East End un luogo particolare: la sua essenza proletaria e immigrata e le lotte operaie nell’arco dei secoli; l’architettura carica di valenze suggestive (non lontano di qui, su Commercial Street, un chilometro e mezzo in linea d’aria, la Christ Church, opera di Nicholas Hawksmoor, è a tutt’oggi considerata luogo principe di «magnetiche convergenze», di intricati sentieri misticheggianti); il rapporto complesso con le istituzioni culturali (vissute anche come tentativi di «colonizzazione»: l’East End come altra «Africa Nera») e sanitarie (il manicomio come struttura normativa e normalizzatrice); lo spettacolo popolare del pugilato, superato in notorietà forse solo dal music hall; le tragedie della guerra, dei bombardamenti mirati, delle distruzioni dei quartieri proletari, del panico e dell’angoscia quotidiani; l’illegalità e il crimine del secondo dopoguerra, l’intreccio ambiguo di violenza fine a se stessa e di stretti legami con la comunità di origine, di sensazionalismo e protagonismo…
Questa Londra che non smette di affascinare: laggiù, a est.
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La locandina di un incontro di boxe con i gemelli Kray.
2. Londra per me: come restituire un rapporto sviluppatosi via via con tanta intensità? Avrò avuto 15 o 16 anni (il 1962? il 1963?) quando l’ho vista la prima volta, e per qualche tempo, sulla via dello Hampshire o dello Yorkshire (adolescenziali ragioni di cuore), non ho smesso di tornarci – e di amarla. Certo, i musei e le gallerie d’arte, i palazzi e i luoghi deputati, il Tamigi e lo Speakers’ Corner, la Serpentine di Hyde Park, Trafalgar Square, e via di seguito. Poi, però… Quella era l’epoca dei Beatles e dei Rolling Stones e di tutti gli altri, di Top of the Pops alla televisione, dei concerti nei parchi, di pubblicazioni underground come IT e OZ (e di quelle più politiche: The Black Dwarf, The Red Mole, Race Today), di libri come Bomb Culture di Jeff Nuttall, e le mie geografie si disegnavano e ridisegnavano anno dopo anno: i b&b a buon mercato lungo Bernard Street (le unte colazioni del mattino nel seminterrato), le proiezioni nello sgangherato Electric Cinema di Portobello Road (i film sperimentali americani e quelli «arrabbiati» di Richard Lester, John Schlesinger, Karel Reisz), le chitarre di Al Stewart e Bert Jansch al Bunjies Folk Cellar di Litchfield Street con le basse volte a botte in mattoni a vista, il jazz e la poesia al 100 Club di Oxford Street (Ted Joans che recita con vigore i suoi versi), i piccoli teatri d’avanguardia (The Place a due passi da Euston Station, altri di cui ho perso il nome e il luogo), le mitiche librerie Better Books su Charing Cross Road (oggi scomparsa) e Housmans su Caledonian Road (oggi ancora battagliera), il caos colorato del Notting Hill Carnival. E la lettura di «classici» come Senza un soldo a Parigi e Londra di George Orwell e Il popolo dell’abisso di Jack London, o di Principianti assoluti e City of Spades di Colin MacInnes, o dei testi teatrali di Arnold Wesker… Ricordo anche di aver fatto amicizia, in un’estate che poteva essere quella del 1966, con un anziano senzatetto che disegnava con i gessetti sul marciapiedi dell’Embankment a due passi dalla statua di Boadicea e alloggiava in un dormitorio a sud di Londra: si chiamava John Vane e in quei miei pochi giorni di passaggio – sempre sulla via dello Hampshire o dello Yorkshire – mi indirizzò con scarne parole verso storie e scenari ignorati della metropoli. Storie e scenari che, di lì a poco, quasi come contrappasso alla Londra glamour di Piccadilly Square e Carnaby Street, sarebbero affiorati in una canzone scritta e cantata da Ralph McTell e intitolata «The Streets of London»:
Have you seen the old man
In the closed-down market
Kicking up the paper,
with his worn out shoes?
In his eyes you see no pride
Hand held loosely at his side
Yesterday’s paper telling yesterday’s news
So how can you tell me you’re lonely,
And say for you that the sun don’t shine?
Let me take you by the hand and lead you through the streets of London
I’ll show you something to make you change your mind
Have you seen the old girl
Who walks the streets of London
Dirt in her hair and her clothes in rags?
She’s no time for talking,
She just keeps right on walking
Carrying her home in two carrier bags.
So how can you tell me…
In the all night cafe
At a quarter past eleven,
Same old man is sitting there on his own
Looking at the world
Over the rim of his tea-cup,
Each tea last an hour
Then he wanders home alone
So how can you tell me…
And have you seen the old man
Outside the seaman’s mission
Memory fading with
The medal ribbons that he wears.
In our winter city,
The rain cries a little pity
For one more forgotten hero
And a world that doesn’t care
So how can you tell me…
In seguito, primi anni settanta, ci sarebbe stato Islington, su a nord (London N1, altra topografia eccentrica), quartiere popolare e immigrato non ancora aggredito dalla gentrification: la lunga Essex Road e il piccolo ristorante turco di Sultan Ahmed, le case sghembe di Northchurch Road, le ville decadute di De Beauvoir Square, il pub all’angolo di Southgate Road con i torridi sabato sera musicali nella sala sul retro («Walk on the Wild Side» di Lou Reed a tutto volume), le cose che avvennero e avrebbero costituito tanta parte della mia vita, le numerose mattine trascorse alla British Library o alla Marx Memorial Library di Clerkenwell Green a leggere e a prendere appunti. E poi, nella saletta al piano superiore di un pub d’angolo su Pentonville Road, fra Angel e King’s Cross, la conoscenza e l’amicizia con Ewan MacColl e Peggy Seeger – e, loro complici, la scoperta progressiva dell’East End, dei docks da poco chiusi e abbandonati, luogo irreale ma ancora risuonante di voci e storie: un’«altra Londra», città nella città, con il suo passato burrascoso e il suo presente problematico.
Qualche tempo dopo stavo lavorando sul Lower East Side di New York e mi colpivano le forti similitudini con l’East End londinese: con l’aiuto di un amico fotografo, Alberto Valentini, avevo messo insieme un audiovisivo intitolato The Nether Side of New York, immagini, parole, suoni dai decenni fra Ottocento e Novecento, e decisi di fare altrettanto con l’East End. Passai lunghe ore nelle sale della Guildhall Library, del Museum of London, nella sezione periodici della British Library a Colindale, e in particolare negli archivi della Tower Hamlets Local History Library di Bancroft Road e del National Museum of Labour History alla Limehouse Town Hall di Commercial Road: in cerca di vecchie foto, mappe del passato, testi di canzoni di lotta e di music hall, intorno a cui costruire il secondo audiovisivo, In Darkest London. E una mattina di metà anni ottanta, insieme a Peggy, andai a trovare, nella sua casa affacciata sulla breve e silenziosa Elder Street, Raphael Samuel, storico del movimento operaio fuori dagli schemi accademici, brillante ricercatore e fondatore del gruppo e rivista History Workshop, una delle più interessanti esperienze inglesi di «storia dal basso», autore del fondamentale Theatres of Memory, uscito nel 1994, due anni prima della sua morte. Parlammo a lungo in cucina, insieme alla moglie Alison, e – oltre a discutere con Peggy i progetti di un evento-concerto per i settant’anni di Ewan – Raphael cominciò a raccontarmi dell’East End, partendo dalla sua stessa via, dalla sua stessa casa: di come quella fosse stata un’enclave di tessitori di seta ugonotti fuggiti dalla Francia dopo la revoca, nel 1685, dell’editto di Nantes che aveva concesso libertà religiosa ai protestanti; di come la strada ospitasse (oltre ad alcune rinomate case di tolleranza) i laboratori dei tessitori e la struttura stessa delle loro abitazioni obbedisse a quell’attività lavorativa (le alte mansarde dove sistemare i telai utilizzando al massimo la luce spiovente dagli ampi finestroni); di come sulle facciate ne fossero ancora visibili i simboli (una spoletta di ferro sporgente a mo’ di insegna)… Incontrai più volte Raphael, per strada o nella tonda, fascinosa Panizzi Room della vecchia British Library, e ogni volta poche parole scambiate mi furono d’aiuto per entrare nel caleidoscopio della storia dell’East End, per mettere a fuoco tutte quelle immagini, per riordinare voci e storie. Da allora, per tanti versi, Londra significò per me soprattutto l’East End.
Ricordo e racconto tutto ciò a Patrizia in maniera erratica (come erratici sono stati questi giorni londinesi), mentre torniamo su Bethnal Green Road diretti da Pellicci’s per un boccone. È un altro piccolo gioiello dell’East End, questo minuscolo caffè-trattoria al numero 332, che nel 2005 si è guadagnato il Grade II Listing della English Heritage come «edificio storico»: fuori, un paio di tavolini sotto il tendone a righe e la facciata Art Déco; dentro, qualche gradino sotto il livello della strada, una decina di tavoli gomito a gomito, le pareti di legno chiaro, cromature, specchi, intarsi e ritratti, altro Art Déco; sotto la finestrella in fondo che dà sulla cucina, uno strano disegno con un triangolo e un...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Città di memoria
  3. Prima di partire
  4. New York. Il cancello d’ingresso
  5. New Orleans. Sentieri e crocevia
  6. Parigi. Da una collina all’altra, e in mezzo il fiume
  7. Manchester-Salford. Racconto di due città
  8. Londra. Laggiù, a est
  9. Appendice
  10. Ringraziamenti