Eclissi del Dio unico
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Eclissi del Dio unico

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Eclissi del Dio unico

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Indice dei contenuti
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Informazioni sul libro

Oggi Dio si è disciolto come una montagna di ghiaccio e con lui è crollato il pilastro su cui stava abbarbicata la cultura occidentale. Con questa immagine sconcertante si apre il libro di Ferruccio Parazzoli, dove il sublime e l'abisso s'incrociano. La scrittura di Parazzoli è un incalzare di affermazioni demistificanti e di immagini ribaltanti, è la messa in scena di un dramma. A capitoli di lucido sconcerto sull'attuale disorientamento dell'uomo occidentale si alternano capitoli visionari. Fino alla chiusa commuovente y final de "La cerimonia dell'addio".

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788865761984

1. A proposito dello scongelamento dell’Antartide

L’Asse di Wilkins

C’è un punto di partenza obbligato, nonostante sia pietosamente taciuto: l’assoluta, irrinunciabile necessità di riconoscere la dissoluzione del monoteismo prima di tentare una descrizione dell’attuale condizione umana rifiutando i fallimentari trabocchetti dei sistemi filosofici e teologici.
Il fenomeno del disgelo del monoteismo è paragonabile, per cause ed effetti già da tempo in atto e, soprattutto, in divenire, all’accelerato disgelo dell’Asse di Wilkins nella calotta polare antartica, con le relative conseguenze. È stato ipotizzato che nemmeno i più rigidi inverni riusciranno a fermare il collasso dell’Asse di Wilkins, la piattaforma glaciale antartica vasta oltre quattrocento chilometri quadrati, di cui una parte si sarebbe già distaccata frantumandosi e andando alla deriva con un impulso di disgelo capace di produrre una trasgressione massima di innalzamento globale del livello dei mari.
Il disgelo del monoteismo, asse della civiltà occidentale, sta provocando mutamenti sempre più evidenti di valori e disvalori, mentre frammenti, di maggiore o di minore mole, di quello che fu l’asse monoteistico vanno alla deriva come i ghiacci vagabondi dell’Asse di Wilkins, urtando, divergendo, conflagrando tra loro, iceberg senza meta, destinati a disciogliersi nella massa anonima delle acque, ultimi lacerti di un’entità di un Polo scongelato, di un Asse in dissoluzione.
La dissolvenza del polo monoteista è il dissolvimento del Dio Unico, del «Non avrai altro Dio» come asse della cultura occidentale.
È necessario rendersene conto.

Il coraggio di disperare

Rendersi conto. Espressione apparentemente irrilevante nella banalità del suo uso comune. «Ma ti rendi conto?» Di questo, di quello. «Ma ti rendi conto?»: quasi sempre con un sorriso di accompagnamento appena accennato. C’è stata una gaffe, un qui-pro-quo che, in genere, può passare per divertente. Ma se l’interrogazione si muta in ingiunzione, diventa minaccia: «Renditi conto». Sei chiamato alla consapevolezza, non ne uscirai se non dopo essertene fatta una ragione ben chiara. Di questo, di quello. Non farai più neppure un passo innanzi se prima non ti sarai «reso conto».
In realtà, è quanto facciamo ogni giorno: non vado a dormire senza rendermi conto che ho sonno, non mangio senza rendermi conto che ho fame, non orino senza rendermi conto che ho la vescica colma, non pigio l’acceleratore senza rendermi conto di avere strada libera, non abbandono una compagnia senza rendermi conto che è noiosa, non divorzio senza rendermi conto che la convivenza è diventata impossibile, non abbandono Dio senza rendermi conto che non credo più in lui.
Rendersi conto: una riflessione che può cambiare una vita.
È proprio di questo, di cui rendo conto, di cui è necessario rendersi conto: perché sono qui, e qui dove, e che cosa c’è intorno a me, e dove posso da ora innanzi dirigere i miei passi e se è ancora il caso che li diriga da qualche parte o non, invece, che me ne resti immobile rifiutando ogni partecipazione, tentando di giungere a quella eliminazione del dolore indicata dal Buddha e consentire al fatto che non c’è alcuna risposta perché ogni domanda è priva di senso.
«Ti rendi conto?» Domanda priva di senso: non ha risposta.
Secoli di storia occidentale impediscono all’uomo d’Occidente l’estraneazione dal mondo che egli stesso, con dichiarata superbia, è andato creandosi: da Dio al grattaschiena telescopico. Destino dell’uomo d’Occidente è porsi delle domande e pervenire a delle risposte. Non gli è concesso bloccarsi a metà del tunnel, inevitabile continuare a percorrerlo anche nella certezza che non avrà fine e che l’uscita è solo ipotetica, un atto di fede come credere nell’Aldilà una volta percorso il tunnel della vita.
Questo il nostro coraggio, questa la nostra estrema disperazione molto simile a un’estrema speranza.

La voce della tempesta

Sembra assurdo parlare di felicità. Ma se è assurdo oggi, lo era certamente, e forse più, anche ieri. Il nostro tempo, infatti, ci appare come il peggiore in assoluto per cui sembra lecito lamentarsi, cosa che dà comunque una mesta soddisfazione.
Quando si tratta di parlare di felicità, recalcitriamo, ci tiriamo indietro, non ci sentiamo preparati, tanto riteniamo estraneo l’argomento alla nostra comune esperienza.
Certo, la felicità si suppone che esista. Chi è mai colui che possa negarne anche la semplice eventualità? Un giorno, una notte, un’ora, un minuto: chi non l’ha vista, anche una sola volta, attraversare, splendida e irridente, il grigiore della propria vita? La felicità ciascuno di noi l’ha assaggiata o ha creduto di assaggiarla. Quell’attimo fuggente che brilla nei Carmina di Orazio come qualcosa di unico e risplendente che nulla potrà mai più cancellare. Ma se la felicità fosse solo in quell’attimo indimenticabile, per il resto dei nostri giorni la felicità non sarebbe altro se non la nostalgia di quell’attimo. Ecco calare il silenzio, il rifiuto di parlarne, il mezzo sorriso che ci attraversa il volto quando qualcuno, indiscreto, ci domanda: «Sei felice?».
Orazio non solo ci invita a essere riconoscenti alla vita che ci ha donato quell’ineguagliabile attimo, ma soprattutto a riconoscere un uomo felice in colui che, alla fine della giornata, possa dire: «Ho vissuto» e non importa se domani il cielo sarà oscuro oppure se risplenderà il sole. Ma Orazio non aveva alcun dio a cui rendere conto, nessun dio tramontava nel suo cielo e quanto al tramonto degli dèi è pur stato un bel tramonto, in bellezza, senza drammi e risentimenti, senza odio e rivalsa si spegnevano da soli per esaurimento di luce: avevano stile nel lasciare la scena.
La felicità, ammaestrano i filosofi bancarottieri, una volta riconosciuta come possibile non va abbandonata all’attesa del caso, ma coltivata come una pianta tenace e gentile. Al di sopra delle tempeste il cielo è sempre sereno, ammonisce il saggio. Oltre il dolore, gli affanni, l’angoscia, scorre il potente fiume della vita così com’è: prendere o lasciare.
Alla base della tanto lamentata infelicità ci sarebbe, dunque, un equivoco: scambiare la felicità per un eccesso di benessere, di fortuna, per un elemento esteriore al flusso quotidiano della vita, qualcosa di eccitante, di sublime, che trascende il quieto divenire nel tempo.
Se la felicità è solo uno splendore di fiamma sarà destinata a una breve durata, risplenderà magnifica la luce, poi si spegnerà e subentrerà il buio. Luce e buio, ancora luce e ancora buio. Illusione, Maya. Ma la vita non è la pallina che, scagliata nel tumultuoso percorso di un flipper, accende quante più luci segnando vertiginosi punteggi, per poi finire nel buio e nel silenzio.
Ho vissuto, dice Orazio, ed è semplicemente questo a rendere felici, ma per dire «ho vissuto» occorre avere la piena coscienza del vivere, una felicità sommessa ma costante, simile a se stessa come il respiro e, come il respiro, pronta a interrompersi. Un saluto, e via.
Attitudine a vivere: strana espressione, scandalosa ai più. Per un errore avvenuto da qualche parte in noi, nella nostra anima, forse, ci sentiamo sempre meno adatti a vivere, ad accettare le apparenti contraddizioni della vita. Fragili barche in attesa di naufragio, balliamo sulle onde, restiamo immobili nella calma piatta. Se la vita ha un senso e la felicità sta nella coscienza di vivere, occorre una mèta verso cui navigare, riconoscenti nella fortuna, fermi nelle avversità. Allora, l’imbarazzante e talvolta frivola «felicità» si muterà nella più umana e solida «fortezza», stato di vita sottratto al capriccio del destino e affidato all’esercizio di una volontà che si adopera a contrapporre la quiete interiore al tumulto esteriore, la sorridente accettazione del limite sapendo che ogni limite è il segno naturale e provvisorio di qualcosa che non si vede ancora, così come il navigante sa che c’è altro oltre l’orizzonte: forse la salvezza nel naufragio.
Avvezzati ad aggrapparci alla terra e alle sue illusorie certezze, pessimi naviganti, se sorpresi dalla tempesta ci sforziamo di cercare la terraferma, sia pure irta di scogli, pur di ritrovare quel suolo familiare che i nostri piedi sono usi a calpestare e che scambiamo erroneamente per una sicura salvezza. Ma il vero navigante sa che puntando alle certezze di cui fu nutrito, si infrangerà miseramente. Per cui, abbandonandole, metterà la prua al largo cercando la salvezza proprio nella tempesta, rifuggendo le finte certezze offerte dalla terra, affrontando il rischio del mare aperto. Se ne ride della promessa felicità come di un mito irrimediabilmente perduto, rifugge l’illusorio richiamo del faro che ci promette di carpire il segreto del mondo, di dare una risposta al senso della vita, ormai abbandonato fin dagli ultimi guardiani e divenuto covo di filibustieri.

Il bambino con la manina

C’è un raccontino di Dostoevskij intitolato «Il bambino con la manina» che inizia sorprendentemente così: «I bambini sono creature strane, vi appaiono in sogno e immaginate di vederli…». Poi inizia a raccontare di come un giorno, vigilia di Natale, abbia incontrato «nella via, al solito angolo», un bambinetto di sette anni, di quelli che gli adulti mandano in giro a chiedere l’elemosina «con la manina», anche nel gelo più terribile… e così via. Una storiella pietosa che si risolve al meglio, per così dire, con Gesù che si porta il bambinetto in cielo, sotto un grande albero di Natale intorno al quale volano finalmente felici tutti i bambinetti come lui, vittime innocenti.
Come segnalibro ho messo tra le pagine il giornale che parla dei bambini nudi bruciati vivi a Beslan, la cronaca del piccolo palestinese ucciso mentre si recava a scuola a Turkarem, la storia di Iman Al-Najar, tredici anni, crivellata di proiettili perché scambiata per un kamikaze. E poi ci ho messo anche la foto di un manifesto di Halloween dove la Morte piscia insieme con altri mostri in una gara da latrina, così come le compete.
Ma non è questo che conta: è «il bambino con la manina». Perché mai, mi chiedo, Dostoevskij scrive una cosa così? Così come? Abbiamo pudore a rispondere. Infatti scambiamo la lacrimosa pietà d’animo del grande scrittore per una inaspettata debolezza, una concessione alla pietà divina contro se stesso, Karamazov che accusa Dio e non altri di quel dolore innocente a cui assiste da millenni dimostrando una scandalosa divina sopportazione. In realtà, Dostoevskij mette nel raccontino della «manina» tutta la sua disperazione.
Dio non c’è, è assente, forse riposa ancora dopo il settimo giorno. Ed ecco, allora, che Dostoevskij manda giù Gesù, o quello che ne rimane dopo l’incontro con il Grande Inquisitore, e gli assegna il compito di rimediare come può, offrendo alla piccola vittima un alberello lucente circondato da altrettanti orfanelli come lui. Che fare di più, povero Cristo? Poiché Dostoevskij sa bene che Gesù non è e non può essere il sostituto di Dio, né può prendere il suo posto anche se è un posto vacante.
Quando Dostoevskij afferma che se messo di fronte alla scelta tra la Verità e Cristo, non esiterebbe a scegliere il Cristo, condanna a morte l’idea del Dio Unico e, in quanto tale, necessariamente Vero. La scelta di Dostoevskij non è, infatti, una scelta di verità, ma di amore, come colui che, seppure messo di fronte a una ipotetica documentata non storicità di Gesù, continuerebbe tuttavia a credere in Gesù piuttosto che all’autenticità dei documenti. Non credo, ma amo: trasferimento impossibile, da una pretesa certezza a un amore gratuito, sul Dio Unico ebraico-cristiano che ne resta escluso, per cui ogni elaborazione di una eventuale nuova aurora dell’uomo occidentale, cosciente del proprio «tramonto», si riversa su Gesù, ancora oggetto del linguaggio collettivo, e non sul Dio monoteista, impossibile oggetto di linguaggio, causa stessa del «tramonto» con il suo inevitabile eclisse.

2. Eclisse del monoteismo

Inattualità del monoteismo

Poiché non è né serio né utile iniziare la nostra obbligata consapevolezza di uomini occidentali sulla nascita, lo sviluppo e la degenerazione del mondo occidentale, dalla lecita soddisfazione di avere inventato il grattaschiena telescopico, sarà inevitabile iniziare da Dio. Cioè dal collasso dell’Asse di Wilkins.
Dispiace, si vorrebbe volentieri farne a meno dopo tutto quello che ne è stato detto e ne è stato scritto – e si continua a dirne e a scriverne – ma il Dio dell’uomo d’Occidente è la principale creazione della moderna civiltà occidentale. Anche se è una modernità che risale – in coabitazione belligerante con i trionfi e i tramonti del politeismo – a migliaia di anni, la sua testa è unita pur sempre a quella coda sottile, quasi inidentificabile, che è andata prendendo sempre più forma, giovandosi di risorgenze e trasformazioni, ma restando tuttavia attaccata al medesimo corpo: la tenia del monoteismo, così come si è andata formando nella mente dell’uomo quando, ancora senza fissa dimora, ancora inconsapevole, aveva dato vita, per necessità e volontà di potenza, a una divorante entità di difesa e distruzione paragonabile, anche se soltanto in infinitesima parte, alla esaltante scoperta della fissione dell’atomo trasformatasi in breve in una opprimente e irrinunciabile tirannia di distruzione.
L’odierno uomo d’Occidente non sopporta più il monoteismo quale egli stesso lo ha creato. L’attuale convivenza, forzata o no, con la pratica del monoteismo islamico – monoteismo più recente e di derivazione, già presente tra noi dalla strada alla moschea, dalla macelleria alla cellula terroristica – ha confermato – seppure ce ne fosse stato bisogno – l’uomo occidentale nella separazione dal monoteismo riconosciuto come simbolo – oltre che causa – di arretratezza civile, sociale, tecnologica, uovo del serpente del fondamentalismo, virus di una violenza che ha il difetto di essere soprattutto inutile alle esigenze economiche e finanziarie della globalizzazione, recente idolo dell’economia occidentale imposto in nome della democrazia.
Il monoteismo ebraico-cristiano non può più convivere come fu un tempo – del resto assai breve e contrastato dalla Chiesa e dagli Imperi occidentali – con il monoteismo islamico per il quale il ritorno (ar-ruj’a) verso l’Unico Dio è l’unico senso del mondo, poiché la civiltà occidentale, ormai tarata sul nichilismo di massa, agisce da corpo opaco nell’eclisse tra il mito del Dio Unico – creato, sopportato, abusato – e l’intero corpo sociale.
Il progressivo oscuramento dell’Istituzione cattolica, unicamente dovuto all’eclisse del monoteismo e scambiato dalle gerarchie ecclesiastiche per un complotto promosso da fantomatiche lobby a causa di un mai superato complesso persecutorio, deborda nel nichilismo debole delle masse nutrite dagli slogan di una comunicazione gridata, in un confuso risentimento anticristiano.
Conservato il Cristo tra i murales dei leader progressisti, il cristianesimo, di cui la Chiesa cattolica si è aggiudicata l’esclusiva nella Storia, sempre più identificato con la teologia e la dottrina del Dio eb...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Prefazione
  3. Contro l’introduzione d’autore
  4. 1. A proposito dello scongelamento dell’Antartide
  5. 2. Eclisse del monoteismo
  6. 3. Eclisse del linguaggio
  7. 4. Iceberg alla deriva
  8. 5. Il tramonto dei miti
  9. Fiammiferi
  10. Lessico
  11. Testi di riferimento