Terrore. Un discorso dopo l’11 settembre
GAYATRI CHAKRAVORTY SPIVAK
1. Queste riflessioni nascono in risposta alla guerra americana contro il terrorismo.1 Sono partita dalla convinzione che non vi sia risposta alla guerra. La guerra è una caricatura crudele di ciò che in noi può rispondere. Non si può rispondere, essere responsabili, davanti alla guerra.
Tuttavia non si può rimanere in silenzio. Dall’imperativo o obbligo di parlare, dunque, due domande: quali sono le risposte già esistenti? E come rispondere a fronte dell’impossibilità della risposta?
Dopo essermi data, così, il mandato di rispondere, mi ha subito soccorso quello che è a tutti gli effetti il mio mandato istituzionale. Sono un’insegnante di materie umanistiche. Nella classe di materie umanistiche inizia una formazione a ciò che può produrre un atteggiamento critico, capace forse di intaccare una sfera pubblica profondamente ostile alla missione delle materie umanistiche (intese come il tentativo continuo di risistemare in modo non coercitivo i desideri insegnando a leggere). Prima di iniziare, però, vorrei distinguere questo tentativo da quella congerie di descrizioni solo apparentemente politiche, tediosamente radicali e spesso narcisistiche – qualunque sia la nostra percezione dei trend teorici euro-statunitensi più recenti – che trasmettiamo ai nostri studenti in nome di un atteggiamento critico. Una risistemazione non coercitiva dei desideri, dunque; e un impegno continuo, in classe. Ecco come mi trovo costruita nel momento in cui rispondo.
Una risposta non presuppone e produce solo un soggetto che risponde costruito in una certa maniera, una risposta costruisce anche il suo oggetto. A che cosa rispondono, dunque, la maggior parte di queste risposte?
La “guerra” contro i talebani, dichiarata a più riprese sui media da vari rappresentanti del governo statunitense (dal presidente in giù), è stata una guerra solo in un senso molto generale del termine. Non essendo stata dichiarata da un atto del Congresso, non potrebbe essere propriamente chiamata guerra. Inoltre, anche in quanto tale, non è stata una risposta alla guerra. I detenuti di Guantanamo, come ci è stato ricordato a più riprese da destra e da sinistra, non sono prigionieri di guerra e non possono essere trattati secondo la Convenzione di Ginevra (la quale, a sua volta, non è imponibile per legge), in quanto, come dice Donald Rumsfeld, fra le altre cose, “essi non combattevano in uniforme”.2 Gli Stati Uniti stanno combattendo un nemico astratto: il terrorismo. Le definizioni fornite dai manuali governativi o dai documenti della Nazioni Unite non sono di grande aiuto. La guerra fa parte di un alibi che ogni imperialismo si è dato, quello di una missione civilizzatrice portata, come sempre, alle estreme conseguenze. È una guerra al terrorismo che in patria si riduce a un giusto processo, a un caso criminale: gli Stati Uniti contro Zacarias Moussaoui, alias “Shaqil”, alias “Abu Khalid al Sahrawi”, con i diciannove dirottatori morti citati nell’accusa come co-cospiratori non imputati.
Ecco da dove posso iniziare: una guerra che si riduce, da un lato, a un’azione legale e, dall’altro, a fronteggiare un’astrazione. Anche al livello più generale, un’opposizione binaria di questo tipo non può reggere a lungo. E, tuttavia, per costruire una risposta un binario può essere utile. Di nuovo, allora: da un lato un processo, dall’altro un’astrazione. Non sono in grado di dire nulla di interessante sul diritto, sui processi. Non posso “rispondere” in materia. Mi rivolgerò, dunque, all’astrazione: terror[e]-ismo.
E tuttavia, prima, essendo una cittadina del mondo che aspira a vivere e prosperare sotto “la rule of law”, una parola l’azzarderò. Pensare che punire gli autori come criminali sia più intelligente – o addirittura più corretto – che intervenire militarmente, non significa necessariamente preparare una pace in grado di durare. Se non ci esercitiamo a immaginare l’altro/a – un compito necessario, impossibile e interminabile –, nulla di quanto facciamo attraverso il calcolo politico-giuridico potrà durare, persino nella rischiosità del futuro anteriore: qualcosa sarà avvenuto quando progetteremo che un qualcosa avvenga. Prima che nascesse l’esigenza di una “sfera pubblica” specifica – corollario dei sistemi imperiali e del movimento dei popoli, quando diversi “tipi” di persone si trovarono a dover vivere insieme –, questa formazione faceva parte dell’alfabetizzazione culturale di base.3 In seguito essa è diventata l’onere specifico di facoltà istituzionalmente dedicate alle materie umanistiche. Comprimo qui una storia molto lunga. Il soggetto illuminato di Kant è uno studioso.4 Nella sua Critica del potere, Benjamin scrive: “Quello che, come potere educativo nella sua forma perfetta, cade fuori del diritto è una delle […] manifestazioni [del potere divino]”.5 Vengo da studi di europeistica, tuttavia non ho alcun dubbio che intuizioni storicamente rilevanti sull’importanza del momento educativo si possano ritrovare in tutti i sistemi culturali. Ciò che oggi appare importante, di fronte a questo attacco senza precedenti contro il tempio dell’Impero, non è solo un intervento senza mezze misure condotto sulla base dei calcoli della sfera pubblica – guerra o diritto –, ma una formazione (l’esercizio del potere educativo) che prepari l’erompere dell’etico. L’etico lo intendo – ed è una posizione derivata – come un’interruzione dell’epistemologico, che è il tentativo di costruire l’altro/a come oggetto di conoscenza. Le costruzioni epistemologiche appartengono all’ambito del diritto, che, attraverso il processo, cerca di conoscere l’altro/a nel modo più completo possibile allo scopo di punirlo/a o di assolverlo/a su basi razionali, di una razionalità definita dai limiti posti dal diritto stesso. L’etico interrompe tutto ciò con la propria imperfezione, ascoltando l’altro/a come se fosse un sé, senza punirlo/a, né assolverlo/a.
Un atteggiamento critico deve insistere, oggi, sul fatto che nessuna misura punitiva, né giuridica verso gli individui, né militare ed economica verso stati o altre collettività (si pensi a ricompense militari ed economiche come l’invito a entrare in determinate alleanze o nell’Organizzazione mondiale del commercio, il WTO) –, è destinata a portare qualche cambiamento duraturo, qualche cambiamento epistemico, per quanto minimo. Dobbiamo inoltre impegnarci nel preparare l’etico, quell’etico di cui dobbiamo avere cura. È qui che può essere situata la responsabilità pubblica delle materie umanistiche.
Al contrario, la “Guerra al Terrorismo” ha suscitato una forte recrudescenza del nazionalismo, consolidata da un atto del Congresso: il Patriot Act. C’era, fra gli intellettuali accademici, l’assunto mai verificato che, dal momento che il sistema economico mondiale funzionava in modo multi- e transnazionale – persino globale, ai suoi vertici –, anche l’episteme contemporanea fosse un postnazionalismo ideologico senza cesure. Un modo di pensare, questo, abbastanza irresponsabile che ha ricevuto una sepoltura tutt’altro che degna – una conclusione non voluta, certo, ma pur sempre tale.
Le donne hanno un ruolo di primo piano in questa guerra al terrorismo, in questa mostruosa missione civilizzatrice. Non possiamo ignorare i volti freschi ed eloquenti delle donne che la CNN ci ha mostrato al timone di una portaerei americana. Una di esse, spaventosamente giovane, diceva ai telespettatori: “Se sono in grado di guidare una portaerei, sono in grado di guidare qualsiasi tipo di camion”. Questo in risposta all’esempio più sconcertante di battuta femminista che mi sia mai capitato di sentire sulla bocca di un corrispondente maschio della CNN: “Nessuno potrà più fare battute sessiste sulle donne al volante, ora”. Ma tutte le donne? Le “donne dell’Afghanistan” sono codificate in modo decisamente diverso.
Data questa rilevanza di genere, una teoria critica femminista deve ribadire che l’espansione senza fine della guerra non produrrà necessariamente un’effettiva e articolata giustizia di genere nella sfera subalterna. Le sue conseguenze più visibili – l’intensificazione del terrorismo di stato in Israele, in Malaysia, in India e altrove – non ha assolutamente nulla a che vedere con la giustizia di genere. Certo, nella misura in cui Kabul in rovine è una “città internazionale” di tipo assai diverso da quella sognata da Abd-ur Rahman sul finire del XIX secolo, con una forza di peacekeeping delle Nazioni Unite sul posto e con un accesso costante alla versione globalizzata della cultura locale americana, è probabile che emerga di nuovo, nella coscienza sociale, qualcosa di consono alla politica di genere americana e delle Nazioni Unite.6 Tuttavia, per quanto dotati di sensibilità di genere, questi gruppi rappresenteranno il subalterno altrettanto poco, se non forse meno, dell’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane (RAWA). Non c’è alcuna possibilità, in un protettorato americano, di un governo di genere su quella ripetuta e faticosa trasformazione del capitale in sociale, che rappresenta la parte migliore della lotta contro la globalizzazione. Questo capitava, all’epoca dei “nuovi” movimenti sociali degli anni settanta, in quello che ora chiamiamo il “Sud globale”.
Oggi, in un momento in cui viene sempre più celebrata l’emancipazione delle donne da parte degli Stati Uniti, la cosa più difficile appare dare una valutazione del regime sovietico. Le donne della middle class, infatti, stanno emergendo a partire da dove si trovavano prima che i talebani le mandassero in clandestinità. Che i talebani siano stati creati dagli americani lo sanno tutti. Molto probabilmente, in tempi come questi in cui una informazione politica superficiale cerca di incontrare di settimana in settimana i gusti del pubblico, questo è il massimo di informazione che ci possiamo aspettare dalla sinistra progressista. Ma perché tutte queste donne fiorivano come professioniste sotto il regime sovietico? C’è una singolare ignoranza verso tutto ciò che concerne la storia dello sviluppo dell’intellighenzia afghana e del suo rapporto profondo con la sinistra.7
All’interno di una “medesima cultura” esiste una linea interna di differenza culturale. L’emancipazione delle donne ha seguito sempre questa linea, e si tratta di una storia più grande, se possibile, delle guerre. Una storia su cui ho riflettuto nel mio ultimo libro, Other Asias.8
Un’altra risposta al Terrore è stata quella di metterlo fra virgolette, per mercificarlo, rilessicalizzarlo a uso della storia e della geografia, e museificarlo. All’estremo più soft di tutto ciò troviamo il marketing di un 11 settembre ridotto a puro sentimentalismo e, nel suo insieme, disgustoso, al quale si può sicuramente applicare la critica attenta, per quanto superficiale, dell’industria della cultura visuale. Al suo interno, troviamo una serie di metonimie interessanti che negoziano l’area compresa fra soft e hard:
Dietro un recinto adiacente, coperto di tela cerata e sormontato da un filo spinato, […] giacciono distesi su un fianco alcuni frammenti della vertiginosa antenna televisiva che segnava il punto più alto di New York – 1732 piedi che svettavano nel cielo –, e poco più in là, sfregiato e contorto, ciò che resta della grande sfera di bronzo di Fritz Koenig che campeggiava al centro della piazza del World Trade Center e che era stata eletta a simbolo della pace mondiale attraverso i commerci. Addossato alla sfera di Koenig […] c’è un grumo bruciacchiato e informe di calcestruzzo fuso, acciaio disciolto, mobili carbonizzati e altri elementi meno riconoscibili, un ammasso simile a quello di un meteorite, che nessuna forza umana sarebbe riuscita a forgiare, ma che la fine infuocata delle due torri ha potuto creare.9
Un object trouvé, perché la “pace mondiale attraverso il commercio mondiale” è una menzogna. E perché le forze sono umane. La sfera di Koenig – segnata come i lapislazzuli di Yeats – è diventata ora un monumento a Battery Park, nell’Eisenhower Mall, nei pressi di Bowling Green e del “Giardino della Speranza” (Hope Garden). La Sfera, così viene chiamata, è lessicalizzata nel testo di una New York capitale del capitale, in un’espressione dell’immaginario che conterrà i significanti Storia (Eisenhower, Battery Park), Spazio (Battery Park, Bowling Green, giardino) e Speranza.
In quel periodo molte banalità concettuali accompagnavano allestimenti molto più interessanti da un punto di vista architettonico. Fra questi, ne scelgo a caso uno che si chiamava A New World Trade Center alla Max Protetch Gallery di New York.10 Da un lato, un monumento imperituro – una risposta al tempo del terrore attraverso la spazio, il classico modello della scrittura: lastroni tipo Stonehenge che fissano la posizione esatta del sole al momento dei due attacchi, Zero Zones, progettato da Raymung Abraham. All’estremo oppo...