Gli Argonauti
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Gli Argonauti

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Informazioni sul libro

Cresciuta come la bambina più «normale» nella più tradizionale delle famiglie americane – quelle solo apparentemente felici, in cui i genitori inseguono il sogno pubblicitario della vita esemplare –, Maggie Nelson sceglie di sposare l'artista transgender Harry Dodge, nato uomo in un corpo femminile, e di diventare madre grazie al dono della fecondazione assistita. Il concepimento, momento generativo e dunque trasformativo per eccellenza, diventa l'occasione per parlare della propria esperienza e per esplorare con coraggio e determinazione ogni sfumatura della sua complessa sessualità, senza mai ostentare un nome preciso per i suoi sentimenti, senza nascondere le fantasie più proibite, rifiutando ogni inutile etichetta di genere, ogni sfuggente classificazione, e rivelandosi al pubblico in tutta la sua nudità di donna, di figlia, di madre. Di essere umano.Tra romantiche fughe notturne su Mulholland Drive, confessioni e difficili coming out, Gli Argonauti, diventato subito un caso editoriale in America, è il racconto di una bellezza perennemente in fuga, braccata, incompresa da un mondo che si finge civile, ma che non è ancora capace di abbandonare il retrivo sistema binario secondo il quale le cose o sono buone o sono cattive, o sono normali o sono strane, inaccettabili: queer. Una bellezza travolgente, vera, che non si lascia afferrare.Opera indomabile che fonde narrazione e memoir, testimonianza intima e universale, privata e collettiva, Gli Argonauti è un autoritratto variopinto che rivela nel suo sfondo i dettagli nitidi del nostro tempo, un racconto lirico e potente che trae da un'esperienza straordinaria il più ordinario e assoluto dei desideri umani: quello di poter dire «Ti amo» con profondità e devozione, senza bisogno di declinare queste parole al femminile o al maschile. Ma, soprattutto, quello di vivere un amore che non soffochi nelle regole grammaticali dei pronomi.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788865765326

Gli Argonauti
a Harry
Ottobre 2007. I venti di Santa Ana strappano la corteccia dagli eucalipti in lunghe strisce bianche. Sfidando i rami spezzati, un’amica e io decidiamo di pranzare all’aperto. Mi suggerisce di tatuarmi sulle nocche la parola DIFFICILE, come promemoria dei potenziali frutti di una simile messinscena. Invece, le parole Ti amo mi sono uscite di bocca come un singulto trasognato, la prima volta che mi hai inculato, con la faccia schiacciata sul pavimento di cemento del tuo pittoresco e umidiccio rifugio da scapolo. Tenevi Molloy sul comodino e una catasta di cazzi in una doccia buia che non usava nessuno. Può andare meglio di così? Che cosa ti piace? mi avevi domandato. Ed eri rimasto ad aspettare una risposta.
Prima di incontrarci, avevo creduto per una vita intera all’idea wittgensteiniana secondo la quale l’indicibile farebbe – indicibilmente! – parte del detto. Un’idea decisamente meno popolare rispetto alla ben più riverita Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere, ma che comunque rappresenta, credo, il concetto più profondo. Il paradosso che esprime, in maniera piuttosto letterale, è perché scrivo, o come faccio a sentirmi ancora in grado di scrivere.
Perché non alimenta o intensifica l’angoscia che si potrebbe provare di fronte all’incapacità di articolare a parole quello che ci sfugge. Non castiga quello che riusciamo a dire a causa di quello che, per definizione, non possiamo esprimere. E nemmeno lo trasforma in farsa, fingendo che qualcosa ci sia andato di traverso: Oh, che cosa ti direi, se solo le parole fossero sufficienti. Le parole sono sufficienti.
Non si può rimproverare a un setaccio di essere pieno di buchi, ci ricorda la mia enciclopedia.
In questo modo, il pavimento di terra battuta della tua chiesa vuota potrà essere spazzato fino a diventare immacolato e, allo stesso tempo, le spettacolari vetrate policrome potranno continuare a splendere lungo la navata della cattedrale. Perché nulla di quello che dirai riuscirà a mandare a puttane lo spazio di Dio.
L’ho già spiegato altrove. Ma ora sto cercando di dire qualcosa di diverso.
Non ci ho messo molto a scoprire che hai passato tutta la vita fermo nella convinzione che le parole non siano mai sufficienti. Non solo le parole non sono sufficienti, ma corrodono tutto quello che c’è di bello e di vero. Tutto quello che è in divenire. Ne abbiamo discusso e ridiscusso febbrilmente, senza mai arrivare al litigio. Una volta che diamo un nome a una cosa, mi hai detto, non possiamo più guardarla nella stessa maniera. Tutto quello che c’è di innominabile svanisce, si perde, viene assassinato. La funzione da «stampino per biscotti» della nostra mente, ecco come l’avevi chiamata. Non l’avevi scoperto ripudiando il linguaggio, mi hai spiegato, ma immergendoti in esso. Sullo schermo, nelle conversazioni, sul palcoscenico, tra le pagine. Io ribattevo citando Thomas Jefferson e tutte le chiese, mirando all’accumulazione, alla mutevolezza caleidoscopica, all’eccesso. Le parole non servono soltanto a denominare, insistevo. Ti leggevo a voce alta l’incipit delle Ricerche filosofiche. Slab, ti gridavo, slab!
Per qualche tempo ho creduto di aver vinto. Ero riuscita a farti ammettere che potevano esistere degli esseri umani ok, degli animali umani ok, nonostante quegli animali umani usassero il linguaggio, nonostante il loro uso del linguaggio fosse in qualche modo responsabile della definizione stessa della loro umanità, e nonostante fosse proprio la loro umanità, in sé e per sé, a implicare la distruzione e la devastazione del nostro prezioso e multiforme pianeta, insieme al suo e al nostro futuro.
Ma ero cambiata anch’io. Ammiravo con occhi nuovi ogni cosa innominabile, o per lo meno le cose che custodiscono un’essenza tremolante e in divenire. Mi sono riconciliata con la malinconia della nostra inevitabile estinzione e con l’ingiustizia dell’estinzione che imponiamo agli altri. Ho smesso di ripetere con arroganza Quanto può dirsi, si può dir chiaro [Ludwig Wittgenstein], e ho ricominciato a domandarmi, da zero, se proprio tutto fosse pensabile.
E tu, quando ti mettevi a discutere, non fingevi mai che qualcosa ti fosse andato di traverso. A dire il vero, eri sempre un passo avanti a me, le parole ti fluivano alle spalle, come una scia. Come potevo sperare di raggiungerti (intendo dire: come potevi volermi davvero?).
Qualche giorno dopo la mia dichiarazione d’amore, ormai preda di un feroce senso di vulnerabilità, ti ho mandato una citazione tratta da Barthes di Roland Barthes, quella in cui Barthes descrive la persona che pronuncia per prima la frase «Ti amo» come «l’Argonauta che ripara e rinnova la sua nave durante il viaggio senza cambiarle il nome». Le parti della Argo potranno essere rimpiazzate nel tempo, ma la nave continuerà a chiamarsi Argo. Allo stesso modo, tutte le volte che l’innamorato dirà «Ti amo», il significato della sua dichiarazione verrà rinnovato a ogni utilizzo, visto che «il compito fondamentale dell’amore e del linguaggio è quello di conferire alla medesima frase inflessioni per sempre nuove».
Mi sembrava una citazione romantica. Tu l’hai interpretata come una potenziale ritrattazione. Con il senno di poi, credo fosse entrambe le cose.
Hai perforato la mia solitudine, ti ho detto. Era stata una solitudine utile, costruita su una sobrietà recentemente riconquistata, una lunga serie di avanti e indietro dal centro Y, attraversando a piedi le sordide stradine secondarie di Hollywood, invase dalla bouganvillea, viaggi serali in auto su e giù per Mulholland Drive per ammazzare il tempo nelle notti più lunghe e, ovviamente, attacchi di folle grafomania, durante i quali cercavo di imparare a scrivere senza rivolgermi a nessuno in particolare. Ma il momento per una perforazione era arrivato. Sento di poterti dare tutto, senza dover rinunciare a me stessa, ho sussurrato a letto, nel tuo seminterrato. Se una persona riesce a governare la propria solitudine, questo è il prezzo da pagare.
Qualche mese dopo, abbiamo passato il Natale insieme a San Francisco, in un albergo del centro. Avevo prenotato la stanza online, nella speranza che il fatto stesso di averla prenotata e il tempo che ci avremmo trascorso dentro sarebbero bastati a farmi amare da te per l’eternità. Si scoprì che era uno di quegli alberghi che svendevano le prenotazioni perché stavano attraversando un periodo di ristrutturazioni incredibilmente brutali, e anche perché era schiaffato nel bel mezzo di Tenderloin, il quartiere del crack. Non che avesse importanza – avevamo ben altri affari di cui occuparci. I raggi del sole filtravano dalle veneziane sgangherate, che bastavano a malapena a schermarci dai muratori che si accanivano contro la facciata esterna, mentre noi ci davamo da fare. Vedi di non uccidermi, ti ho detto sorridendo mentre ti sfilavi la cintura di pelle.
Dopo Barthes, ho fatto un altro tentativo, questa volta con il frammento di una poesia di Micheal Ondaatje:
Baciare lo stomaco
baciare il vascello della tua pelle
segnata. Hai viaggiato
sulla storia ed è quello
che porti con te
Gli stomaci di entrambi
sono stati baciati da sconosciuti
all’altro
e per quanto mi riguarda
benedico chiunque
ti abbia baciata qui
Non ti ho mandato il frammento perché avevo trovato il modo di appropriarmi della serenità che emanava. Te l’ho mandato nella speranza di farcela, un giorno; la mia gelosia, prima o poi, si sarebbe affievolita, e sarei riuscita a tollerare la vista dei nomi e delle immagini di altri impressi sulla tua pelle senza sconquassamenti o disgusto. (All’inizio, con grande romanticismo, eravamo andati a trovare il dottor Tattoff su Wilshire Boulevard. La prospettiva di ripulirti completamente ci faceva girare la testa. Ma ce ne siamo andati avviliti, sia per il prezzo sia per l’improbabilità di poter strappare via completamente l’inchiostro.)
Dopo pranzo, l’amica che mi aveva suggerito di tatuarmi la parola DIFFICILE mi invita nel suo ufficio e si offre di googlarti al posto mio. Vuole verificare se Internet sarà in grado di rivelarci il pronome preferenziale da utilizzare per te, visto che – nonostante (o proprio grazie al fatto che) si passi a letto insieme ogni momento libero e si parli già di andare a vivere insieme – non riesco a costringere me stessa a chiedertelo. Sono rapidamente diventata, invece, un’esperta nell’arte di aggirare i pronomi. Il segreto sta nell’allenare l’orecchio a sentir ripetere il nome di una persona ancora e ancora, senza infastidirsi. Bisogna imparare a trovare riparo in vicoli ciechi grammaticali e a rilassarsi nel bel mezzo di un’orgia di casi particolari. Bisogna imparare a tollerare l’esistenza di una casistica che superi il Due, nel momento preciso in cui si tenta di rappresentare una relazione; o un legame nuziale, addirittura. Le nozze sono il contrario della coppia. Non ci sono più macchine binarie: domanda-risposta, maschile-femminile, uomo-animale ecc. Ecco, una conversazione potrebbe essere semplicemente questo: il tracciato di un divenire [Gilles Deleuze / Claire Parnet].
Per quanto si possa diventare abili in questo genere di conversazioni, ancora oggi mi è quasi impossibile prenotare un volo o negoziare a nome nostro con il mio reparto risorse umane senza provare una vampata di vergogna o di sbigottimento. Ma la vergogna e lo sbigottimento non appartengono realmente a me: è come se mi vergognassi per – o se fossi semplicemente arrabbiata con – la persona che insiste nel fare tutte le supposizioni sbagliate e che deve quindi essere corretta, senza poter essere davvero corretta, visto che le parole non sono sufficienti.
Com’è possibile che le parole non siano sufficienti?
In preda ai patemi d’amore, sbircio all’insù dal pavimento dell’ufficio della mia amica e la osservo mentre si fa strada in un groviglio di informazioni abbaglianti che non ho intenzione di assimilare. Di te desidero quello che nessun altro può vedere, ti voglio così vicino da non aver mai bisogno di usare la terza persona. «Guarda, qua c’è una frase di John Waters che dice: “Certo, lei è un bel tipo”. Forse dovresti usare il “lei”, a questo punto. Voglio dire, è pur sempre John Waters.» È successo un anno fa, dal pavimento alzo ora gli occhi al cielo. Le cose potrebbero essere cambiate.
Per il vostro film By Hook or By Crook, tu e il tuo cosceneggiatore, Silas Howard, avevate deciso che i personaggi butch dovevano utilizzare, tra di loro, «lui» e «gli», mentre nel mondo esterno, quello dei supermercati e delle figure autoritarie, le persone avrebbero dovuto rivolgersi a loro con «lei» e «le». Il punto non stava tanto nel fatto che, educando in maniera impeccabile il mondo esterno riguardo ai pronomi che i personaggi prediligevano –, tutto quanto sarebbe filato liscio come l’olio. Infatti, se un estraneo si fosse rivolto ai personaggi con il «lui», sarebbe stato un diverso tipo di lui. Le parole cambiano in base a chi le pronuncia: non c’è scampo. La risposta non sta soltanto nell’introdurre nuove parole (come boi, cisessuale, andro-fag) e nel lanciarsi in una missione di affermazione del loro significato (anche se, ovviamente, in questo ci sono potere e pragmatismo). Bisogna anche prestare attenzione alla moltitudine dei possibili utilizzi, dei possibili contesti, alle ali che sosterranno il volo di ogni parola. Come quando mi sussurri: Sei solo un buco, che mi permette di farsi riempire. Come quando io dico marito.
Poco tempo dopo esserci messi insieme, andammo a una cena dove una donna (presumibilmente etero o, per lo meno, sposata con un etero) che conosceva Harry da un po’, venne da me e mi disse: «Allora, sei stata con altre donne, prima di Harry?». Mi colse di sorpresa. Lei, imperterrita, continuò: «Le signore etero vanno pazze per Harry, da sempre». Harry era una donna? E io ero una signora etero? Le mie relazioni precedenti con «altre donne» avevano qualcosa in comune con questa? Perché mai dovevo mettermi a pensare alle altre «signore etero» che andavano matte per il mio Harry? Il suo potere sessuale, di cui già avevo potuto percepire l’immensità, era una sorta d’incantesimo che mi aveva ormai intrappolata e dal quale sarei riemersa solo per fronteggiare l’abbandono, mentre lui si allontanava per sedurre qualcun altro? Perché questa donna, che conoscevo a malapena, mi stava parlando in quel modo? Quand’è che Harry sarebbe tornato dal bagno?
Alcune persone là fuori trovano irritante il fatto che Djuna Barnes, invece di definirsi lesbica, preferisse dire che «amava Thelma, e basta». Apparentemente, anche Gertrude Stein affermava qualcosa di simile, anche se non proprio in questi termini, a proposito di Alice. Capisco bene perché la cosa sia così frustrante dal punto di vista politico, ma l’ho sempre trovata anche un po’ romantica: trovo romantico che un’esperienza di desiderio individuale possa avere la precedenza su una categorizzazione. Il che mi fa venire in mente lo storico dell’arte T.J. Clark e la difesa che mise in campo contro i suoi interlocutori immaginari riguardo al suo interesse per il pittore del diciottesimo secolo Nicolas Poussin: «Definire nostalgico o elitista il mio interesse per Poussin è come definire l’interesse che si prova, per dire, nei confronti della persona che ci sta più profondamente a cuore come “etero- (o omo-) sessista”, o “esclusivo” o “padronale”. Chiaro, le cose potrebbero stare davvero così: quelli, all’incirca, potrebbero essere i parametri – malauguratamente; ma l’interesse in sé potrebbe comunque rivelarsi più completo e umano, e contenere comunque maggiori potenzialità umane e possibilità di comprensione, di un interesse non contaminato da simili emozioni e pulsioni». Qui, come altrove, la contaminazione crea profondità, più che degradazione.
In ogni caso, tutti sanno bene che la Barnes e la Stein avevano stretto relazioni con donne diverse da Thelma e Alice. Anche Alice lo sapeva: da quel che si dice, quando scoprì che Q.E.D., il romanzo giovanile della Stein, era il racconto in codice del triangolo amoroso che includeva la stessa Stein e una certa May Bookstaver, Alice – che era anche la sua redattrice e dattilografa – si ingelosì a tal punto da trovare subdolamente il modo di omettere completamente la parola May o may quando dovette ribattere a macchina Stanzas in Meditation, diventando, da quel momento in poi, una collaboratrice non gradita.
A febbraio sfrecciavo già in macchina per tutta la città, visitando un appartamento dopo l’altro nel tentativo di scovarne uno grande abbastanza per noi e per tuo figlio, che non avevo ancora incontrato. Finì che trova...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Gli Argonauti
  3. Ringraziamenti