Prologo
È l’alba. Il Sole si affaccia di fronte la montagna di Montevergine, illuminandola e diradando la nebbia nella valle che è la culla dove dorme la città in cui sono cresciuto. Questa parte dell’Irpinia giace statica, immobile, tra i monti del Partenio e del Terminio, colossi di Rodi della mia terra, che si ergono come protettori di una cultura e di un luogo fuori dal tempo. Queste non sono le montagne americane, enormi, difficili da misurare anche con lo sguardo; non sono le Dolomiti, con le loro cime irraggiungibili, misteriose e impenetrabili che svettano al di là delle nuvole. Queste montagne, proprio perché «a misura d’uomo», conservano il sapore del terreno e del campo, i suoi profumi, la sua asprezza. Un’asprezza che rende le mani dure così come i pensieri, e che ha forgiato le azioni quotidiane e le gesta di una tribù protoeuropea, gli irpini (da hirpus, che nella lingua osca significava «lupo»); da lì viene il 90 per cento del mio patrimonio genetico.
Sono questi i monti che sognavo di scalare, da bambino, per raggiungerne la cima, sfidando assieme me stesso e il loro mistero. È qui, e di questo sono sicuro, che ho appreso il passo lento, «geologico», necessario per assorbire ciò che ci circonda senza fretta, per scrutare, per contemplare ciò che si propone davanti ai miei occhi e farlo diventare parte di me. Neanche il mare di Napoli (dove mi trasferii per gli studi di Ingegneria) e del Brasile (dove ho vissuto per diversi periodi) sono riusciti a cancellare o offuscare questo legame. Non pensavo, quando le guardavo ammirato dal basso in alto, che un giorno avrei messo piede sui ghiacciai dell’Antartide, sulle Montagne Rocciose e sulle alture dell’Alaska, nelle foreste scandinave della Finlandia, sulla pietra lavica a contatto con il ghiaccio dell’Islanda.
Quando iniziai il dottorato, nonostante fossi un figlio del Sud, mi ritrovai a studiare qualcosa di molto lontano: la neve, prima, il ghiaccio, poi. Fu allora – sono ormai passati quasi due decenni – che visitai per la prima volta i ghiacciai delle Dolomiti e fu lì, scrutando il mondo da quelle cime maestose, che sentii fortissimo il richiamo delle grandi e solitarie distese bianche. Di fronte a quel panorama si consolidò così nel mio animo e nella mia mente la decisione, netta e non negoziabile, di arrivare a vedere con i miei stessi occhi le fredde terre della Groenlandia. Una decisione che diversi anni dopo si sarebbe trasformata in realtà, con quel paese che sarebbe diventato a poco a poco, anno dopo anno, spedizione dopo spedizione, parte integrante della mia vita. Cominciai così il mio lungo e personale viaggio di esplorazione in un mondo che ancora oggi, dopo tanti anni, non smette di stupirmi e appassionarmi.
Doveva essere destino.
1. Le radici del ghiaccio
Sono sveglio prima degli altri, come spesso accade. Il silenzio attorno a me è assoluto.
Le notti nell’Artico hanno qualcosa di speciale. Non dimenticherò mai la prima volta che ho dormito qui: l’emozione di essere a diretto contatto con il ghiaccio maestoso, la luce del Sole che non sparisce mai, vera e propria compagna di vita di chi fa il mio mestiere. Ho sempre avuto l’abitudine di svegliarmi presto e una volta sveglio non sono in grado di riaddormentarmi; un’inclinazione che con la paternità si è acuita ancora di più e che non mi ha più abbandonato.
Il primo «esercizio» mattutino in mezzo ai ghiacci dell’Artico è quello di vestirsi, e non è così semplice come si potrebbe pensare. Per affrontare il mondo che ci attende al di fuori della tenda occorre infatti indossare più di uno strato. Qualcuno la chiama vestizione a cipolla: diversi strati dal diverso spessore e dalla diversa funzione, uno per il vento, un altro che serve come base a contatto con il corpo, un altro ancora come strato intermedio.
È un esercizio di contorsionismo puro: la tenda non è più alta di mezzo metro, perciò tutte le operazioni devono essere coordinate. I pantaloni vanno infilati dondolandosi sulla schiena, quindi, seduti a gambe incrociate, si infilano i diversi strati superiori; poi, è la volta dei calzini, doppi e spessi, che fanno fatica a scivolare sui piedi ormai freddi. Primo comandamento: mai usare cotone. I nostri abiti ci tengono al caldo perché intrappolano l’aria calda vicino alla pelle, ma quando il cotone si bagna cessa di funzionare poiché le sacche d’aria nel tessuto si riempiono d’acqua. Quando camminiamo e sudiamo l’indumento di cotone assorbe il sudore come una spugna e se l’aria è più fredda della temperatura corporea (come accade in Groenlandia), sentiremo un certo freddo, con i vestiti ormai saturi e incapaci di fornire l’isolamento necessario. Ecco perché i nostri abiti sono sempre di materiale isolante, che sia lana, oppure sintetico.
Mi avvicino alla cerniera lampo dell’ingresso della tenda. Ci metto un’attenzione estrema per non svegliare i miei compagni di viaggio e di ricerche: quel fruscio metallico in una situazione normale sarebbe quasi impercettibile, ma qui ogni piccolo rumore viene amplificato. Le nostre tende sono quelle da campeggio, «quattro stagioni» come si dice in gergo. Sono leggere e si montano in meno di venti minuti, con il materiale esterno impermeabile che ci protegge dalla pioggia, presente anche in Groenlandia. Molti pensano che le tende siano fredde, ma in generale, non è così. Specialmente quando il cielo è limpido, il forte Sole della Groenlandia ne riscalda l’interno a tal punto che dobbiamo tenerle aperte per favorire la circolazione dell’aria fredda prima di andare a dormire. Ciò è ancora più vero in piena estate, quando il Sole non tramonta mai. Il nostro accampamento, come dicevo, è immerso in un silenzio siderale; il sibilo del vento – a volte costante, a volte ritmato – è l’unica sorgente di inquinamento acustico, se di inquinamento possiamo parlare. Tiro infine giù la cerniera e il rumore che fa mi sembra quasi quello di un’esplosione. È normale: il suono in fondo non è altro che la trasmissione di onde di pressione che, una volta raggiunto l’orecchio, vengono ricodificate dal cervello; in Groenlandia la rarefazione dell’aria e l’assenza di altre fonti sonore danno l’impressione che i suoni più comuni della quotidianità acquistino un timbro differente, altrove inaudibile. Forse è la stanchezza, forse solo un’allucinazione sonora; forse il freddo che gioca con i nostri sensi.
Esco carponi, mi allungo sullo stuoino di materiale impermeabile che abbiamo lasciato all’ingresso. Mi siedo. Serve un ultimo sforzo, quello di infilare gli stivali sui calzini di lana, troppo spessi, ma necessari. Mi sento già stanco. Stanco, e però allo stesso tempo eccitato all’idea di ciò che ci aspetta: ogni avventura, ogni imprevisto dovrà essere risolto solo ricorrendo agli oggetti che abbiamo portato con noi. Quando si è in mezzo al ghiaccio della Groenlandia non si ha il lusso di andare al supermercato o dall’elettricista nel caso qualcuno avesse dimenticato di portare un cacciavite o un rotolo di spago.
Se gli altri si sono svegliati non lo danno a vedere; sotto la tenda si percepisce solo il ritmo di respiri diversi. È stata una di quelle notti che mi piace definire «interessanti», quando qualcuno si sveglia e ti sveglia, ponendo a bruciapelo una domanda, facendo balenare un’idea o – più frequente – avendo sentito qualcosa che lo ha messo in allarme. Questa notte è toccato a Patrick. È stato uno dei miei studenti di dottorato, non ha mai lasciato New York e ha studiato la Groenlandia esclusivamente dai satelliti o sui modelli. L’ho invitato a unirsi a noi non solo per offrirgli una (meritata) possibilità di crescita professionale ma anche perché la potesse sperimentare dal vivo. Sono convinto che tutti coloro che studiano questa immensa e meravigliosa distesa polare debbano, almeno una volta nella vita, visitarla di persona. Patrick mi ha svegliato che saranno state le tre. Era un po’ agitato, mi ha domandato se avessi sentito un forte rumore, come un rombo, qualcosa di strano proveniente dal ghiaccio sotto di noi. «Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno non farti scrupoli, svegliami anche fosse notte fonda» gli avevo detto appena atterrati. Ed ecco che lui mi aveva preso in parola.
Ho cercato di rassicurarlo, gli ho spiegato che spesso il ghiaccio genera rumori, che a volte, visto il silenzio assoluto che ci circonda, si tratta solo d’impressioni. Ciò che si sente, di solito, è un rumore cupo, come ci fosse qualcosa che si sta spaccando sotto di noi; ricorda il suono di una pietra enorme che atterra su un terreno montuoso. Gli ho detto di tornare a dormire, che non c’era nulla di cui preoccuparsi. Non che io fossi convinto al cento per cento delle mie parole, ovviamente: in mezzo all’Artico occorre stare attenti a qualsiasi piccola cosa. Dopo pochi minuti dalla chiacchierata con Patrick ho iniziato a sentirlo anch’io, il rumore di cui parlava: è il ghiaccio che scorre sotto di noi, potente, inesorabile, con una velocità che in estate, in superficie, può raggiungere anche diverse centinaia di metri al giorno. Per intenderci su quanto sia rapido tale spostamento, è come se stessimo a Roma, piantassimo la tenda in piazza di Spagna e ci svegliassimo il giorno dopo a piazza del Popolo. Patrick ha colpito nel segno. Io non sono più riuscito a prendere sonno: da un lato sono preoccupato, dall’altro eccitato. Ho i muscoli tesi, l’udito attento a ogni rumore, anche il più impercettibile. Mi sembra quasi di stare auscultando il respiro di un dinosauro, solo con i miei pensieri.
Il fluire del ghiaccio è un fenomeno poco noto; molti credono che il ghiaccio della Groenlandia (così come quello degli altri ghiacciai) sia immobile, statico. Materiale inanimato. In realtà è il contrario. Come gli antichi greci ci insegnano, panta rei: tutto scorre. E anche il ghiaccio scorre, come un fiume denso che fluisce per effetto del proprio peso. Rallenta d’inverno, quando è più freddo ed è meno fluido. Ma d’estate è come discendere una collina su una strada bagnata, non c’è freno che tenga. Durante la stagione «calda», l’acqua penetra nel ghiaccio attraverso crepe e fratture e, una volta raggiunta la roccia sulla quale quest’ultimo scivola, ne lubrifica la superficie, favorendone un’ulteriore accelerazione.
A questo stavo ripensando mentre guardavo gli stivali che finalmente sono riuscito a infilarmi. Quelli che indosso adesso non sono gli stessi che userò per la nostra escursione, sono alti fino al polpaccio e poco adatti a camminare, ma perfetti per la vita al campo. Hanno un’imbottitura tale da proteggere i piedi da temperature fino a −40 gradi centigradi. I miei, di piedi, non sentono ragioni e sono freddi dal momento in cui esco dalla tenda fino a quando rientro a fine giornata. Spesso mi sento dire: «Tu devi essere abituato al freddo e non ci fai caso». Ahimè, è invece vero il contrario: io sono di costituzione longilinea e ho poca massa che mi può aiutare a mantenere il calore del corpo. Gli stivali che utilizziamo durante l’escursione sono scarponi da montagna o da ghiaccio. Hanno una struttura più rigida che favorisce la stabilità delle caviglie e riduce il pericolo di distorsioni ma, al tempo stesso, proteggono meno contro il freddo.
Una volta fuori mi accomodo sulla sedia pieghevole vicino l’ingresso della tenda. Ho una gran voglia di una bella tazza di caffè bollente, ma meglio aspettare che siano tutti svegli. Continuo a vagheggiare, quasi fossi ancora tra veglia e sonno. Penso a come sia impossibile quantificare, dandole un valore economico, la fortuna – non trovo una parola migliore per definirla – che ho nel ritrovarmi al cospetto del paesaggio che sto osservando. Qui, in silenzio, circondato da neve e ghiaccio.
Chi non è mai stato nell’Artico avrebbe di certo delle sorprese, anche solo a un primo sguardo. Quello che mi trovo di fronte è tutt’altro che un paesaggio monotono o piatto. Dune di neve dalle dimensioni di pochi metri sono allineate lungo la direzione principale del vento, più o meno come in un deserto. Quando abbiamo sistemato le tende siamo stati costretti a tenere conto anche di questo: capire da dove soffiava il vento, per evitare che riempisse i nostri alloggi con la neve che luccica, come fosse ricoperta di piccoli preziosi diamanti. Il luccichio, che mi ricorda le grandi onde cavalcate dai surfisti nelle Hawaii o sulle spiagge di Rio de Janeiro, nasce dalla frammentazione dei fiocchi di neve dopo che sono caduti al suolo. È dovuta al vento e ad altri fattori che li spezzano, letteralmente, in piccole parti e li orientano in maniera del tutto casuale. Questi fiocchi di neve – o meglio ciò che ne rimane – agiscono quasi fossero una moltitudine di minuscoli specchi che, sparsi sulla superficie, riflettono la luce del Sole in tutte le direzioni. Ecco perché vediamo il luccichio.
Continuo a osservare ammirato. Il velo di neve che è stato soffiato via dal vento dipinge figure circolari che seguono il profilo della brezza polare. È come se dietro di me ci fosse un pittore che avesse deciso di aggiungere questi dettagli al quad...