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Atto costitutivo di una nuova fenomenologia critica e, insieme, testamento intellettuale, Il personaggio?uomo di Giacomo Debenedetti è il centro di un assedio sfiancante, il luogo di un interrogatorio infinito al quale sono convocati, senza possibilità di appello, gli scrittori, i musicisti e i registi della prima metà del Novecento che hanno dato vita ai personaggi più enigmatici del loro tempo. Non più figure grigie e bidimensionali costrette alla palette de couleur del verismo e del naturalismo, i personaggi dell'arte novecentesca erompono dalle pagine e dalle tele, dagli schermi e dalle partiture come una fiamma indomabile di pulsioni di morte: sono ritratti baconiani, sanguinanti di bile e di colore; troppo nudi, troppo somiglianti alla vita, e per questo incompresi e temuti dai loro contemporanei.Fil rouge sfrangiato che pi. non si riavvolge, orfano vilipeso e sfigurato, il personaggio?uomo di Debenedetti, nel segno dell'antecedente baudelairiano dell'Albatros o del Makar di Dostoevskij, incarna un principio universale di sconcezza e innocenza. Come uno spettro si aggira, irrisolto, nell'arte di questo tempo: è Vitangelo Moscarda, che si scopre uno, nessuno e centomila; è Zeno Cosini che incassa il «cazzotto cieco e sconcertante» della vita; è Proust davanti al cespo di rose del Bengala, in attesa che queste si lascino sfuggire un segreto; è Remigio nel Podere di Tozzi, incapace di difendere la «roba»; è l'Ulisse di Joyce, e il suo naufragio nelle strade di Dublino; è la «melodia stanca» di Puccini e la mela in putrescenza di Cézanne.Per il critico, è soprattutto il romanzo a dare corpo – attraverso i suoi caratteri – al «caos» novecentesco, cifrato nella sua investitura etimologica di «fenditura», di velo che inaspettatamente si solleva e lascia scorgere, per un momento o per sempre, il volto deforme e meduseo del Fato: quello strappo nel cielo di carta pirandelliano, di fronte al quale si può soltanto pronunciare la maledizione. È proprio il personaggio – il personaggio drammaticamente umano, l'antipersonaggio, il personaggio?uomo – a tenere in mano la chiave d'accesso a questa nuova, scompaginata realtà, e solo in un rapporto complice o litigioso con lui, purché profondo, il lettore può cogliere la verità di un libro, di una storia, di una vita. Ma se provi a interrogarlo, il personaggio?uomo risponderà sempre con il suo motto araldico: «Si tratta anche di te». È un'ombra che capovolge la domanda e chiede ragione della propria disgrazia, ricordandoci che anche noi siamo fatti della stessa sostanza, e destinati alla medesima rovina.Così, nel secolo del trinceramento, della relatività, del complesso d'Edipo e della morte di Dio, l'uomo, e il suo «alter?ego che ci viene incontro dai romanzi», è di nuovo chiamato, come nella tragedia antica di un Prometeo o di un'Antigone, a lasciarsi sopraffare da un destino più grande, una sorte prefissata e avvolgente che porta alla disfatta e all'autodistruzione. Nell'arte come nella vita, a poco valgono le ribellioni, le strategie, gli oroscopi benaugurosi: l'uomo in rivolta assume le sembianze di uno scarafaggio kafkiano che, dorso a terra, agita invano le zampe contro il cielo.Una vocazione inesorabile guida allora il critico in questo passaggio metafisico, questo inabissamento letterario: rifare in eterno i passi di Orfeo, scendere tra le ombre dell'arte per tentare ogni volta di recuperare qualcosa. Ancora più nel profondo: per decifrare la vita.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788865765531

Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo

Chiamo personaggio-uomo quell’alter-ego, nemico o vicario, che in decine di migliaia di esemplari tutti diversi tra loro, ci viene incontro dai romanzi e adesso anche dai film. Si dice che la sua professione sia quella di risponderci, ma molto più spesso siamo noi i citati a rispondergli. Se gli chiediamo di farsi conoscere, come capita con i poliziotti in borghese, gira il risvolto della giubba, esibisce la placca dove sta scritta la più capitale delle sue funzioni, che è insieme il suo motto araldico: si tratta anche di te. Allora non c’è più scampo, bisogna lasciare che si intrometta. Ma non ha solo questa virtù di mediatore, che spesso rende «più praticabile la vita». L’evoluzione della sua specie porge anche il filo rosso per seguire la storia, non solo della narrativa, ma di tutta la letteratura e forse delle altre arti. Attualmente in quella evoluzione deve essere successo un salto qualitativo: ne è prova la decadenza della critica che vorrei definire osmotica, la quale penetrava il personaggio, e ne era penetrata, sia pure con il rischio di contrabbandare una vischiosità, un intrico di filamenti organici, una indiscreta e madida abbondanza di flussi; ma alla fine arrivava sia a comprendere quel personaggio che a spiegarlo. Le si è sostituita un’altra critica di tipo soprattutto accerchiante: essa stringe d’assedio il personaggio con strumenti di superlativa ingegneria, corredati di pannelli, manometri, lampadine multicolori, che durante l’impiego ne permettono anche il controllo; quasi sempre, tuttavia, preferisce la bellezza, l’efficienza tecnica dell’assedio al momento dell’espugnazione. Della nuova fase del personaggio, contrassegnata anche da un increscioso malinteso tra l’uomo, erede oculato o dissipato, consenziente o ribelle, del patrimonio umano, e il suo alter-ego, vorrei qui rendermi ragione, attraverso alcuni confronti elementari, arrischiati, eterodossi, non eccessivamente preoccupati di prescindere, per una volta tanto, da tutto l’esuberante, ingegnoso, ma forse monotono armamentario delle odierne e meno odierne teorie sulla narrativa.
Non voglio prenderla troppo alla lontana, ma la narrativa degli ultimi tre secoli ha suffragato della più docile conferma la dottrina dei corsi e dei ricorsi. Ne ha dato, senza volerlo, la dimostrazione Edmund Wilson nel suo saggio sul simbolismo.1 A dire il vero, Wilson tiene d’occhio tutto il campo letterario, ma la narrativa è il caso particolare che, di quell’andamento a pendolo, offre la prova per eccellenza.
Si guardi al drôle de ménage che da un pezzo essa ha combinato con la scienza: è una continua altalena di lune di miele e di ripudi. Quando alla scienza vanno bene gli affari, quando la ragione se la sente di spiegare tutto, comprese le ragioni del cuore o dell’anima, si assiste ai fasti dell’amore coniugale, tanto più tripudianti quanto meglio la scienza arriva alla piena conferma di se stessa, cioè sigilla con il crisma del vero e del certo quella concezione meccanicistica dell’universo, che è sempre stata sulla cima dei suoi sogni di perfettibilità. Lo si è visto nei secoli dell’Illuminismo: la letteratura scriveva le musiche e le coreografie della pavana reale, nobilmente eseguita sul proscenio dalle matematiche e dalla fisica. «Sull’età del cosiddetto classicismo» qui Wilson intende l’egemonico, esemplare classicismo francese, «Cartesio e Newton esercitarono un influsso pari a quello dei classici stessi.»2
Poi la letteratura si accorse che esisteva un margine di rapporti tra l’anima e la realtà, un campo aperto alla voglia di vivere e di assaporare quel vivere, del tutto trascurati, o addirittura rimossi, a beneficio di un più ineccepibile funzionamento della macchina dell’universo. Fuggì, chiese asilo al suo più congeniale, quasi incestuoso amante, il pensiero filosofico, immune dalle tirchierie, dalle manie ragionieresche della scienza, che vuol fare i conti tutte le sere, altrimenti non si va a letto. L’evasione si sentì compromessa non appena Darwin umiliò la genealogia degli eroi romantici, dopo di che la scienza riprese le redini, ricostruì una nuova concezione meccanicistica dell’universo e la letteratura tornò sotto il tetto coniugale, fu naturalista con l’orgoglio della sposa che ostenta il cognome del marito. Ma già da qualche tempo aveva mostrato, per conto suo, di voler mettere la testa a posto. «Gli elefanti nel deserto di Leconte de Lisle» osserva Wilson«appaiono e scompaiono come una specie di dignità e di grandiosità classiche, né vogliono dirci altro.»3 (Strano effetto di queste righe, a rileggerle adesso: paiono riferire i risultati di una scuola dello sguardo avanti lettera, ma non anticipiamo. Semmai, Wilson stabilisce una costante, cioè la puntuale coincidenza tra la concordia scienza-letteratura e un ritorno di classicismo, che andrebbe controllata coi criteri della teoria degli errori.)
La successiva infedeltà della letteratura si chiamò simbolismo e, a parere di Wilson, si protraeva ancora nel 1930. L’amore dell’indefinito, le parentele che la poesia andava cercando con la musica indicano l’aspirazione di creare presenze significative ma non coercitive, come appunto fa la musica con il suo privilegio di un linguaggio senza vocabolario, di una fisicità senza corpo. Anche il simbolismo si mostrò puntualmente allergico alla scienza dei suoi tempi, mentre era corrivo alle avventure con la filosofia, tanto meglio se metafisica, cioè con ricerche mentali, intellettuali di indole umanistica. La vera questione e conflitto delle «due culture» era forse più pertinente nei tempi romantici o simbolisti che nel nostro.
Questa specie di vaudeville non è di Wilson, ma sceneggia rispettosamente il suo schema. Il vero colpo di scena è che tutto quel commercio tra letteratura e scienza non è stato l’invenzione di un critico letterario, stufo di parlare di letteratura in termini di letteratura. Ad abbozzare il primo episodio, da classicismo a romanticismo, è stato Alfred North Whitehead, uno scienziato, un filosofo della scienza, tutt’altro che propenso alle analogie approssimative e brillanti: Wilson lo ringrazia e scandisce il seguito della storia su quel ritmo in battere e levare. Come esempi di narratori del simbolismo, egli analizza Proust e Joyce, a cui aggiunge anche la Stein. Ma che cosa avvenne dopo? È cessata quella regolarità di corsi e ricorsi? La narrativa persiste nella sua separazione consensuale dalla scienza? Tanto poco lo fa che, a nostro modo di vedere, Proust e Joyce possono avere accettato da Wilson e da altri l’iscrizione nell’anagrafe del simbolismo, ma sono andati a viverne fuori, e lì continuano a condurre la loro esistenza postuma. In breve, la nostra tesi è che oggi la narrativa e la scienza sembrano trasmettere, con due codici diversi, lo stesso tipo di informazioni su ciò che maggiormente interessa la natura dell’uomo e del mondo. È molto discutibile se la nuova simbiosi riproduca la costante di Wilson e ci faccia assistere a un classicismo contemporaneo. È quasi certo, invece, che l’adozione inconsapevole, in apparenza paradossale e perfino autolesionista, dell’odierna visione scientifica dell’universo, non frutta ai narratori la stessa efficienza operativa e di scoperta di cui godono i fisici. Noi cercheremo tuttavia di dimostrare la possibilità di un prolungamento attuale della linea Whitehead-Wilson, proprio perché ci consente di prospettare le nuove sorti del personaggio-uomo o di chi per esso.
Mi guardo bene dai filosofemi o dai sociologemi; tento semmai, per mettermi in carreggiata, di confessare sottovoce un barlume di idea, non so fino a che punto dimostrabile. Direi, insomma, che in principio di ogni fase culturale si pone un’immagine informe e scontornata, suggestiva e perentoria, qualcosa come lo spettro di un’immagine, un suo ectoplasma trascendentale, che prescrive alla scienza e alle arti il loro cammino, inteso a ritrovare la collimazione tra il mondo dell’esperienza e quella intuitiva immagine del mondo, anteriore a qualsiasi esperienza. Forse ne potremmo identificare la presenza, non già la figura, attraverso la serie delle manifestazioni sincroniche che in campi diversi rivelano la sua funzione attiva, stimolatrice; più dubbio è che si arrivi a risalirne la genesi per vie diacroniche. Ma sarei imprudente a escludere che la sociologia riesca a tracciare un identikit di quell’immagine, estrapolandone i lineamenti dai vari fenomeni che ne suggeriscono profili e impronte parziali; come pure a escludere che un’analisi storicistica, eseguita con metodi corretti e rigorosi, esente da falsi scopi ideologici, giunga a dimostrarne la necessaria maturazione. Qui ci limiteremo a supporre che l’ipotetica immagine imponga parallelamente alla scienza e alle arti di far convergere l’osservazione verso altri aspetti e materiali della natura: chiamiamoli, nei due casi, altri personaggi. Una delle prime conseguenze, e per noi la più probante, è che dalle qualità specifiche di quei nuovi personaggi le due squadre di ricercatori si vedono costrette ad ammettere un nuovo sistema e tipo di leggi, che spesso contrastano con le precedenti. I fisici non hanno bisogno di chiedere che le leggi di ieri cadano in prescrizione, quasi sempre esse riescono a sopravvivere come casi particolari delle nuove. Non so se i romanzieri, soprattutto i più recenti, siano già in grado di dire altrettanto; sta di fatto che le loro idee sulla legalità e sui principi che ne discendono sono assai analoghe, spesso identiche, a quelle dei fisici submicroscopici.
Qualche esempio, ormai storico e proverbiale, di ciò che succedeva nella narrativa, quando la fisica era già tutta dedita al mondo delle particelle. Proust fermo, come ce l’ha descritto Reynaldo Hahn, davanti a un cespo di rose del Bengala, è la personificazione della propria poetica, miniata in una vignetta da lanterna magica. Immobile, in una passività che vorrebbe rilasciarsi per raggiungere il massimo potere ricettivo, che insieme si contrae per esercitare il massimo di potere interrogativo, aspetta che quelle rose gli rivelino la loro essenza, per poterle trasfigurare in rose eterne. Torna subito in mente la metafora dell’«esplodere verso», in cui Sartre ha tradotto l’idea husserliana dell’intenzionalità. Proust, davanti a quelle rose, sembra aspettare un simile evento, ma capovolto: dovranno essere le rose a «esplodere verso» di lui. Anche lo Stephen di Joyce, di fronte all’orologio della Dogana, si ripromette un evento similare: l’orologio, egli dice, deve mettersi a fuoco, affinché la sua immagine consegua il supremo attributo della bellezza, la claritas prescritta da san Tommaso. In parole meno tomistiche, anche l’orologio di Joyce deve «esplodere verso» di lui. Irrimediabile vocazione della narrativa per una corposa fattualità! Sartre ha trovato la metafora di un’idea fenomenologica, la metafora vale anche a condensare la poetica di due artisti, Proust e Joyce, che forse appartengono allo stesso «stadio di visione» della fenomenologia, ma non ne sanno nulla; tuttavia essi hanno già attuato letteralmente, e con un notevole anticipo, quella metafora, non solo nei propri rapporti con la realtà, ma nella realtà medesima su cui lavorano.
I loro romanzi sono un susseguirsi ininterrotto di esplosioni: esplodono gli oggetti, esplodono i personaggi. Ciascuno di quei romanzi è un’esplosione di esplosioni.4 Le essenze cercate dai due scrittori paiono diventare accessibili, comunicative solo nei frantumi abbastanza infinitesimali, corpuscolari, prodotti da quelle esplosioni. Il miracolo di Proust è nel continuo ricupero della rosa, della sua bellezza intatta, così ostinatamente e incantevolmente esistenziale, proprio mentre la fa esplodere per captarne il segreto. La dolcezza dolorante, sinuosa, intricata del suo tono trascrive le inflessioni, la tattica, i rimorsi per farsi perdonare dalla rosa seviziata.
Joyce, a prima vista, ha meno bisogno di reintegrare gli oggetti, perché è più ligio (salvo che nel Finnegans) a un trattamento naturalistico del proprio materiale. Ma l’estremo rallentamento di certi episodi anche più narrativi, l’inizio dell’Ulisse, per esempio, porta i singoli istanti, per dare tempo a ciascuno di mettersi a fuoco, quasi al limite del discontinuo, cioè a una quasi frantumazione del tessuto temporale e spaziale. Chi voglia, di queste constatazioni così empiriche, una copertura in oro filosofale, la troverà in Adorno, dove si riconoscono a Proust e a Joyce le dovute benemerenze di capostipiti narrativi «della dissoluzione della coscienza in elementi disparati», di antesignani della «non-identità», intesa quest’ultima sia come «la dissoluzione storica dell’unità del soggetto...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nota dell’editore
  3. Prefazione
  4. Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo
  5. Un punto d’intesa nel romanzo moderno?
  6. Il personaggio-uomo nell’arte moderna
  7. Con gli occhi chiusi
  8. Puccini e la «melodia stanca»
  9. Il tarlo in valuta oro
  10. Vittorini a Cracovia
  11. Nota ai testi
  12. Sommario