La guerra fredda globale
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La Guerra fredda non è stata soltanto lo scontro tra due colossi militari, con i relativi macrosistemi politico-economici e blocchi di paesi alleati, né una semplice partita strategica giocata in territorio europeo. Più di ogni altra cosa, è stata la contrapposizione fra due versioni diverse della modernità, due visioni del mondo che il mondo, per loro stessa natura, aspiravano a cambiarlo.Per Stati Uniti e Unione Sovietica, i paesi chiamati alla prova dell'autogoverno dopo la decolonizzazione rappresentarono il terreno ideale su cui verificare la validità universale delle rispettive ideologie: per questo le svolte rilevanti della Guerra fredda sono strettamente legate agli sviluppi politici e sociali di Asia, Africa e America latina, sviluppi forzati dall'azione diplomatica e propagandistica delle due superpotenze, dalle campagne occulte di Cia e Kgb e, spesso, da brutali interventi militari.Muovendosi in questo originale quadro interpretativo, suffragato da un impressionante lavoro di documentazione, Odd Arne Westad sposta verso Sud la tradizionale prospettiva con cui si guarda alle relazioni internazionali del secondo Novecento. La sua ricostruzione storica intreccia a vicende come la guerra di Corea, la rivoluzione castrista a Cuba, la guerra del Vietnam e l'invasione sovietica dell'Afghanistan gli interventi più oscuri delle superpotenze, come quelli in Indonesia, Timor Est, Iran, Etiopia, Angola, Mozambico, Nicaragua ed El Salvador, senza trascurare il ruolo di Gran Bretagna e Francia, del Movimento dei non allineati, dei paesi arabi, del Sudafrica del l'apartheid e della Cina, che già agli inizi degli anni sessanta spezzò l'unità del fronte comunista.L'interventismo statunitense e sovietico ebbe conseguenze tragiche sui paesi del Terzo mondo, scatenando conflitti sanguinosi e irreparabili violenze culturali. La Guerra fredda globale è la storia di questa distruttiva contesa ideologica e delle sue ripercussioni sulle politiche interne alle due superpotenze – che in ultima analisi decretarono la sconfitta dell'Urss –, ma anche la storia di come il bipolarismo internazionale abbia gettato le basi del caos contemporaneo, alimentando il radicalismo islamico, creando instabilità economica e sociale e accendendo rancori e scontri etnici, vecchi e nuovi.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788865764862
1. L’impero della libertà: l’ideologia americana e gli interventi all’estero
Negli anni novanta dell’Ottocento, quando per la prima volta gli Stati Uniti si preparavano a colonizzare popolazioni al di fuori del continente nordamericano, si animò un acceso dibattito sull’eventualità che una repubblica potesse agire come un impero. Nel 1900, all’atto di accettare la nomination a candidato presidente del Partito democratico, William Jennings Bryan condannò la colonizzazione americana delle Filippine, sostenendo che simili politiche minavano l’essenza stessa del repubblicanesimo. Affermava Bryan:
Tutta la nostra storia è stata d’incoraggiamento non solo per il popolo filippino, ma anche per tutti coloro cui è stata negata voce all’interno del loro stesso Stato. Se il nostro campo d’azione si è limitato all’emisfero occidentale, le nostre simpatie si sono spinte oltre i mari. Abbiamo sentito il dovere verso noi stessi e verso il mondo intero, così come nei confronti di chi si trova a lottare per l’autogoverno, di manifestare l’interesse che il nostro popolo ripone, fin dal tempo della sua indipendenza, in ogni contesa tra i diritti dell’uomo e un potere arbitrario.1
Nel secolo che seguì le vane battaglie di Bryan per raggiungere la poltrona presidenziale, la complessità delle sue opinioni sul tema si sarebbe riproposta più volte, in occasione di momenti chiave e decisioni importanti per la politica estera statunitense: era possibile che gli americani, così gelosi della propria libertà, governassero altri popoli? E, se così non era, quale forma avrebbe dovuto assumere quell’«interesse» per il resto del mondo professato da Bryan? La libertà per gli statunitensi costituiva in sé un elemento sufficiente a soddisfare le promesse dell’America, oppure la diffusione della libertà americana nel mondo era da perseguire come una priorità? Se la missione americana si poneva come limite le coste nazionali, come avrebbero potuto gli Stati Uniti, nel lungo periodo, tutelare le proprie libertà? E se tale missione si estendeva ad infinitum, come avrebbe potuto il potere americano proteggere gli Stati Uniti e al contempo costruire la libertà su scala globale?
Gli storici, con la loro tendenza alle dicotomie, hanno spesso riconosciuto negli anni novanta dell’Ottocento e nelle sconfitte elettorali di Bryan l’esito della strenua battaglia tra la preoccupazione repubblicana per la libertà e la preoccupazione del Partito repubblicano per il denaro e gli interessi economici – una sfida poi decisamente vinta da questi ultimi fattori. Eppure, perlomeno nell’ambito della politica estera, il passaggio al xix secolo potrebbe anche essere considerato come un momento di particolare intensità nella progressiva formazione di una distinta ideologia americana, un processo che affonderebbe le sue radici nel xviii secolo e che si sarebbe protratto fino al xxi. Quando, nel 1785, Thomas Jefferson elogiò il principio di un’America concentrata sul perfezionamento delle libertà all’interno dei propri confini nazionali, si affrettò ad aggiungere che il rifiuto della guerra poteva essere «una teoria a cui i servitori dell’America non sono liberi di aderire». Il problema, secondo Jefferson, risiedeva proprio negli elementi fondativi della nazione: «La nostra gente ha una forte inclinazione per la navigazione e i commerci».2 Nella creazione dello Stato americano, tra il xix secolo e l’inizio del xx, «teoria» e «inclinazioni» si contesero il primato, intrecciandosi sempre di più ed equilibrandosi a vicenda.
Alla metà del xx secolo, sia la libertà che gli interessi – cioè «teoria» e «inclinazioni» – avevano trovato una collocazione naturale e organica nell’ideologia della politica estera degli Stati Uniti, saldandosi tra loro quali simboli e cognizioni centrali di una prospettiva universalista della missione americana. Durante la Guerra fredda, a distinguere dal punto di vista funzionale tali idee da quelle diffuse negli Stati «normali» all’interno del sistema internazionale occidentale fu il modo in cui i simboli e le immagini americane – il libero mercato, l’anticomunismo, la paura del potere statale, la fede nella tecnologia – assunsero una funzione teleologica: ciò che è oggi l’America sarà il mondo di domani. Mentre l’universalismo e la teleologia statunitensi affondano le radici nell’origine rivoluzionaria dello Stato, le loro manifestazioni ideologiche hanno avuto uno sviluppo più lento, spesso sotto forma di necessari compromessi tra visioni divergenti. Come ha osservato lo storico Michael Hunt, la forma esteriore di questi simboli è da far risalire in toto all’epoca rivoluzionaria, mentre il loro contenuto può comunque risultare sorprendentemente contemporaneo.3 Pertanto, è sensato parlare di un’ideologia americana risalente a duecento anni fa, ma si tratta di un’ideologia in perenne evoluzione entro la quale vengono interpretate le esperienze generazionali e risolti i conflitti di percezione.
La storia degli interventi americani nel Terzo mondo è in larga misura la storia di come tale ideologia si è sviluppata nel tempo e di come ha fatto da cornice alle scelte delle élite della politica estera statunitense. Nonostante ci siano stati periodi di energica opposizione interna alle politiche intraprese, l’epoca della Guerra fredda risalta come il momento in cui si è manifestato, per gli standard statunitensi, anche un notevole consenso intorno agli obiettivi immediati e agli strumenti della politica americana al di fuori dei confini nazionali. Spesso questa relativa assenza di conflitti interni ha spinto gli studiosi a semplificare eccessivamente la relazione tra ideologia e pratica nella condotta internazionale di Washington. Tuttavia, come dimostra la genesi dei rapporti dell’America con il resto del mondo, il consenso registrato durante la Guerra fredda si è concretizzato a partire dai profondi conflitti del passato sul ruolo e sugli strumenti che una repubblica democratica può adottare nell’influenzare gli altri.
«In ogni contesa»
Fin dal principio gli Stati Uniti si sono configurati come una potenza interventista che fondava la propria politica estera sull’espansione territoriale. Il messaggio rivoluzionario – libertà per gli uomini e libertà d’impresa – rappresentava una sfida su scala continentale alle potenze europee. Perfino per i pochi che all’inizio del xix secolo non credevano nella divina provvidenza, le idee essenziali che avevano permesso agli americani di raggiungere lo status di nazione autonoma erano le stesse che li avevano spinti a impadronirsi delle vastità del continente per trasformarlo a propria immagine e somiglianza. Nel loro complesso, tali idee costituivano un’ideologia che ha guidato le élite statunitensi nelle relazioni con il mondo esterno dall’epoca federale fino alla Guerra fredda.
Prima tra queste idee essenziali era la concezione americana della libertà, con le sue peculiari definizioni ed estensioni. La libertà per i cittadini era esattamente ciò che distingueva gli Stati Uniti dagli altri paesi; era l’elemento fondante e il senso ultimo dell’esistenza di uno Stato americano autonomo. La libertà statunitense, però, si reggeva su una condizione umana differente da quella dei cittadini di altri paesi. L’uomo americano, sosteneva Jefferson sulla scia della Rivoluzione francese,
in quanto proprietario o in quanto soddisfatto della sua posizione, è interessato a difendere la legge e l’ordine. E uomini come questi possono con pieno vantaggio e sicurezza riservarsi il totale controllo dei loro pubblici affari e un grado di libertà che, nelle mani della canaille delle città europee, degenererebbe istantaneamente nella demolizione e distruzione di tutti i valori pubblici e privati. […] Ma persino in Europa ha avuto luogo un mutamento notevole dell’intelletto umano. La scienza ha messo in libertà le idee di quanti leggono e riflettono e l’esempio americano ha instillato nel popolo il sentimento dei propri diritti. È cominciata pertanto una insurrezione […] fallita nel suo primo sforzo, perché le masse cittadine, lo strumento usato per le sue realizzazioni, corrotte dall’ignoranza, dalla povertà e dal vizio, non hanno potuto essere tenute a freno entro i limiti dettati dalla ragione. Ma il mondo si riscuoterà dal panico provocato da questa prima catastrofe.4
Per il terzo presidente, e per i suoi successori, la libertà non poteva esistere, senza la proprietà privata e senza la consacrazione a una società ordinata che consegue da questo specifico diritto. La libertà, pertanto, non era appannaggio di tutti, ma di coloro i quali, attraverso la proprietà e l’istruzione, disponevano dell’indipendenza necessaria per essere cittadini di una repubblica. Già durante il periodo federale, era comunemente accettato che gli europei potessero raggiungere questa condizione se illuminati dall’esempio americano; e, in termini etnici, il raggio di questa potenziale illuminazione si ampliò nel corso del xx secolo. Fino agli anni della Guerra fredda, comunque, la gran parte della popolazione mondiale – incluse le comunità africane che gli europei avevano condotto in America – si trovava fuori da questa sfera d’influenza. Anche i nativi e i latinoamericani ne erano esclusi. Scriveva Jefferson a Lafayette nel 1813:
Mi unisco sinceramente a te, caro amico, nell’auspicare l’emancipazione dell’America del Sud. Ho pochi dubbi che quelle popolazioni saranno liberate dalla sudditanza allo straniero. Ma l’esito delle mie inchieste non mi autorizza a sperare che siano capaci di mantenere un governo libero. Le loro genti sono immerse nella più cupa ignoranza, e abbrutite dal fanatismo e dalla superstizione.
Jefferson, però, non aveva ancora abbandonato la speranza per i latinoamericani: «La luce rischiarerà alla lunga le loro menti e l’alto esempio che dobbiamo portare, servendo da incitamento e da modello per la direzione da prendere, nel lungo periodo potrà renderli abili all’autodeterminazione».5
Centrale per l’ideologia statunitense era la sua natura anticollettivista: un individuo indipendente può essere repubblicano, la canaille no. Il collettivismo incarnava appieno i timori che i rivoluzionari americani dell’Ottocento nutrivano verso la possibile corruzione del loro assetto repubblicano. Al di fuori degli Stati Uniti, l’essenza della non-libertà consisteva nel trovarsi sotto il dominio altrui, con un vincolo di tipo feudale o, come nel caso della Rivoluzione francese, per via dell’attrattiva esercitata da una fazione o da un movimento. In America – e gradualmente anche altrove – gli antidoti a questa condizione di schiavitù erano l’istruzione e l’uso della «ragione» da acquisire attraverso la scienza. Eppure permaneva, riproponendosi come un’eco di generazione in generazione, il rischio che, qualora l’America non avesse curato e difeso la propria libertà, la storia potesse muoversi nella direzione opposta; il rischio cioè che la libertà americana potesse essere minata da convinzioni collettiviste o dall’arrivo di immigrati non istruiti e ancorati a identità culturali non riconosciute dalle élite statunitensi.
Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, la maggior parte degli americani era riluttante ad accettare un potere politico centralizzato. Anzi, nei primi due secoli della repubblica il dibattito politico era ruotato intorno alle modalità utili a scongiurare la creazione di una forma statale forte. Per esempio, alla fine del xviii secolo determinati poteri – compreso quello di dichiarare guerra – erano stati sottratti all’esecutivo al fine di favorire un consenso condiviso sulla costituzione della nazione. Un secolo dopo, questo anticentralismo ha impedito che in America lo Stato si facesse strumento di riforme sociali in linea con le nazioni europee, e ha reso sospetti, almeno in termini ideologici, i paesi che avevano adottato un simile percorso. Nonostante alcuni sporadici tentativi di riforme a guida statale, e malgrado l’enorme crescita dello Stato federale in termini assoluti, nel Novecento questa mentalità esercitava ancora una considerevole influenza sul modo in cui le élite statunitensi guardavano al resto del mondo e al proprio ruolo internazionale.
Fin dal principio, la fede a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Cartine
  4. Introduzione
  5. 1. L'impero della libertà: l'ideologia americana e gli interventi all'estero
  6. 2. L'impero della giustizia: l'ideologia sovietica e gli interventi all'estero
  7. 3. I rivoluzionari: politiche anticoloniali e trasformazioni
  8. 4. La creazione del terzo mondo: gli Stati Uniti e la rivoluzione
  9. 5. Le sfide di Cuba e Vietnam
  10. 6. La crisi della decolonizzazione: l'Africa meridionale
  11. 7. Le prospettive del socialismo Etiopia e Corno d Africa
  12. 8. La sfida islamica: Iran e Afghanistan
  13. 9. Gli anni ottanta: l'offensiva di Reagan
  14. 10. Il ritiro di Gorbacev e la fine della Guerra fredda
  15. Conclusione
  16. Ringraziamenti