Aut aut 330 - Corpi senz'anima
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Aut aut 330 - Corpi senz'anima

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Aut aut 330 - Corpi senz'anima

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Informazioni sul libro

Questo numero della rivista "Aut aut" presenta gli articoli di: David Le Breton, Rosella Prezzo, Roberta Sassatelli, Giovanni Scibilia, Antonello Sciacchitano, Luca Malavasi, Damiano Cantone, Adalinda Gasparini, Charles Melman, Marisa Fiumanò, Paola Mieli.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788865761564
Corpi senz’anima
Ci sono molti discorsi sul corpo. Il corpo è per lo più smembrato in tanti corpi: medico, tecnologico, psicologico, magico, religioso, giuridico, politico ecc. Sembra ci sia solo l’imbarazzo della scelta. La nostra scelta è stata di avviare un discorso non disciplinare, evidenziando piuttosto situazioni e scenari in cui il corpo “parla”, entra in scena o ne esce. Abbiamo quindi sollecitato considerazioni, parziali e non categoriche, su come il corpo riflette particolari situazioni di “disagio nella civiltà”, come le vive, come le sperimenta e come poi le ripropone e le mette in scena una seconda volta in contesti “sintomatici”: dal cinema alla psicanalisi, dall’arte alla favolistica, dalla tecnica alla guerra, dalla costruzione alla dissoluzione... [R.P., A.S.]
Immaginari della fine del corpo
DAVID LE BRETON
Nelle nostre società il corpo tende a diventare una materia prima da modellare secondo l’influenza del momento. Per molti contemporanei esso è ormai un accessorio della presenza, un luogo della messa in scena di sé. La volontà di trasformare il proprio corpo è diventata un luogo comune. La versione moderna del dualismo, diffuso dalla vita quotidiana, oppone l’uomo al suo proprio corpo e non più, come una volta, l’anima o lo spirito al corpo. Il corpo non è più l’irriducibile incarnazione di sé, ma una costruzione personale, un oggetto transitorio e manipolabile, suscettibile di svariate metamorfosi a seconda dei desideri dell’individuo. Se un tempo esso incarnava il destino della persona, la sua identità intangibile, oggi è una proposta sempre da affinare e da rilanciare. Tra l’uomo e il suo corpo c’è un gioco, nel doppio senso del termine. In un modo artigianale, milioni di individui diventano i bricoleurs, inventivi e instancabili, del proprio corpo. L’apparenza alimenta ormai un’industria infinita.
Il corpo è sottoposto a un disegno, a volte radicale, che non lascia niente di insondato (body building, regimi alimentari, cosmesi, assunzione di prodotti anabolizzanti ed energizzanti, ginnastiche di ogni tipo, incisioni corporee, chirurgia estetica, transessualismo, body art ecc.). Posto come rappresentante di sé, diventa affermazione personale, messa in evidenza di un’estetica e di una morale della presenza. Non si tratta più di accontentarsi del corpo che si ha, ma di modificarne le fogge per completarlo o renderlo conforme alle idee che ci si fa di esso. Il corpo è oggi un alter ego, un altro se stesso un po’ deludente, ma disponibile a tutte le modifiche del caso. Senza il supplemento introdotto dall’individuo o dalle sue azioni deliberate di metamorfosi fisiche, il corpo sarebbe una forma insufficiente ad accoglierne le aspirazioni. È necessario apporvi il proprio marchio per prenderne possesso. Il corpo diventa la protesi di un io perennemente in cerca di un’incarnazione provvisoria per assicurare una traccia significativa di sé. Per fare finalmente causa comune con la propria esistenza, si moltiplicano i segni corporei in maniera visibile. Bisogna mettersi fuori di sé per divenire sé. L’interiorità si risolve in uno sforzo di esteriorità. Moltiplicazione delle messe in scena di sé per sovrasignificare la propria presenza al mondo: lavoro impossibile che esige di rimettere sempre di nuovo il corpo in cantiere, in una corsa senza fine per aderire a sé, a un’identità effimera ma essenziale per sé e per la contingenza dell’ambito sociale.1
La diffidenza verso la forma del corpo è presente anche nella moda dilagante della chirurgia estetica che coinvolge una popolazione sempre più giovane, soprattutto di donne, scontente dei loro seni e di altre parti del corpo. L’anatomia non è più il destino evocato un tempo da Freud, è ormai un accessorio della presenza, un’istanza rimaneggiabile, sempre revocabile. L’antica sacralità del corpo non rappresenta più la rigida matrice identitaria di una storia personale, ma una forma da rimodellare continuamente secondo il gusto del giorno. La stessa infatuazione per il culturismo è rivelatrice del sentimento di insufficienza di un corpo la cui unica dignità deriva dalla sua trasformazione attraverso la tecnica. Il body builder si dice esso stesso “creatore di corpi”. Non forgia i suoi muscoli per impiegarsi come boscaiolo nel grande Nord canadese, la sua forza non gli serve a nulla, spesso è anche incredibilmente fragile sul piano anatomico o fisiologico; ciò che qui importa è solo il fatto di mostrarsi. Proprio l’ampiezza culturista delle modificazioni corporali esprime la volontà di segnare il proprio corpo, di appropriarsene per divenire finalmente sé.
Il corpo del transessuale è un artefatto tecnologico, una costruzione chirurgica e ormonale, una lavorazione plastica che si fonda su una volontà ferrea. Giocatore della propria esistenza, il transessuale intende rivestire momentaneamente un’apparenza sessuale conforme al suo sentire personale. Il sesso d’elezione è il portato di una propria decisione e non il fatto di un destino anatomico; vive attraverso una deliberata volontà di provocazione o di gioco. Il transessuale sopprime gli aspetti troppo significativi della sua antica corporeità per assumere i segni inequivocabili della sua nuova apparenza. Lavora quotidianamente un corpo sempre incompiuto, sempre da conquistare grazie agli ormoni e ai cosmetici, ai vestiti e allo stile della presenza. Femminilità e mascolinità, lungi dall’essere l’evidenza del rapporto al mondo, sono l’oggetto di una produzione permanente attraverso un uso appropriato di segni, di una ridefinizione di sé conforme a un disegno corporeo; diventano così un vasto campo di sperimentazione. La categoria sessuale del maschile è rimessa profondamente in discussione. Volontà di scongiurare la separazione, di non fare più del sesso (dal latino secare: tagliare) né un corpo né un destino ma una decisione; volontà, soprattutto, di affrancarsi per inventarsi e mettersi al mondo da se stessi. Il transessuale è un simbolo quasi caricaturale del sentimento che il corpo è una forma da trasformare.
I molti progressi registrati nella tecnoscienza spingono all’estremo la diffidenza verso il corpo, considerandolo come un abbozzo da correggere da cima a fondo e persino da eliminare a causa della sua imperfezione. Il fantasma di un corpo liberato dai suoi antichi pesi naturali sfocia, in particolare, nel mito del bambino perfetto, fabbricato medicalmente con il marchio di buona qualità morfologica e genetica. La procreazione medicalmente assistita induce una concezione del bambino fuori dal corpo, dalla sessualità, fuori dal rapporto con altri. Alcuni biologi sognano addirittura di eliminare la donna da un capo all’altro della gestazione grazie alla gravidanza artificiale. L’esistenza prenatale non sarebbe altro che un percorso medico in cui la donna non è più necessaria. La fabbricazione medica del bambino si protrae oggi con una serie di esami tesi a verificarne la qualità genetica o l’aspetto fisico. Test d’ingresso nella vita che perpetua la diffidenza verso un corpo la cui unica perfezione deriva da una verifica di qualità o da una correzione tecnica.
Il corpo è decisamente di troppo per alcune correnti della cybercultura che si votano a un’umanità (che alcuni chiamano già una postumanità) giunta infine a disfarsi di tutte le sue pastoie e dal principale vincolo rappresentato dal fardello del corpo. Trasformato in artefatto, o anche in “carne”, molti nutrono il grande sogno di liberarsene per accedere finalmente a un’umanità gloriosa. Questi nuovi gnostici dissociano il soggetto dalla sua carne peritura e vogliono immaterializzarla a beneficio della mente, unica componente degna di interesse ai loro occhi. La navigazione in rete o l’immersione nella realtà virtuale dà, di riflesso, agli internauti il sentimento di essere zavorrati di un corpo ingombrante e inutile, che occorre alimentare, curare, intrattenere ecc., mentre la vita sarebbe così felice senza queste seccature. La comunicazione senza corpo e senza volto di Internet favorisce le identità multiple, la frammentazione del soggetto coinvolto in una serie di incontri virtuali per i quali indossa di volta in volta un nome diverso, così come un’età, un sesso, una professione scelti a seconda della circostanza. Il corpo diventa un dato facoltativo. La cybercultura viene spesso descritta dai suoi adepti in termini religiosi, come un mondo meraviglioso aperto ai “mutamenti” che inventano un nuovo universo. Questo paradiso della Rete è decisamente senza corpo. Gli innumerevoli giochi sulle identità non sono possibili che grazie alla sparizione del volto. Internet è una straordinaria istituzione della maschera. Dissimulato sotto un’identità provvisoria e reversibile, l’internauta non teme più di guardarsi allo specchio dopo una qualsivoglia azione. La cybersessualità realizza pienamente l’immaginario della sparizione del corpo, e anche dell’altro. Il testo si sostituisce al sesso, lo schermo alla carne. Con il corpo virtuale l’erotismo raggiunge lo stadio supremo dell’igiene. Niente più paura dell’AIDS o di malattie veneree, né di assilli, in questa sessualità angelica in cui è anche possibile, dato l’anonimato della Rete, rivestire un sesso e uno stato civile a propria scelta.2
In un’altra versione, che è quella sognata da Marvin Minsky, le comunità virtuali costituiscono una “società di menti”.3 La carne del mondo o il contenuto delle cose si trasformano in kit d’informazione. Le frontiere tra i mondi, gli oggetti e gli uomini si cancellano; tutto diventa potenzialmente commutabile perché tutto è retto, in ultima istanza, dalla stessa unità di base. Ma la confusione è a volte mortale. Alcuni individui non fanno più differenza tra il virtuale e il reale, come quei ragazzini che uccidono un commerciante, ma volevano solo sparare e non provocare la morte. Queste interferenze sono ricorrenti. Il fatto di vivere in un mondo senza intralci, in cui i morti si rimettono in piedi o in cui i salti nel vuoto non fanno alcun male, rischiano di far obliare le conseguenze reali di un’azione concreta.
Con un radicale ribaltamento di valore, la reificazione dell’uomo ha come sua logica conseguenza l’umanizzazione del computer. Tutto ciò che allontana l’uomo dalla macchina è percepito come un’insopportabile indegnità dell’uomo. Mentre tutto ciò che, per via metaforica o di paragone, avvicina la macchina all’uomo è immediatamente portata a suo credito con la convinzione che l’uomo è ormai superato e che ha i giorni contati. Il rifiuto della condizione umana, nell’autodenigrazione di coloro che lo formulano, passa sostanzialmente attraverso il processo alla carne: l’uomo è una creatura fisicamente troppo imperfetta per gli imperativi di rendimento, di efficienza ecc., che reggono parte delle nostre società contemporanee. Il puritanesimo si allea qui all’assillo per la performance. Non si tratta mai di migliorare il gusto di vivere degli uomini ma, sempre, della prova di autorità fornita dalla povertà del radicamento del corpo umano in un mondo di competizione, velocità, comunicazione, qual è oggi in larga misura il nostro. Nel più totale oblio, beninteso, dei quattro quinti dell’umanità la cui sopravvivenza non pone la minima questione; essi sono infatti definitivamente fuori gioco. L’occidentalcentrismo del punto di vista non è percepito da questi affascinati dalla tecnoscienza per i quali il mondo inizia e finisce con la loro sola visione del mondo.
Per molti adepti dell’Intelligenza Artificiale la macchina, un giorno, sarà senz’altro pensante e sensibile, soppiantando l’uomo nella maggior parte dei suoi compiti. Se la macchina si umanizza, l’uomo si meccanizza. La progressiva cyborganizzazione dell’uomo, soprattutto nelle sue promesse di avvenire, confonde le frontiere. Alcuni ricercatori sognano di poter trasferire, in un prossimo futuro, la loro “mente [esprit]” nel computer per poter vivere pienamente il cyberspazio. Ai loro occhi il corpo non è più all’altezza delle capacità richieste nell’era dell’informazione: è lento, fragile, incapace di memoria ecc. Bisogna sbarazzarsene per formare un corpo bionico (ossia largamente, o interamente, cyborganizzato) sul quale si impianterà eventualmente un dischetto contenente la “mente”. Non si tratta solo di soddisfare le esigenze della cybercultura o della comunicazione ma di sopprimere, simultaneamente, la malattia, la morte e tutti gli ostacoli legati al fardello del corpo. L’uomo diventa homo silicium. Tali discorsi sono certo il frutto di un puro immaginario (anche se chi li enuncia è convinto della loro verità), ma essi sono efficaci e produttori di effetti. Il loro punto in comune è fare del corpo uno scarto: è cambiando il corpo che l’uomo raggiungerà la sua salvezza.
Gerald J. Sussman, professore al Massachusetts Institute of Technology, si duole di non poter conquistare di botto quell’immortalità che gli sembrava tecnicamente così vicina. Egli sogna di sbarazzarsi del corpo e di l...

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