La psichiatria biologica: una bolla speculativa?
FRANÇOIS GONON
Secondo la psichiatria biologica tutti i disturbi mentali possono e devono essere intesi come malattie del cervello. In alcuni casi è evidente che all’origine di certi sintomi di natura apparentemente psichiatrica ci sono, in realtà, cause cerebrali identificabili e trattabili: un tumore dell’ipofisi, per esempio, può generare i sintomi della depressione bipolare. I progressi della neurobiologia, dell’imaging cerebrale e della neurochirurgia permettono di trattare tutti quei casi che sembrano essere di competenza della psichiatria e che appartengono, invece, al campo della neurologia. Basta questo per dedurne che, nel prossimo futuro, tutti i disturbi psichiatrici potranno essere descritti in termini neurologici e curati sulla base di queste nuove conoscenze?
Se tale ambizione fosse fondata, la psichiatria biologica rappresenterebbe un’autentica rottura epistemologica nella storia della psichiatria. Ma perché sia davvero così, dovremmo poter riconoscere che la neurobiologia contribuisce concretamente alla pratica psichiatrica, o almeno avere la certezza realistica che tale contributo potrà un giorno essere effettivo nel trattamento dei disturbi mentali più frequenti. La prima parte dell’articolo si concentra sui dubbi che i leader della psichiatria biologica hanno espresso rispetto a una simile aspettativa nelle maggiori riviste americane del settore.
Numerosi approcci, che non si escludono a vicenda, permettono di conoscere le cause dei disturbi mentali: neurobiologia, psicologia e sociologia. Tuttavia, secondo un recente studio americano, l’opinione pubblica aderisce sempre più a una visione esclusivamente neurobiologica dei disturbi mentali. Di recente il giornalista Ethan Watters ha scritto sul “New York Times” un lungo articolo in cui mostra che la psichiatria americana tende a imporre al resto del mondo la sua concezione rigorosamente neurobiologica delle malattie mentali, sottolineando che la diffusione di questo tipo di rappresentazione non è dovuta al successo della psichiatria americana: negli Stati Uniti, infatti, il numero di pazienti non è diminuito, al contrario. Il successo della definizione neurobiologica dei disturbi mentali è dunque indipendente dai progressi della neurobiologia. Secondo Daniel Luchins, figura di primo piano della psichiatria clinica nello stato dell’Illinois, questo riduzionismo serve soprattutto a evacuare le questioni sociali e a escludere il ricorso a dispositivi di prevenzione dei disturbi mentali più frequenti. Sulla falsariga di Luchins, proverò a far luce sui modi di produzione di questo discorso, sulle sue conseguenze sociali e sulla sua interpretazione sociologica.
Gli interrogativi della psichiatria biologica
Dalla speranza al dubbio. La classificazione delle malattie mentali proposta nel 1980 dall’American Psychiatric Association (APA) operò una rottura con le precedenti classificazioni: la terza edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-III) adottò un approccio ateorico per migliorare l’attendibilità e la validità delle diagnosi. Si trattava altresì di promuovere le ricerche biologiche e cliniche delimitando gruppi omogenei di pazienti. L’obiettivo era far entrare la psichiatria nel campo della medicina scientifica elaborando una neuropatologia che collegasse in maniera causale malfunzionamenti neurobiologici e disturbi mentali. All’epoca questa speranza sembrava più che ragionevole: le neuroscienze avevano già ottenuto buoni risultati in neurologia – si pensi al trattamento del morbo di Parkinson –, mentre la messa a punto di psicofarmaci efficaci, frutto di osservazioni cliniche casuali, mostrava che era possibile agire sul funzionamento del cervello con l’aiuto specifico della chimica.
Trent’anni dopo la speranza cede il posto al dubbio. Come leggiamo in un articolo pubblicato nel febbraio 2010 sulla prestigiosa rivista “Science”, “all’epoca della prima conferenza di preparazione del DSM-5, nel 1999, si pensava che presto sarebbe stato possibile basare la diagnosi di svariati disturbi mentali su indicatori biologici come, per esempio, i test genetici o l’imaging cerebrale. Oggi la redazione del DSM-5 è in corso, e i dirigenti dell’APA ammettono che non esiste un indicatore biologico abbastanza affidabile, che meriti di essere menzionato nella nuova versione del Manuale”. Sono dello stesso avviso alcuni articoli pubblicati di recente su importanti riviste americane. In modo ancor più radicale, in un articolo del 19 marzo 2010, “Science” riporta un’iniziativa inedita del National Institute of Mental Health (NIMH), il principale organismo americano di ricerca in psichiatria biologica, il quale propone di finanziare ricerche svincolate dal DSM per “cambiare il modo in cui i ricercatori studiano i disturbi mentali”. Di fatto, secondo Steven Hyman, già direttore del NIMH, “la classificazione di tali disturbi secondo i criteri del DSM ha funzionato come un ostacolo alla ricerca”.
I progressi in materia di psicofarmaci si sono rivelati altrettanto deludenti. Nel numero di ottobre 2010 di “Nature Neuroscience”, Steven Hyman ed Eric Nestler – altro nome che conta nella psichiatria americana – affermano che “i bersagli molecolari delle principali classi di psicotropi di cui disponiamo oggi sono stati definiti a partire da farmaci scoperti negli anni sessanta e sulla base di osservazioni cliniche”. Appare chiaro che la ricerca nelle neuroscienze non ha prodotto degli indicatori biologici adatti alla diagnosi delle malattie psichiatriche, e nemmeno nuove classi di psicofarmaci.
Le incertezze della genetica. In un editoriale pubblicato il 12 ottobre 1990 su “Science” si legge che “la schizofrenia e le malattie psichiatriche hanno probabilmente un’origine poligenetica. Il sequenziamento del genoma umano sarà uno strumento essenziale per capire queste malattie”. Anche se tale sequenziamento è stato portato a termine più velocemente del previsto, l’analisi dell’intero genoma di quasi settecentocinquanta soggetti schizofrenici non è bastata a evidenziare una qualsivoglia anomalia genetica, e non ha neanche rintracciato il gene difettoso, identificato tuttavia in una famiglia scozzese. Per quanto riguarda i disturbi più frequenti, come per esempio il Disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), i primi studi condotti negli anni novanta avevano prodotto risultati incoraggianti, non confermati tuttavia da ricerche ulteriori. Oggi il rapido sviluppo delle tecnologie genetiche e l’arruolamento di migliaia di pazienti approdano piuttosto alla constatazione contraria: gli effetti genetici sembrano sempre più deboli. Come scrive Edmund Sonuga-Barke, figura di punta della neuropsichiatria infantile britannica, “anche i difensori più accaniti della visione genetica determinista ritornano sui loro passi e ammettono che l’ambiente gioca un ruolo importante nello sviluppo dei disturbi mentali”.
Complessivamente la genetica ha solo identificato alcune anomalie, le cui alterazioni possono spiegare una percentuale trascurabile di casi – si tratta soprattutto di disturbi psichiatrici gravi come l’autismo, la schizofrenia, il ritardo mentale e il disturbo bipolare di tipo I (con episodio maniacale e necessità di ricovero). Di fatto la percentuale di casi spiegabili con un’anomalia genetica è più elevata per l’autismo, ed è comunque del 5 per cento. Ma al di là di questi rari casi di legame causale, la genetica ha evidenziato solo dei fattori di rischio sempre piuttosto deboli. L’importanza di tali osservazioni resta dunque limitata, tanto per la diagnosi quanto per la ricerca di nuovi trattamenti farmacologici.
Alcuni di questi recenti studi genetici sono stati pubblicati su riviste scientifiche rinomate, e i media li hanno presentati come scoperte di primo piano. È interessante, allora, notare che questi studi si basano spesso su ricerche anteriori, per dimostrare che i disturbi psichiatrici sono ereditari. È noto che le patologie mentali sono più frequenti in alcune famiglie che in altre. Gli studi che confrontano veri e falsi gemelli permettono di misurare l’ereditarietà di un disturbo. Secondo la maggior parte di tali studi, l’ereditari...