L'ultimo narco
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L'ultimo narco

  1. 256 pagine
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L'ultimo narco

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Joaquin Guzman, meglio noto come El Chapo, è il narcotrafficante più potente al mondo: la sua organizzazione trasporta ogni anno dal Messico agli Stati Uniti migliaia di tonnellate di stupefacenti, utilizzando tunnel, aeroplani e persino sottomarini. Dopo la sua fuga nel 2001 da un carcere di massima sicurezza, El Chapo è diventato uno dei criminali più ricercati al mondo, secondo solo a Bin Laden. Attualmente in clandestinità, è ancora molto attivo: controlla il cartello della droga attraverso i suoi fedelissimi e c'è la sua mano dietro la spaventosa guerra tra narcotrafficanti che insanguina il Messico. Un conflitto con più vittime che in Iraq. Con una scrittura che ricorda "II potere del cane" di Don Winslow, il giornalista Malcolm Beith racconta i mesi passati tra le montagne i e villaggi messicani in cerca di questo fantasma inafferrabile, e ripercorre il percorso violento e crudele che ha portato il figlio di un contadino analfabeta a capo di un impero del crimine.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788865760925
Categoria
Criminology
1. La grande fuga
Jaime Sánchez Flores, guardia penitenziaria a Puente Grande, fece il suo solito giro di controllo alle 21:15. Niente di strano. Era tutto a posto.
C’erano ottime ragioni per usare una particolare attenzione. Il venerdì precedente, 19 gennaio 2001, un gruppo di alti funzionari messicani era stato in visita in quel carcere di massima sicurezza, nello Stato centrale di Jalisco. Alla testa della delegazione c’era Jorge Tello Peón, il vicecapo della polizia nazionale, e tra le sue principali preoccupazioni c’era un detenuto in particolare: Joaquín Archivaldo Guzmán Loera, detto «El Chapo».
El Chapo era a Puente Grande dal 1995, dov’era stato trasferito due anni dopo la sua cattura in Guatemala. Benché fosse dietro le sbarre da quasi otto anni senza alcun tentativo di evasione, c’erano validissime ragioni per preoccuparsi. Pochi giorni prima di quel 19 gennaio, la Corte Suprema messicana aveva stabilito che i criminali processati in Messico potevano essere estradati con facilità negli Usa.
El Chapo, imputato per traffico di droga a nord del confine, rischiava di finire entro breve in un carcere di massima sicurezza statunitense.
Nessun narcotrafficante, El Chapo incluso, voleva subire una simile sorte, e Tello Peón lo sapeva. Fra le altissime mura imbiancate di Puente Grande, El Chapo poteva continuare comodamente a gestire i suoi affari. La corruzione, nelle carceri, era dilagante, ed El Chapo era senza dubbio il più potente fra i trafficanti di droga del Messico, nonostante fosse rinchiuso in una prigione.
Negli Stati Uniti, invece, avrebbe affrontato la vera giustizia, pagandone concretamente le conseguenze. Era la più grande paura dei narcos quella di restare tagliati fuori dalla cerchia degli affiliati più fedeli, dalla loro rete di supporto, di essere estradati dove la corruzione non era così diffusa come in Messico. Negli anni ottanta, i signori della droga colombiani avevano lanciato una campagna intimidatoria per osteggiare le leggi sull’estradizione; i narcos messicani la pensavano allo stesso modo, ed El Chapo non sarebbe mai finito negli Stati Uniti.1
Sánchez Flores aveva concluso il suo giro da pochi minuti, e le luci nelle celle del carcere, che ospitava 508 detenuti, si spensero. All’epoca Puente Grande era uno dei tre penitenziari di massima sicurezza messicani, attrezzato con 128 sofisticatissime telecamere a colori a circuito chiuso – che sorvegliavano ogni angolo della struttura – e con i migliori sistemi d’allarme esistenti. Le telecamere venivano gestite dall’esterno del carcere, e nessuno, dall’interno, aveva possibilità di controllarle. Nei corridoi era possibile aprire una sola porta alla volta, e tutte le barriere erano azionate per mezzo di dispositivi elettronici.
Quarantacinque-sessanta minuti dopo che Sánchez Flores aveva controllato El Chapo per l’ultima volta, un secondino, tale Francisco Javier Camberos Rivera, altrimenti noto come «El Chito», aprì la porta elettronicamente comandata della sua cella.
Il sorvegliato speciale sbucò in corridoio e di soppiatto andò a nascondersi in un carrello della biancheria sporca, che Chito aveva lasciato appena all’esterno del Blocco C3. Svoltarono a destra e proseguirono verso il successivo livello del carcere. Le porte elettroniche, perlopiù, si aprirono senza difficoltà, dato che i circuiti erano stati interrotti. Altre erano fuori uso e facilmente superabili anche in precedenza. Una porta era tenuta aperta con una vecchia scarpa: ben misero simbolo della massima sicurezza sbandierata dal governo.
Chito ed El Chapo – quest’ultimo ancora nel carrello – svoltarono verso il Blocco B3, ma il secondino capì subito di aver commesso un errore. C’era ancora gente nel refettorio: altre guardie che godevano di un pasto tardivo. Chito, allora, puntò verso l’uscita principale seguendo un percorso rischioso, attraverso il corridoio su cui si affacciavano le sale di sorveglianza, generalmente affollate di guardie.
Attraversarono la zona in cui i visitatori e tutti coloro che entravano nel carcere durante il giorno venivano perquisiti da capo a piedi. La guardia in servizio domandò a Chito dove stesse andando.
Porto fuori la biancheria sporca, come sempre, rispose Chito.
La guardia di turno infilò la mano nella cesta del bucato… ma non abbastanza a fondo. Sentì solo lenzuola e biancheria. Fece segno di passare: El Chapo fu spinto fuori.
C’era una sola guardia a sorvegliare il parcheggio, e si trovava al chiuso, dietro una vetrata, alle prese con la marea di documenti che sommergeva la sua scrivania. El Chapo si sfilò la sua uniforme beige e le scarpe da detenuto e saltò fuori dalla cesta, per infilarsi nel bagagliaio di una vicina Chevrolet Monte Carlo.
Chito abbandonò il carrello appena all’interno del cancello principale, come faceva sempre quando portava fuori la biancheria da lavare, e si mise al volante dell’auto che poi condusse definitivamente fuori da Puente Grande.
Una guardia li fermò all’uscita del parcheggio, ma il suo turno volgeva al termine, e il controllo non fu dei più accurati: diede una rapida occhiata all’interno dell’abitacolo, ma tralasciò il bagagliaio, e diede il via libera. Chito ed El Chapo si allontanarono lungo la Zapotlanejo-Guadalajara.
El Chapo era libero.
La missione del Chito, però, non era ancora terminata. El Chapo prese posto accanto al giovane complice e gli consigliò di darsi alla macchia con lui, dato che tutti i giornali e i notiziari televisivi, per non parlare dei poliziotti, gli sarebbero stati addosso.
Chito, continuando a guidare, rimuginò preoccupato sulla questione. Quando raggiunsero i sobborghi di Guadalajara, El Chapo disse che aveva sete. Chito entrò in un negozio per comprargli una bottiglia d’acqua.
Quando tornò all’auto, El Chapo era scomparso.
Intanto, nel carcere di Puente Grande non era ancora suonato neppure un allarme. Le guardie, nelle alte torrette da cui si dominava l’area a 360°, non avevano visto niente. All’interno, i loro colleghi condussero le ispezioni notturne come se niente fosse accaduto.
Alle 23:35 il direttore del carcere, Leonardo Beltrán Santana, ricevette una telefonata. El Chapo non era più nella sua cella, gli disse una guardia. Tra il personale del carcere si diffuse il panico: ebbe inizio la perquisizione della struttura, cella per cella, stanza per stanza, sgabuzzino per sgabuzzino. Trascorse un’altra ora prima che anche Tello Peón venisse informato dell’evasione.
Il primo pensiero di Tello Peón – giustamente – fu che il sistema era ormai al collasso. La corruzione dilagava da tempo, ormai, tra le mura delle carceri messicane, e solo la corruzione poteva aver consentito al Chapo di fuggire così facilmente. Proprio quella era stata la ragione all’origine della sua visita: verificare che nel carcere non ci fossero evidenti segni di collusione con El Chapo e con gli altri narcos suoi compari. Prima del 19 gennaio era circolata la voce secondo cui El Chapo avrebbe tentato di evadere, ma nessuno aveva colto segni concreti di trame in atto. E Tello Peón, allora, dopo la sua visita al carcere, aveva ordinato che El Chapo fosse trasferito in un altro braccio. L’ordine, però, non era stato eseguito in tempo.
«Questo è tradimento, un attentato alla sicurezza nazionale», dichiarò Tello Peón quel sabato mattina, quando la nazione, svegliandosi, apprese la notizia della fuga hollywoodiana del Chapo. Furibondo, paonazzo, il funzionario della polizia annunciò una battuta di caccia su tutto il territorio nazionale per riacciuffare El Chapo, a qualunque costo, e per punire i responsabili.
Cominciò da Puente Grande. Le settantatré guardie del penitenziario, i custodi e persino il direttore furono fermati e interrogati. In base alla legge messicana, un giudice poteva prolungare il fermo fino a quaranta giorni, per consentire all’ufficio del procuratore generale di indagarli a fondo come presunti complici dell’evasione.
Nelle località circostanti, la polizia e l’esercito avviarono le ricerche. Perquisirono case, fattorie, persino uffici pubblici e sedi istituzionali, ma trovarono ben poco: tracce di trafficanti, armi, denaro, droga, ma del Chapo neanche l’ombra.
Le ricerche si allargarono a Guadalajara, la seconda città del Messico, le cui estreme propaggini giungevano a una decina di chilometri circa da Puente Grande. Lì, a casa di uno dei principali alleati del Chapo, la polizia federale trovò armi da guerra, telefoni e computer, oltre a 65000 dollari in contanti, ma El Chapo non c’era. Soffiate anonime indirizzarono le ricerche verso Mazamitla, pochi chilometri a sud di Guadalajara, dove furono minuziosamente perquisite diciassette abitazioni e quattro fattorie. El Chapo si nascondeva tra la gente di Mazamitla, avevano detto gli informatori, ma neanche lì se ne trovò traccia.
Qualche giorno dopo fu chiaro che El Chapo aveva subito abbandonato la zona, e le ricerche si estesero a tutto il territorio nazionale, con centinaia di agenti della polizia federale e di soldati in giro dappertutto, nelle città più grandi, nei paesini più piccoli sulle sierras, per le polverose località di frontiera: tutti a caccia dell’uomo che con la sua evasione aveva messo alla berlina il governo. Dall’estremo nord del Tamaulipas fino al confine meridionale con il Guatemala, i posti di blocco furono rafforzati.
Anche le autorità guatemalteche furono messe in allerta. L’Fbi e altre agenzie statunitensi collaborarono alle ricerche a nord del confine, nell’improbabile eventualità che il boss della droga, nel marasma seguito all’evasione, fosse riuscito a varcare la frontiera con gli Usa. Il neoeletto presidente Vicente Fox era lo zimbello dell’opinione pubblica a causa della scomparsa del Chapo. E Fox, da parte sua, era furioso ed esasperato per l’inefficienza dimostrata dal sistema penitenziario del suo Paese. Si sarebbe fatto appello a tutte le risorse, pur di catturare il fuggiasco.
El Chapo, intanto, stava festeggiando con i suoi vecchi soci in affari a Badiraguato.2
Alla Dea, i nervi erano a fior di pelle. La cooperazione tra Stati Uniti e Messico, sotto la presidenza Fox, aveva cominciato a dar frutti, e la fuga del Chapo costituiva «una sfida a ogni tentativo di rafforzare e far rispettare la legge», come ebbe a dire, inviperito, il direttore della Dea Asa Hutchinson.
Ci furono persino alcuni agenti della Dea che presero questa evasione come un fatto personale. Loro e i loro omologhi messicani avevano perduto colleghi e amici per catturare i boss della droga, ed ecco che El Chapo veniva lasciato uscire indisturbato. Fu un «colpo durissimo agli sforzi compiuti per far prevalere la legge».
Bella vita dietro le sbarre
Il giorno stesso in cui El Chapo mise piede nel carcere di Puente Grande, il 22 novembre 1995, fece capire chiaramente quale fosse la legge. Avvicinò i secondini e gli impiegati, in molti casi uno a uno, chiedendo loro come si chiamassero. Il vostro supervisore vi ha parlato di me? Sareste disposti a lavorare per noi? Non si trattava esattamente di una domanda, e ne avrebbero ricavato un buon compenso. Persino gli addetti alle pulizie e alle cucine furono messi a libro paga, con compensi dai cento ai cinquemila dollari.
I soldi non erano un problema: gli alleati del Chapo nello Stato del Sinaloa gli mandavano i contanti necessari con regolarità. In breve, El ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. I narcos
  3. Prologo
  4. 1. La grande fuga
  5. 2. Il gioco dello scaricabarile
  6. 3. Da gomeros a semidei
  7. 4. El Padrino
  8. 5. L’ascesa del Chapo
  9. 6. «Spezzare il collo al destino»
  10. 7. Il generale
  11. 8. La guerra
  12. 9. Appropriazione della terra
  13. 10. Legge, disordine
  14. 11. La fine dell’alleanza
  15. 12. Il fantasma
  16. 13. La nuova onda
  17. 14. Stati Uniti della paura
  18. 15. Sinaloa, Inc.
  19. 16. L’ultima partita
  20. Poscritto
  21. Ringraziamenti
  22. Interviste principali
  23. Bibliografia
  24. Note
  25. Immagini