Parigi brucia?
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Bruciare la città-mondo, la capitale del ventesimo secolo. La città della Senna, dei boulevard e di Notre-Dame, del Louvre e della torre Eiffel. Bruciare Parigi.«Bruciate Parigi!» ordina Hitler nella fase conclusiva della Seconda guerra mondiale.Ma l'ordine non venne eseguito e Parigi fu salva. Chi la salvò dalla distruzione? De Gaulle? O il generale von Choltitz? Il comunista Rol o il console svedese Nordling?Come si arrivò al 25 agosto 1944, giorno in cui la città venne liberata dagli Alleati?Attraverso carte segrete ritrovate negli archivi tedeschi, documenti dell'epoca, ordinanze, verbalie ricordi dei testimoni, Dominique Lapierre e Larry Collins scrivono un drammatico romanzocronaca – da cui verrà tratto l'omonimo film di René Clement – mettendo in scena eroi e traditori, giovani e vecchi, spie e ostaggi. Sono i protagonisti dell'epopea della città, dall'incubo della distruzione totale alle battaglie per le strade, fino alla liberazione.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788865761366
PARTE SECONDA
La battaglia
I
L’aria era pesante e umida. Grosse nuvole cariche di pioggia arrivavano dal nord e correvano sopra Montmartre. Nelle vie silenziose di Parigi, le ultime pattuglie tedesche raggiungevano in fretta le loro caserme. Era l’alba, la fine del coprifuoco. Presto, lunghe e tristi code si sarebbero formate davanti alle panetterie. Cominciava il 1518˚ giorno di Parigi occupata. 20 000 erano, in quel mattino grigiastro, i soldati tedeschi di guarnigione nella città: la maggior parte di loro non poteva prevedere che il sabato del 19 agosto 1944 sarebbe stato diverso dagli altri. Tuttavia, di lì a qualche ora, le vie di Parigi non sarebbero più state nelle mani dei conquistatori della Wehrmacht.
All’hôtel Meurice, il Feldwebel Werner Nix, il sottufficiale che la sfilata del generale von Choltitz aveva privato della licenza, stava ancora una volta perdendo le staffe. Per far piacere a una vecchietta disperata, tre soldati avevano abbandonato il loro posto di guardia ed erano andati a frugare i cespugli delle Tuileries, alla ricerca di un gatto smarrito.
Proprio sopra di lui, al primo piano, il conte Dankvart von Arnim si stirava sul suo balcone. Era depresso e stanco. Tre ore prima il suo migliore amico gli aveva telefonato dall’ospedale della Pitié che era stato ferito in Normandia, e che i chirurghi gli avevano appena amputato la gamba destra. Arnim non aveva trovato che una frase banale per confortarlo: «Per te, almeno, la guerra è finita». Per il giovane sottotenente la guerra stava invece per cominciare proprio quel giorno.
Nel cortile della caserma Prince Eugène, in place de la République, l’Unteroffizier Gustav Winkelmann, di Colonia, udì gridare il suo nome. L’ufficiale di picchetto lo aveva scelto per comandare la pattuglia di mezzogiorno.
Winkelmann aveva paura. Di tutti i tedeschi di Parigi era probabilmente il solo a sapere che qualcosa bolliva in pentola. Due giorni prima, la sua amica Simone, commessa in un grande magazzino, l’aveva messo in guardia: «Fai attenzione» gli aveva detto «i guai cominceranno il 19».
In tutta Parigi, soli o a piccoli gruppi, a piedi o in bicicletta, i poliziotti in sciopero che avrebbero provocato i disordini temuti dall’Unteroffizier Winkelmann, stavano già lasciando a centinaia i loro nascondigli. Durante la notte Claire, la segretaria di Yves Bayet, aveva distribuito un messaggio: l’ordine era di recarsi sul sagrato di Notre-Dame.
Dal pianerottolo della sua casa dietro il cimitero del Père-Lachaise, Gilberte Raphanel guardava il marito, il sergente di polizia René Raphanel, scendere a fatica le scale. René soffriva di una sinovite. Malgrado i consigli e le preghiere della moglie, aveva deciso di rispondere all’appello. Gilberte si sporse dalla ringhiera e gridò: «Non affaticarti troppo!».
Chiudendo la porta della sua villetta di rue Manessier, a Nogentsur-Marne, Georges Dubret promise alla moglie di rientrare per l’ora di pranzo. La sera prima sua madre aveva portato un coniglio dalla campagna. Colette cominciava a preparare l’intingolo, quando era arrivata la convocazione per Georges.
Vicino agli Invalides, nella camera dell’hôtel Moderne dove si nascondeva dall’inizio dello sciopero, uno dei 20 000 agenti della polizia di Parigi indossò il suo abito più bello, infilò in tasca la pistola calibro 7,65, baciò la moglie Jeanne, e si diresse verso square Sainte-Clotilde. Il suo nome era Armand Bacquer. Nulla distingueva questo solido bretone dai suoi compagni. Tutti facevano parte di un’organizzazione clandestina della Resistenza. Anche lui, come gli altri, ignorava le ragioni dell’improvvisa convocazione.
Quando arrivarono davanti alla chiesa di Sainte-Clotilde, Bacquer e i suoi compagni ebbero l’ordine di recarsi sul sagrato di Notre-Dame per strade differenti. Bacquer imboccò rue de Grenelle. Fece qualche metro, e si fermò per leggere il manifesto che due uomini avevano appena incollato.
Era un ordine di mobilitazione generale. Una voce rauca risuonò in quel momento nella via deserta. Bacquer si voltò, e si trovò a faccia a faccia con un soldato tedesco. Altri soldati apparvero. Nel giro di pochi minuti, Bacquer si trovò trascinato in una sorta di stanzone prospiciente l’atrio di un palazzo, e sentì contro la nuca la fredda canna di una Luger. I suoi documenti di poliziotto e la pistola lo avevano tradito. Una straordinaria avventura cominciava per l’imperturbabile Bacquer che, quella mattina, neanche sapeva dove stesse andando.
Per molti altri semplici parigini quel sabato sarebbe diventato un giorno memorabile.
Davanti al banco vuoto del suo negozio di Nanterre, Louis Berty, il macellaio che nascondeva l’aviatore americano Bob Woodrum, aspettava gli abituali visitatori del sabato: gli uomini della guarnigione del forte di Mont-Valérien che venivano ad affettare sulla sua macchina la loro razione settimanale di salame. Louis Berty odiava quegli uomini. Dal negozio poteva ogni giorno udire il crepitio sinistro delle raffiche che falciavano i suoi compatrioti nel cortile del forte.
Qualche minuto prima dell’arrivo dei soldati della guarnigione, Berty ricevette la visita inattesa di un uomo che si presentò «da parte di Zadig». Era la parola d’ordine che significava il passaggio all’azione dell’organizzazione clandestina alla quale il macellaio apparteneva.
Berty si armò della Colt che il suo ospite americano aveva portato durante le trentacinque missioni sopra la Germania. Poi chiamò Pierre Le Gurn, un suo giovane amico impaziente di battersi, e gli consegnò la piccola rivoltella calibro 6,35 che sua moglie nascondeva, insieme con i denari, in un cassetto della macelleria. Infilò il bracciale tricolore su cui era scritto in lettere nere «Vivere libero o morire» e uscì nella strada.
All’altra estremità di Parigi, un ometto grassoccio con il basco trangugiò il primo cognac della giornata, e salì sul suo camion Citroën a gas liquido. Da 18 giorni, Pierre Pardou svuotava per conto della Resistenza i depositi segreti di viveri che un’organizzazione poliziesca ancora più odiata della Gestapo, la Milice di Vichy, aveva preparato in previsione di una rivolta. Mostrando dei falsi lasciapassare ai posti di controllo, Pardou era già riuscito ad impadronirsi di 180 tonnellate di viveri.
Ma due giorni prima, con una telefonata alla direzione della Milice fatta per segnalare che in un carico c’era della merce avariata, un milite troppo zelante aveva scoperto il trucco. Da allora tutte le pattuglie erano alla ricerca del misterioso camion verde.
Quel giorno Pardou tentava l’ultimo colpo. Il suo progetto era di impadronirsi delle armi di un deposito di place de la Villette, e di portarle agli FFI del Perreux, che si preparavano ad attaccare il municipio.
Mentre metteva in moto il camion, Pardou giurò a se stesso che sarebbe stata quella la sua ultima missione.
Per due modesti cittadini di Parigi, che con la Resistenza non avevano niente a che fare, quel sabato 19 agosto sarebbe rimasto in ogni caso una data memorabile. Era il giorno del loro matrimonio.
Sin dalla fine del coprifuoco, l’assistente di laboratorio Pierre Bourgin si era introdotto nel giardino tropicale del museo di storia naturale, e si era fermato davanti al pezzetto di terra che per lunghe settimane aveva segretamente coltivato. Con precauzione, cominciò a staccare gli splendidi pomodori rossi che sarebbero stati il raro e succulento hors-d’œuvre del suo banchetto di nozze.
Nel suo appartamento dietro le Halles, la dattilografa Lysiane Thill spruzzò con qualche goccia d’acqua il vestito di rayon bianco che avrebbe indossato per il suo matrimonio al municipio del I arrondissement. Prese il ferro dal fornello e si mise a stirare accuratamente le pieghe dell’abito.
L’uomo che Lysiane Thill sposava, l’agente coloniale Narcisse Fetiveau, non avrebbe visto quell’abito. Era prigioniero in un campo di concentramento tedesco: Lysiane lo sposava per procura.
Come ogni mattina, il sacerdote Robert Lepoutre attraversava il pont au Double con gli occhi abbassati sul breviario. Secondo più, secondo meno, la durata della lettura e della passeggiata non variavano. All’ultimo versetto egli trovava sotto la mano la maniglia di ferro del portale di Sainte-Anne, ed entrava nella cattedrale di Notre-Dame per dire la messa. Sulla piazza, l’orologio dell’hôtel-Dieu scandiva le 7.
Ma quel mattino il sacerdote non avrebbe terminato il breviario. Quando raggiunse il sagrato, che a quell’ora di solito era deserto, gli si offrì uno spettacolo che non avrebbe più dimenticato. Con i copricapi delle fogge più varie, in giacca o in maniche di camicia, centinaia di uomini si precipitavano in silenzio verso gli imponenti portoni della prefettura di polizia, situata all’altra estremità della piazza.
Improvvisamente, sopra la facciata grigia, il sacerdote vide salire nel cielo, e spiegarsi in un sol colpo, un lungo pezzo di tela. Per la prima volta dopo 4 anni, 2 mesi e 4 giorni, una bandiera tricolore sventolava sulla capitale della Francia.
Quando vide quella bandiera, padre Lepoutre ripose il breviario in fondo alla tasca e si lasciò trascinare dall’ondata di gente che straripava verso la prefettura. Durante le giornate eroiche che stavano per cominciare, la fortezza assediata che sarà la culla dell’insurrezione di Parigi avrà un cappellano.
Amédée Bussière, il prefetto di polizia, si era appena svegliato. Da quattro giorni, non era che un uomo solo al comando di una nave vuota.
Quand’era scoppiato lo sciopero, i poliziotti l’avevano abbandonato.
Il prefetto allungò la mano verso il comodino e suonò per chiamare il cameriere. Cinque minuti più tardi, rigido e dignitoso come un maggiordomo britannico, il cameriere entrò con la prima colazione.
«Nulla di nuovo, Georges?» chiese il prefetto infilando la vestaglia. «Sì, signor prefetto» rispose il domestico con voce impassibile. «C’è qualcosa di nuovo: sono tornati.»
Amédée Bussière cercò con i piedi le pantofole, si precipitò nel corridoio e si fermò davanti alla prima finestra. Lo spettacolo che gli si offrì gli fece stringere nervosamente il risvolto della vestaglia. Centinaia di uomini, armati di fucili, di rivoltelle, di bombe a mano, erano ammassati nel cortile intorno a una Citroën nera.
«È la rivoluzione…» mormorò il prefetto spaventato.
Sul tetto dell’automobile, un giovane alto, con un abito pied de poule e un bracciale tricolore, arringava la folla. Era Yves Bayet. «In nome della repubblica» gridava «in nome del generale de Gaulle, prendo possesso della prefettura di polizia!»
Un lungo grido salutò queste parole, poi una tromba accennò le prime note di un’aria che la folla intera riprese in coro. Istintivamente, Amédée Bussière si mise sull’attenti. Nel cielo d’estate, saliva la Marsigliese.
Un ciclista solitario che passava per caso sotto le finestre della prefettura si fermò anche lui ad ascoltare. Nulla poteva sorprendere il comunista Rol più di quella Marsigliese. Sul manubrio, dentro uno zaino tirolese, si trovavano una copia del primo ordine di insurrezione, che aveva appena distribuito al suo stato maggiore e, accuratamente ripiegata, l’uniforme che aveva portato per l’ultima volta sette anni prima, nel treno che evacuava da Barcellona le brigate internazionali. Di lì a poco, nella base di operazioni di rue Schoelcher dove stava per insediarsi, Rol avrebbe indossato i vecchi pantaloni di panno e la giacca dai bottoni dorati, sulla quale aveva cucito i cinque galloni di colonnello.
Rol era stupefatto. La presa della prefettura non faceva parte del suo piano d’azione. Rendendosi improvvisamente conto di essere stato giocato, decise di mettersi immediatamente in uniforme, e di entrare nella prefettura per imporre la sua autorità ai ribelli che avevano agito senza ordine, e che rischiavano di compromettere il suo programma.
Ma proprio in quel momento, il gollista Yves Bayet preparava un’altra sorpresa al colonnello delle FFI. Poco lontano, in boulevard Saint-Germain, Bayet era saltato giù dall’automobile nera, e aveva abbordato un uomo dal viso pallido che leggeva un giornale sulla terrazza del Café des Deux Magots.
«Signor prefetto, la prefettura è nelle nostre mani. Gliela consegniamo.»
L’uomo ebbe un sorriso soddisfatto. Si alzò, abbassò la falda del cappello fin sugli occhiali di tartaruga, e salì sull’automobile.
Si chiamava Charles Luizet. Questo vecchio militare, paracadutato sette giorni prima nel mezzogiorno della Francia, era il primo alto funzionario che occupava una posizione ufficiale a Parigi in nome del generale de Gaulle.
Impadronendosi della prefettura, questa città nella città, i gollisti avevano ottenuto un grande successo. Le loro forze controllavano ormai una posizione chiave, dalla quale avrebbe potuto manovrare e controllare gli avversari politici.
Rol era arrivato un’ora troppo tardi.
Insieme al nuovo prefetto, uno sconosciuto dall’aria timida entrò nella prefettura. Portava con sé due pesanti valigie, e si diresse verso il laboratorio della polizia municipale. Nelle valigie si trovava uno strano arsenale: 8 bottiglie di acido solforico, e diversi chili di clorato di potassio. Nel segreto del laboratorio di chimica nucleare in cui sua suocera aveva scoperto il radio, lo sconosciuto dall’aria timida aveva preparato la formula di una bottiglia esplosiva che sarebbe diventata un’arma temibile nelle mani degli insorti di Parigi.
Si chiamava Frédéric Juliot-Curie.
II
L’insurrezione preparata da Rol si estendeva intanto con rapidità ed efficacia in tutta la capitale. Durante le quattro giornate precedenti, gli ordini erano stati accuratamente redatti e distribuiti. In una stanza vicino all’avenue Foch, da cui poteva udire i passi sordi delle sentinelle tedesche, l’incaricato di Rol per Parigi, un maestro elementare di nome Dufresne, aveva passato la notte a correggere le ultime bozze. Sul quai Conti, alle 7, aveva trasmesso in barba ai tedeschi gli ordini ai suoi agenti di collegamento. Dall’alba, i comunisti incollavano su tutti i muri della città dei manifesti che ordinavano la mobilitazione generale.
Rol e il suo stato maggiore avevano problemi complessi da risolvere. Era necessario stabilire collegamenti e contatti, insediare un quartier generale, far uscire le armi dai nascondigli, e distribuirle alle formazioni FFI. Intanto, gli agenti della Resistenza avevano eseguito, nei centralini telefonici della città, una prima missione, che doveva rivelarsi importantissima per lo sviluppo delle operazioni: il sabotaggio delle linee che servivano alle comunicazioni dell’esercito tedesco.
In questa fase di guerriglia, il compito degli uomini di Rol era relativamente semplice. Esso si riassumeva in una frase dello stesso Rol che sarebbe diventata il leitmotiv dell’insurrezione: «A ciascuno il suo boche».
Fin dalle 7 gli FFI avevano cominciato ad attuare la direttiva in tutta Parigi. A piccoli gruppi, andavano all’attacco di soldati e veicoli tedeschi isolati. Il loro scopo principale era di armarsi, disarmando gli uomini che occupavano la città.
All’hôtel Meurice, i primi rapporti provocarono la meraviglia e la collera del generale von Choltitz: dalle 9 i tafferugli si moltiplicavano in tutta Parigi. Per Choltitz, lo scoppio di un’insurrezione generale era una sorpresa; se si eccettua qualche vaga informazione intorno a un «certo malcontento» nella popolazione civile, i suoi servizi d’informazione non lo avevano minimamente avvertito su quanto stava per accadere. Il rapporto che aveva indirizzato, proprio quel mattino, al gruppo di armate B e all’OBW assicurava che la città era «perfettamente» calma. Ma i tumulti, che si sviluppavano contemporaneamente un po’ dovunque, mostravano chiaramente al comandante della piazza di Parigi che si trattava di un piano concertato.
In quelle prime ore di insurrezione la stessa fisionomia d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Com’è nato Parigi brucia?
  3. PARTE PRIMA La minaccia
  4. PARTE SECONDA La battaglia
  5. PARTE TERZA La liberazione
  6. «Tutto ciò che non viene donato va perduto»