Il  senso della fine
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Il senso della fine

Studi sulla teoria del romanzo

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Il senso della fine

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«Esiste ancora un bisogno di parlare in termini umani dell'importanza della vita: un bisogno, che ci accompagna durante l'esistenza, di appartenersi, di potersi riferire a un inizio e a una fine.»Qual è il rapporto tra romanzo e Apocalisse? In apparenza nessuno. Ma non è quello che pensa Frank Kermode, uno dei più importanti critici letterari del Novecento. La sua tesi, in questo libro ritenuto un classico, è che solo il romanzo abbia ereditato dall'immaginario apocalittico – in un'epoca secolarizzata come la modernità – quel «senso della fine» in cui trova forma la nostra umana pretesa che la vita abbia una struttura, un compimento, e non sia un lento sgocciolare verso il non essere attraverso le riarse sterpaglie del non senso. Apocalisse e romanzo postulano invece un disegno, una trama, una figura di destino, un «non ancora» saturo di possibilità che riscatti e dia senso anche a ciò che è già stato.Il senso della fine è oggi attualissimo, ora che l'immagine dell'Apocalisse, nella forma della catastrofe ecologica da noi stessi provocata, è tornata a bussare alle nostre porte, agitata da profeti veri o falsi che siano.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788865768006

1. La fine

… comincia, allora, il Giudizio Finale e la sua immagine appare, diversa per ognuno, nello sguardo.
William Blake
Possiamo soltanto passeggiare nella nostra Londra, città istruita e accogliente, col desiderio di urlare liberamente come urlavano coloro che morirono nell’Epoca della Fede. Abbiamo solitudine e rimpianto per costruire una escatologia.
Peter Porter
Per i critici non è come per i poeti, che ci aiutano a dare un senso alla nostra vita; quello dei critici è un compito minore ed è limitato alla spiegazione dei modi con cui noi cerchiamo di dare un senso alla nostra vita. La serie di chiacchierate che seguiranno è consacrata a tale scopo; chiacchierate che – lo so bene – né i buoni libri, né i buoni consigli hanno potuto interamente spogliare di ignoranza e di limitazioni. Mi conforta, però, la convinzione che l’argomento è certamente interessante; soprattutto in un’epoca in cui può risultare più difficile che mai accettare vecchie spiegazioni: credere che le vecchie spiegazioni della vita, adeguate alle idee del tempo, possano ancora valere qualcosa.
Vi ricordate dell’uccello dorato del poema di Yeats? Cantava del passato, del presente e del futuro ed era così che teneva desta l’attenzione di un Imperatore insonnolito. Per far questo l’uccello doveva essere «al di là della natura»; parlare in termini umani di divenire e di conoscenza è compito di un essere puro, e questo essere, nel poema di Yeats, è rappresentato umanamente da un uccello finto. «L’artificio dell’eternità» è una calzante perifrasi che vuol dire «forma», che indica «le immagini che consolano le generazioni dei mortali». A questo proposito fa poca, davvero poca differenza credere che il mondo abbia seimila anni oppure che ne abbia cinque milioni, credere che il tempo si fermerà oppure che il mondo è eterno. Esiste ancora un bisogno di parlare in termini umani dell’importanza della vita: un bisogno, che ci accompagna durante l’esistenza, di appartenersi, di potersi riferire a un inizio e a una fine.
Il medico Alcmeone osservava, con l’approvazione di Aristotele, che gli uomini muoiono perché non riescono a ricongiungere inizio e fine. Ciò che i mortali possono fare è dare un significato, che valga per loro stessi, a eventi di cui hanno perduto la memoria e che ricordano soltanto. E uno dei modi che scelgono per farlo è quello di costruirsi degli oggetti nei quali regni piena armonia, immaginando che questa armonia rispecchi le disposizioni di un reale o possibile creatore:
… as the Primitive Forms of all
(If we compare great things with small)
Which without Discord or Confusion lie,
In that strange Mirror of the Deitie.1
Questi modelli del mondo rendono tollerabile, fra inizio e fine, la nostra esistenza; e in ogni caso, se siamo degli imperatori insonnoliti, ci tengono svegli. Oltre all’uccello dorato ci sono altri profeti, e noi abbiamo la capacità di decidere se sono falsi o antiquati. Non parlerò, ora, soltanto delle finzioni, ma anche della loro validità e della loro decadenza. C’è, poi, il problema del nostro crescente sospetto verso le finzioni in generale. Eppure sembra che ne abbiamo ancora bisogno. Siamo poveri abbastanza – mi riferisco alla profonda idea di Wallace Stevens – in un mondo che non possediamo, per doverci preoccupare, continuamente, di sempre nuove costruzioni fantastiche.
Iniziamo a parlare delle immagini della Fine, dei modi in cui, sotto la spinta di diverse pressioni esistenziali, abbiamo immaginato la fine del mondo. Avremo così delle indicazioni sui modi con cui queste immagini – che hanno fine e inizio consonanti e vanno inaspettatamente d’accordo con immagini precedenti – soddisfano i nostri bisogni.
Iniziamo, dunque, con l’Apocalisse, che finisce, trasforma ed è concordante.
Parlando in generale, il pensiero apocalittico appartiene a un’idea del mondo rettilinea piuttosto che ciclica (sebbene la distinzione non sia così netta); e anche nel pensiero ebraico, fino a che non venne meno la profezia, non ci fu un vero e proprio pensiero dell’Apocalisse, pensiero che, invece, appare nel periodo che gli studiosi chiamano «Intertestamentario». L’idea di base, comunque, è quella di un’ordinata serie di avvenimenti che finiscono non in un grande Nuovo Anno, ma in un Sabbath finale. Avvenimenti che traggono il loro significato da un sistema unitario e non dalla loro corrispondenza con avvenimenti di altri cicli.
Ciò cambia gli avvenimenti stessi e le loro relazioni temporali. Sappiamo che, in Omero,2 gli episodi dell’Odissea sono riferiti a un rituale ciclico; il tempo che intercorre fra di loro è insignificante o addirittura nullo. Virgilio, invece, descrivendo il viaggio di Enea dalla città di Troia distrutta a Roma, che rappresenta l’Impero senza fine, è più vicino alla nostra tradizionale immagine dell’Apocalisse, ed è per questo che il suo imperium è stato usato dal pensiero occidentale, dominato dall’idea dell’Apocalisse, per definire la Città di Dio. Nel viaggio di Enea gli episodi sono raccontati «dal di dentro»; vivono proiettati nell’ombra della fine. Erich Auerbach fa un discorso analogo, nel capitolo iniziale di Mimesis, contrapponendo la storia della ferita di Odisseo alla storia del sacrificio di Isacco; laddove la seconda storia subisce continue modificazioni in rapporto a ciò che si conosce del piano divino che abbraccia la Creazione e i Giorni Finali: è sempre aperta alla storia, alla reinterpretazione – ricordiamoci che importanza aveva per Kierkegaard questo episodio – nei termini delle diverse interpretazioni del mondo stabilite dall’uomo. L’Odissea, in questo senso, non si può dire «aperta». Virgilio e la Genesi appartengono a un nostro mondo di idee condizionate dal pensiero della fine; le loro storie sono situate in quel punto in cui ogni tempo è presente, che Dante chiama: il punto a cui tutti li tempi son presenti; oppure nella sua ombra. Ogni attimo ne è riempito. E sebbene per noi l’idea della Fine abbia perduto il suo primitivo significato di imminenza, la sua ombra è tuttora proiettata sulle nostre tormentate invenzioni; possiamo dire che l’idea della fine è un’idea immanente.
Cercherò di dimostrare tutto questo nella seconda parte del mio discorso. Per ora diamolo per scontato. È certo che, nei loro caratteri generali, le nostre finzioni si sono discostate dalla semplicità del paradigma, sono diventate più «aperte». Eppure conservano ugualmente – e sarà sempre così finché l’uomo continuerà a essere profeta – un contatto tangibile con le semplici immagini del mondo. L’Apocalisse è un esempio radicale di queste finzioni ed è sorgente di finzioni nuove. Parleremo proprio di questi due aspetti dell’Apocalisse: simbolo e sorgente di finzioni. Poiché la fine di un qualsiasi discorso è tutto sommato sempre presente, in esso, fin dall’inizio, farò ora drastiche anticipazioni sperando che il fatto di concentrarmi su aspetti di fondamentale importanza per i miei ragionamenti non svilisca gli altri.
La Bibbia è un tradizionale modello di storia. Inizia con un inizio («In Principio…») e finisce con una immagine della fine («Anche se è così, vieni, Signore Gesù»); il primo libro è la Genesi, l’ultimo è l’Apocalisse. Idealmente, è una struttura interamente concordante: la fine è in armonia con l’inizio, il centro con l’inizio e con la fine. Per tradizione si pensa che la fine, cioè l’Apocalisse, riassuma in sé questa intera struttura; ciò può avvenire soltanto in un modo: con immagini profetiche di ciò che di tale struttura non è stato ancora storicamente rivelato. Il libro dell’Apocalisse si è fatto strada solo lentamente nel canone accettato – e la religione greco-ortodossa ancora non lo riconosce – forse proprio a causa di un colto scetticismo nei confronti di interpretazioni troppo letterali delle profezie. Ma una volta introdotto, il libro ha mostrato, e continua a farlo, una vitalità e delle risorse che lo pongono in perfetto accordo con i nostri più primitivi bisogni di finzioni.
Gli uomini, come i poeti, quando nascono irrompono «nel mezzo»,3 in medias res; muoiono anche in mediis rebus e, per dare un senso al loro breve respiro, hanno bisogno di crearsi una fittizia armonia fra inizio e fine, che poi vuol dire dare un significato alla vita e alla poesia. La Fine che immaginano rifletterà le loro insopprimibili preoccupazioni intermedie. Essi la temono; l’hanno sempre temuta: la Fine è l’immagine della loro morte. (Forse è per questo che ogni rappresentazione della fine, in narrativa, ha sempre avuto il significato – prendiamo per esempio il caso di Kenneth Burke – di una liberazione catartica.)
Si è detto, talvolta – e sono critici molto diversi tra loro a proporlo: D.H. Lawrence e Austin e Farrar4 – che dietro il libro dell’Apocalisse si nasconde una oscurissima impalcatura di miti che sono stati, più tardi, volgarizzati con momentanee spiegazioni: ma esiste desiderio più profondo di quello di umanizzare la morte? Durante la nostra sopravvivenza ci costruiamo delle piccole immagini di momenti che possono aver avuto un significato di fine; andiamo avanti creando delle «epoche». Fowler osserva austeramente che se fossimo sempre seri quando parliamo di «fine di un’epoca» dovremmo vivere in una perenne transizione; recentemente Harold Rosenberg5 ha affermato proprio questo. Gli studiosi sono consacrati al concetto di epoca e i filosofi – soprattutto Ortega y Gasset6 e Jaspers7 – hanno cercato di dargli una definizione. Il problema è interamente nelle nostre mani, naturalmente; e l’interesse con il quale lo affrontiamo dimostra il nostro profondo bisogno di dare una spiegazione alla Fine. Proiettiamo noi stessi – un minuscolo e umile numero di eletti, magari – oltre la fine, in modo da poter vedere, così, tutta intera, la struttura, avere quelle immagini che ci mancano quando siamo nel mezzo, nei nostri spazi angusti.
L’Apocalisse non è altro che un armonico impasto di immagini – immagini del passato e immagini profetiche del futuro – creato per noi che stiamo «nel mezzo». Le sue profezie, anche se simboliche, possono essere prese alla lettera: ciò vuol dire che è assai probabile che tutto ciò che avverrà si conformi a quelle immagini. Questa attesa fa nascere parecchie difficoltà. Ci chiediamo chi è la Bestia che viene dalla Terra, oppure chi è la Donna Vestita di Sole. Cosa significa un tale numero o a quali eventi si riferiscono i Sette Sigilli. Dove, nel corpo della storia, vedremo le ferite provocate dal regno di tre anni e mezzo; cos’è Babilonia; chi è il Cavaliere Fedele e Verace. Dalla nostra posizione di privilegio possiamo essere sicuri della possibilità, che avremo, di accordare i fatti della storia con queste immagini. E non possiamo sbagliare; non fosse altro che per l’aspetto del mondo, che ci mostra con tanta chiarezza come il secondo avvento sia imminente, donec finiatur mundus corruptionis. La maggior parte delle interpretazioni dell’Apocalisse prevede che la Fine sia assai vicina. Di conseguenza si è sempre dovuto riesaminare l’allegoria storica; il tempo la smentisce. E questo è importante. L’Apocalisse può venir meno a delle conferme senza, per questo, subire nessun discredito. Potremmo dire che l’Apocalisse è straordinariamente «elastica». Riesce ad assorbire mutamenti e anche Apocalissi «rivali», come per esempio gli scritti della Sibilla. Sopporta alterazioni e le sofisticazioni della storiografia. Può diffondersi, mescolata con altre varietà di finzioni – la tragedia, per esempio, o i miti dell’Impero e della Decadenza – e sopravvivere in forme assolutamente semplici. Anche il più raffinato di noi, ne son certo, è capace a volte, di fronte alla Fine, di reazioni semplicissime.
Diamo un’occhiata ad alcuni tratti di questo «primitivo» pensiero apocalittico. I protocristiani furono i primi a sperimentare i mancati appuntamenti delle profezie: si è detto che le apostasie del ii secolo furono la conseguenza di questa «disperazione escatologica», come la chiama Bultmann.8 Ma le mancate conferme «alla lettera» hanno anche a che fare con la tipologia, l’aritmetica e forse con la leggerezza, in generale, dei chiliasti. È possibile, cioè, che una profezia sbagliata debba essere attribuita a un errore di calcolo: o nel numero o nell’allegoria. E se si vuole proprio insistere che è Nerone l’Anticristo o Federico ii l’Imperatore degli Ultimi Giorni, non bisognerà poi sentirsi troppo avviliti se la convinzione si dimostrerà sbagliata perché, a questo livello di astrazione storica, si può sempre aver fiducia che tale convinzione ritorni a dimostrarsi in un momento più adatto; e si troverebbero di certo altri testi profetici a supporto.
Con questa libertà, questo potere di manipolare i dati al fine di costruire le impalcature volute, è possibile naturalmente stabilire per la Fine la data che si vuole. Senza dubbio la più famosa di tutte le profezie è quella che fissava la Fine nell’anno mille. Si pensa ora che gli antichi storici abbiano esagerato descrivendo il «Terrore» di quell’anno; è certo, però, che si produsse, allora, una caratteristica crisi apocalittica. L’opinione di sant’Agostino che faceva coincidere il millennio con i primi mille anni dell’era cristiana, era una conferma delle convinzioni che il mondo stesse per raggiungere la sua fine e che l’Apocalisse, già fin d’allora risolta in mirabili forme iconografiche, fosse imminente. Terrore e Decadenza sono due degli elementi che più spesso ricorrono nei modelli dell’Apocalisse; la Decadenza è di solito associata con la speranza di rinnovamento. Un altro elemento, che sarà sempre presente nei modelli apocalittici, venne messo bene in luce nella crisi dell’anno mille: un colto scetticismo. La Chiesa disapprovava queste profezie esatte della Fine. Una delle voci di protesta fu il Libellus de Antichristo del monaco Adso che, nel 954, scrisse che la fine del mondo non poteva essere profetizzata e che, in ogni caso, non si poteva compiere fino a che non si fosse realizzata una completa restaurazione dell’Impero (dottrina profetica, in definitiva, anche questa) e fino a che un Imperatore franco, al termine di un pacifico regno universale, non avesse deposto lo scettro sul Monte degli Ulivi. La Chiesa cercò in tutti i modi di demitizzare l’idea dell’Apocalisse anche se il monaco Adso non faceva altro che gettar discredito su «invenzioni» fondate sui numeri sostituendovi altre «invenzioni», a sfondo imperiale, che a noi sembrano ugualmente fantastiche. In realtà la mitologia imperiale e quella apocalittica avevano parecchi punti di contatto. In ogni modo, fra le persone colte, era diffusa una specie di scetticismo: ci si rendeva conto che le profezie «aritmetiche» della Fine erano destinate a essere smentite.
Arrivò l’anno mille, accaddero alcuni pro...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Per un buon uso della fine del mondo
  4. Prefazione
  5. 1. La fine
  6. 2. Romanzi
  7. 3. Mondo senza fine o inizio
  8. 4. L’Apocalisse moderna
  9. 5. Finzione letteraria e realtà
  10. 6. Cella di isolamento
  11. Epilogo
  12. Note