Il lungo XX secolo
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Il lungo XX secolo

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Le ricorrenti crisi finanziarie degli ultimi quarant'anni non sono incidenti di percorso, ma riflettono tendenze storiche di lungo periodo. Giovanni Arrighi ha dimostrato che, da secoli, quando la produzione di beni e il commercio non bastano più a garantire alti profitti, l'accumulazione del capitale si sposta nella sfera della finanza e della speculazione. Ne conseguono instabilità economica, incertezza politica e nuovi conflitti sociali, che possono rappresentare il preludio a una svolta epocale negli equilibri globali. Il capitalismo si è evoluto attraverso una sequenza di «lunghi secoli», ciascuno dei quali ha insediato una nuova potenza al centro dell'economia-mondo. Al capitalismo genovese e veneziano seguì nel XVII secolo un ciclo economico olandese, la cui crisi aprì la strada all'impero britannico e infine alla leadership globale degli Stati Uniti. In passato fu l'ascesa della finanza a preannunciare la transizione da un ciclo all'altro: dietro le turbolenze economiche del nostro tempo si cela forse la fine del dominio statunitense? «Il lungo XX secolo» proietta le vicende del Novecento in un quadro storico di lunga durata, che mette in luce il rapporto quasi simbiotico tra il capitalismo e la formazione dello stato moderno. Conduce il lettore attraverso imperi e colonie, porti commerciali e campi di battaglia, colossi industriali e banche internazionali, fin dentro le stanze segrete in cui si incontrano politica e alta finanza, potere e denaro. E a vent'anni dalla prima edizione si conferma un capolavoro di sociologia della storia, indispensabile per comprendere le trasformazioni del presente in una prospettiva sistemica mondiale.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788865763667
Argomento
Economics

1. Le tre egemonie del capitalismo storico

Egemonia, capitalismo e territorialismo

Il declino del potere mondiale degli Stati Uniti a partire dal 1970 circa ha generato un’ondata di studi sull’ascesa e sul declino delle «egemonie» (Hopkins e Wallerstein, 1979; Bousquet, 1979; 1980; Wallerstein, 1984), degli «stati centrali egemonici» (Chase-Dunn, 1989), delle «potenze mondiali o globali» (Modelski, 1978; 1981; 1987; Modelski e Thompson, 1988; Thompson, 1988; 1992), dei «centri» (Gilpin, 1975) e delle «grandi potenze» (Kennedy, 1993a). Questi studi differiscono notevolmente per quanto concerne l’oggetto, la metodologia e le conclusioni, ma hanno due caratteristiche in comune. In primo luogo, quando usano il termine «egemonia» essi intendono «dominio» (Rapkin, 1990), in secondo luogo, mettono in rilievo la presunta fondamentale invarianza del sistema al cui interno sorge e declina il potere di uno stato.
La maggior parte di questi studi si basa su qualche nozione di «innovazione» e di «leadership» nel definire le capacità relative degli stati. Secondo Modelski le innovazioni sistemiche e la funzione di leadership nella loro realizzazione sono da considerare le principali fonti del «potere mondiale». Ma in tutti questi studi, incluso quello di Modelski, le innovazioni sistemiche non alterano i meccanismi fondamentali attraverso i quali il potere nel sistema interstatale sorge e declina. In effetti, l’invarianza di questi meccanismi è generalmente considerata una delle caratteristiche essenziali del sistema interstatale.
Il concetto di «egemonia mondiale» qui adottato, al contrario, si riferisce in particolare al potere di uno stato di esercitare le funzioni di leadership e di governo su un sistema di stati sovrani. In teoria, questo potere può implicare solo la gestione ordinaria di tale sistema secondo le modalità proprie di ciascuna epoca. Storicamente, tuttavia, il dominio su un sistema di stati sovrani ha sempre comportato qualche tipo di azione trasformatrice che ha mutato in maniera fondamentale il modo di operare del sistema.
Questo potere è qualcosa di più e di diverso dal «dominio» puro e semplice. È il potere associato al dominio, accresciuto dall’esercizio della «direzione intellettuale e morale». Come ha sottolineato Antonio Gramsci:
la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi: come «dominio» e come «direzione intellettuale e morale». Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a «liquidare» o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (e questa è una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare a essere anche «dirigente» (Gramsci, 1975, pp. 2010-2011).
Si tratta di una riformulazione della concezione machiavelliana del potere come combinazione di consenso e coercizione. La coercizione implica l’uso della forza, o una credibile minaccia del suo uso; il consenso implica la direzione morale. In questa dicotomia non vi è alcuno spazio per lo strumento che più di ogni altro caratterizza il potere capitalistico: il controllo sui mezzi di pagamento. Nella concettualizzazione gramsciana del potere l’area grigia situata tra coercizione e consenso è occupata dalla «corruzione» e dalla «frode».
Tra il consenso e la forza c’è la corruzione-frode (che è caratteristica di certe situazioni di difficile esercizio della funzione egemonica, presentando l’impiego della forza troppi pericoli) cioè lo snervamento e la paralisi procurati all’antagonista o agli antagonisti con l’accaparrarne i dirigenti sia copertamente sia, in caso di pericolo emergente, apertamente, per gettare lo scompiglio e il disordine nelle file antagoniste (Gramsci, 1975, p. 1638).
Nel nostro schema, nell’area grigia tra consenso e coercizione troviamo molto di più della semplice corruzione e della frode. Ma fino a che non inizieremo a esplorare quest’area mediante la costruzione dei cicli sistemici di accumulazione, assumeremo che tra coercizione e consenso non vi sia alcuna fonte autonoma del potere mondiale. Mentre concepiremo il dominio come basato principalmente sulla coercizione, l’egemonia sarà intesa come il potere aggiuntivo che deriva a un gruppo dominante dalla sua capacità di porre su un piano «universale» tutte le questioni intorno alle quali verte il conflitto.
Lo stato è concepito sì come organismo proprio di un gruppo, destinato a creare le condizioni favorevoli alla massima espansione del gruppo stesso, ma questo sviluppo e questa espansione sono concepiti e presentati come la forza motrice di una espansione universale, di uno sviluppo di tutte le energie «nazionali» (Gramsci, 1975, p. 1584).
La pretesa da parte del gruppo dominante di rappresentare l’interesse generale è sempre più o meno ingannevole. Tuttavia, seguendo Gramsci, parleremo di egemonia solo quando ciò sia almeno parzialmente vero e aggiunga qualcosa al potere del gruppo dominante. Definiremo fallimento dell’egemonia la situazione in cui la pretesa del gruppo dominante di rappresentare l’interesse generale sia semplicemente falsa.
In quanto il termine egemonia, nel suo significato etimologico di «direzione» e nel suo significato derivato di «dominio», si riferisce solitamente ai rapporti tra stati, è senz’altro possibile che Gramsci usasse il termine metaforicamente per chiarire i rapporti tra i gruppi sociali mediante un’analogia con i rapporti tra gli stati. Nel trasporre il concetto gramsciano di egemonia sociale dai rapporti interni agli stati alle relazioni interstatali – come Arrighi (1988) fa implicitamente, e Cox (1983; 1987), Keohane (1984a), Gill (1986; 1993) e Gill e Law (1988), tra gli altri, fanno esplicitamente – possiamo semplicemente ripercorrere a ritroso il processo mentale di Gramsci. Nel far questo ci si presentano due problemi.
Il primo riguarda il duplice significato di «direzione» (leadership), in particolare quando sia applicato alle relazioni tra gli stati. Uno stato dominante esercita una funzione egemonica se guida il sistema degli stati in una direzione desiderata e, nel far questo, è percepito come se perseguisse un interesse generale. È questo tipo di leadership che rende egemonico lo stato dominante. Ma uno stato dominante può anche guidare nel senso di attrarre altri stati sul proprio percorso di sviluppo. Mutuando un’espressione da Joseph Schumpeter (1977, p. 99), questo secondo tipo di leadership può essere designato come «leadership che si realizza contro la sua stessa volontà» poiché, nel corso del tempo, accresce la concorrenza per il potere invece che il potere della potenza egemone. Questi due tipi di leadership possono coesistere, almeno per un certo periodo. Ma è solo nel primo dei suoi significati che la leadership definisce una situazione come egemonica.
Il secondo problema è connesso alla maggiore difficoltà di definire un interesse generale al livello del sistema interstatale piuttosto che al livello dei singoli stati. A questo secondo livello, un incremento del potere di taluni stati rispetto ad altri è una componente importante e in se stesso una misura del successo nel perseguimento di un interesse generale (cioè nazionale). Ma il potere così inteso non può, per definizione, aumentare per il sistema degli stati nel suo insieme. Può, naturalmente, aumentare per un particolare gruppo di stati a spese di tutti gli altri, ma l’egemonia del leader di quel gruppo è nella migliore delle ipotesi «regionale», o «di coalizione», non una vera egemonia mondiale.
Le egemonie mondiali così come sono qui intese possono avere origine solo se il perseguimento del potere da parte degli stati non costituisce l’unico obiettivo della loro azione. In effetti, la ricerca del potere all’interno del sistema interstatale costituisce solo uno dei due aspetti che insieme definiscono la strategia e la struttura degli stati in quanto organizzazioni. L’altro è costituito dalla massimizzazione del potere nei confronti dei cittadini. Uno stato può dunque conseguire l’egemonia mondiale perché può credibilmente affermare di essere la forza motrice di un’espansione generale del potere collettivo dei governanti nei confronti dei cittadini. O, invece, può conseguire l’egemonia mondiale perché può credibilmente affermare che l’espansione del proprio potere rispetto ad alcuni stati, o persino rispetto a tutti gli altri stati, è nell’interesse generale dei cittadini di tutti gli stati.
Rivendicazioni di questo genere hanno maggiori probabilità di essere veritiere e credibili nelle condizioni di «caos sistemico». «Caos» non è sinonimo di «anarchia». Sebbene i due termini siano spesso usati in modo intercambiabile, una comprensione delle origini sistemiche delle egemonie mondiali richiede che tra essi venga operata una distinzione.
«Anarchia» indica «assenza di governo centrale». In questo senso il sistema moderno di stati sovrani, come pure il sistema di dominio dell’Europa medievale dal quale esso è emerso, si qualificano come sistemi anarchici. Eppure, ciascuno di questi due sistemi ha posseduto o possiede princìpi, norme, regole e procedure, impliciti o espliciti, che gli sono propri e che giustificano il fatto che si faccia riferimento a essi come ad «anarchie ordinate» o «ordini anarchici».
Il concetto di «anarchia ordinata» fu introdotto per la prima volta dagli antropologi che cercavano di spiegare la tendenza osservata nei sistemi «tribali» a generare ordine attraverso il conflitto (Evans-Pritchard, 1975; Gluckman, 1963, cap. 1). Questa tendenza è stata presente anche nel sistema di dominio medievale e in quello moderno, poiché anche in questi sistemi l’«assenza di governo centrale» non ha significato mancanza di organizzazione, e anzi, entro certi limiti, il conflitto ha teso a generare ordine.
«Caos» e «caos sistemico», invece, rinviano a una situazione di totale e apparentemente irrimediabile mancanza di organizzazione. È una situazione che emerge quando il conflitto si intensifica fino a superare quella soglia prima della quale esso genera vigorose tendenze compensatrici; o quando un nuovo insieme di regole e di norme di comportamento si impone su quello precedente; o quando emerge dal suo interno, senza sostituirlo; o quando si verifica una combinazione di queste circostanze. A mano a mano che il caos sistemico aumenta, la richiesta di «ordine» – il vecchio ordine, un nuovo ordine, un ordine qualsiasi! – tende a divenire sempre più generalizzata tra i governanti, o tra i cittadini, o tra gli uni e gli altri. Qualsiasi stato o gruppo di stati si trovi in condizione di soddisfare questa richiesta di ordine su scala sistemica potrà conquistare l’egemonia mondiale.
Storicamente, gli stati che hanno colto con successo questa opportunità lo hanno fatto riorganizzando il sistema mondiale su basi nuove e più ampie, ripristinando in tal modo alcune misure di cooperazione interstatale. In altri termini, ascesa e declino delle egemonie non si collocano in un sistema mondiale autonomamente in espansione sulla base di una struttura invariante, comunque definita. Piuttosto, lo stesso sistema mondiale moderno si è formato attraverso periodiche fondamentali ristrutturazioni guidate e governate dai successivi stati egemonici, e su di esse ha basato la propria espansione.
Queste ristrutturazioni sono un fenomeno caratteristico del moderno sistema di dominio emerso dalla decadenza e dalla disintegrazione definitiva di quello dell’Europa medievale. Come ha affermato John Ruggie, vi è una differenza fondamentale tra il sistema di dominio moderno e quello medievale (dell’Europa). Entrambi possono essere definiti «anarchici», ma l’anarchia, nel senso di «assenza di governo centrale», significa cose differenti, a seconda dei princìpi sulla base dei quali le unità del sistema sono separate l’una dall’altra: «Se anarchia ci dice che il sistema politico è un insieme di segmenti, differenziazione ci dice su quali basi sono determinati i segmenti» (Ruggie, 1983, p. 274; corsivo nell’originale).
Il sistema di dominio medievale era costituito da catene di relazioni signori-vassalli, basate su un amalgama di proprietà condizionata e di autorità privata. Di conseguenza, in esso «erano intessute e stratificate geograficamente istanze giuridiche differenti, mentre abbondavano sovranità dai confini asimmetrici, doveri di fedeltà verso signori diversi, zone anomale» (Anderson, 1980, p. 37). Inoltre, le élite dominanti erano estremamente mobili attraverso lo spazio di queste giurisdizioni politiche sovrapposte, ed erano in grado di «viaggiare e assumere il governo da un estremo all’altro del continente senza esitazione o difficoltà». Infine, questo sistema di dominio era «legittimato da corpi di leggi, religioni e usanze comuni che esprimevano i diritti naturali complessivi appartenenti alla totalità sociale formata dalle unità costitutive» (Ruggie, 1983, p. 275).
Si trattava in sostanza di un sistema di dominio segmentato. Era anarchia. Ma si trattava di una forma di dominio territoriale segmentato che non possedeva nessuno dei connotati di possessività ed esclusività trasmessi dal moderno concetto di sovranità. Esso rappresentava un’organizzazione eteronoma di diritti e di rivendicazioni territoriali sullo spazio politico (Ruggie, 1983, p. 275).
A differenza del sistema medievale, «il moderno sistema di dominio consiste nell’istituzionalizzazione dell’autorità pubblica all’interno di domini giurisdizionali mutuamente esclusivi» (Ruggie, 1983, p. 275). I diritti alla proprietà privata e i diritti del governo pubblico divengono assoluti e separati; le giurisdizioni politiche divengono esclusive e sono chiaramente demarcate da confini; la mobilità delle élite dominanti attraverso le giurisdizioni politiche si riduce e alla fine cessa; la legge, la religione e le usanze divengono «nazionali», vale a dire soggette a nessun’altra autorità politica che quella del sovrano. Come ha affermato Etienne Balibar (1990, p. 337):
la corrispondenza tra la forma nazione e tutti gli altri fenomeni verso cui essa tende ha come suo prerequisito una divisione completa (senza «omissioni») e senza sovrapposizioni del territorio e delle popolazioni (e dunque delle risorse) del mondo tra le entità politiche […] A ciascun individuo una nazione, e a ciascuna nazione i suoi «cittadini».
Questo «divenire» del moderno sistema di dominio è stato strettamente associato allo sviluppo del capitalismo in quanto sistema di accumulazione su scala mondiale, come sottolinea Wallerstein nella sua concettualizzazione del sistema mondiale moderno come economia-mondo capitalistica. Nella sua analisi, l’ascesa e l’espansione del moderno sistema interstatale costituiscono sia la causa principale sia un effetto dell’incessante accumulazione di capitale: «Il capitalismo ha potuto fiorire proprio perché l’economia-mondo ha racchiuso al suo interno non una ma più giurisdizioni politiche» (Wallerstein, 1978, p. 449). Allo stesso tempo, la tendenza dei gruppi capitalistici a mobilitare i propri rispettivi stati con l’obiettivo di migliorare la propria posizione competitiva nell’economia-mondo ha continuamente riprodotto la segmentazione del dominio politico in giurisdizioni separate (Wallerstein, 1979, p. 188).
Nello schema qui proposto, lo stretto legame storico tra il capitalismo e il moderno sistema interstatale è tanto contraddittorio quanto unitario. Occorre tenere in considerazione il fatto che «il capitalismo e gli stati-nazione sono cresciuti assieme, e presumibilmente sono in qualche modo dipendenti l’uno dagli altri, sebbene i capitalisti e i centri di accumulazione del capitale opponessero spesso una resistenza concertata all’estensione del potere statale» (Tilly, 1984b, p. 140). Nella nostra interpretazione, la divisione dell’economia-mondo in giurisdizioni politiche rivali non giova necessariamente all’accumulazione capitalistica del capitale. Il fatto che ciò avvenga o meno dipende in larga misura dalla forma e dall’intensità della concorrenza.
Dunque, se la concorrenza interstatale prende la forma di protratti conflitti armati, non vi è alcuna ragione per cui i suoi costi per le imprese capitalistiche non debbano superare quelli di un eventuale governo centralizzato di un impero mondiale. Al contrario, in queste circostanze la redditività dell’impresa capitalistica potrebbe senz’altro essere minata, e infine distrutta, da una diversione crescente delle risorse verso l’attività bellica e/o da una disgregazione sempre maggiore delle reti di produzione e di scambio attraverso cui le imprese capitalistiche si appropriano delle eccedenze e le trasformano in profitti.
Allo stesso tempo, la concorrenza tra imprese capitalistiche non favorisce necessariamente la continua segmentazione dello spazio politico in giurisdizioni separate. Ancora una volta, ciò dipende in larga misura dalla forma e dall’intensità della concorrenza, in questo caso tra imprese capitalistiche. Se queste imprese sono avviluppate in dense reti trans-statali di produzione e di scambio, la segmentazione di queste reti in giurisdizioni politiche separate può avere un’influenza nociva sulla posizione concorrenziale di tutte le imprese capitalistiche rispetto alle istituzioni non capitalistiche. In queste circostanze, le imprese capitalistiche possono senz’altro mobilitare i governi per ridurre, invece che accrescere o riprodurre, la divisione politica dell’economia-mondo.
In altri termini, la concorrenza interstatale e quella tra le imprese possono assumere forme differenti; e la forma che di fatto assumono ha importanti conseguenze sul modo in cui il sistema mondiale moderno – come modo di dominio e come modo di accumulazione – funziona o meno. Non è sufficiente mettere in evidenza il legame storico tra la concorrenza interstatale e quella tra le imprese. Dobbiamo anche specificare la forma che esse assumono e il modo in cui cambiano nel corso del tempo. Solo in questo modo possiamo apprezzare pienamente la natura evolutiva del sistema mondiale moderno e il ruolo svolto dalle successive egemonie mondiali nel creare e ricreare il sistema allo scopo di risolvere la ricorrente contraddizione tra una «incessante» accumulazione del capitale e una organizzazione relativamente stabile dello spazio politico.
Per comprendere tutto questo è essenziale definire «capitalismo» e «territorialismo» come modi di governo o logiche di potere opposti. I governanti territorialisti identificano il potere con le dimensioni e la popolosità dei loro domini, e considerano la ricchezza (o il capitale) come uno strumento o un prodotto secondario dell’espansione territoriale. I governanti capitalisti, invece, identificano il potere con il grado del loro comando sulle risorse scarse e considerano le acquisizioni territoriali come uno strumento o un prodotto secondario dell’accumulazione di capitale.
Parafrasando la formula generale della produzione capitalistica di Marx (D-M-D’), possiamo rendere la differenza tra le due l...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Presentazione
  3. Occhiello
  4. Prefazione e ringraziamenti
  5. Introduzione
  6. 1. Le tre egemonie del capitalismo storico
  7. 2. L’ascesa del capitale
  8. 3. Industria, impero e l’accumulazione di capitale «senza fine»
  9. 4. Il lungo XX secolo
  10. Epilogo. Può il capitalismo sopravvivere al proprio successo?
  11. Poscritto alla nuova edizione
  12. Bibliografia
  13. Sommario