Fare i bagagli
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Fare i bagagli

Un viaggio pratico e filosofico

  1. 166 pagine
  2. Italian
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Fare i bagagli

Un viaggio pratico e filosofico

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C'è chi prepara ogni sua valigia compilando meticolose liste degli oggetti da portare per essere sicuro di non dimenticarsi nulla. C'è chi ci infila dentro roba alla rinfusa all'ultimo minuto. C'è il viaggiatore zaino in spalla, e più è sdrucito e impolverato più se n'è orgogliosi. C'è chi compra un bauletto Vuitton pure per il cagnolino. E poi ci sono le interminabili attese al nastro trasportatore dell'aeroporto d'arrivo, l'ansia che lei si sia smarrita con tutto quello che ci serviva per il viaggio o tutto quello che dal viaggio volevamo riportare a casa. All'andata trasportiamo noi stessi in un altro mondo. Al ritorno misuriamo la distanza oggettuale tra il noi che partiva e il noi che rientra. Noi. Noi e i bagagli.Fare i bagagli è il libro che racconta la relazione lunga e complicata tra le valigie e la nostra identità. Susan Harlan intreccia sapientemente storia del costume e letteratura, cinema e memoir, arte e poesia dei luoghi. Evoca l'orrore esternato nell'Enrico v di Shakespeare davanti alla perdita di valigie, bauli e salmerie. Spiega perché alle donne dovrebbe piacere molto la magica borsa di Mary Poppins. Mostra tutte le sfumature della femminilità incarnate dalle it-bag di Hermès. Rivela il rapporto tra Samsonite, il secondo dopoguerra e un tale che si era messo in testa di girare l'Europa spendendo solo 5 dollari al giorno. E naturalmente illustra come fare bene le valigie: perché con un bagaglio ben fatto sei pronto per qualsiasi destinazione.Che tu ti sposti in treno o in macchina, in nave o in aereo. Che tu sia un elegante businessman da hotel cinque stelle o un neohippie disposto a prendersi la scabbia nei peggiori pulceti. O tutto quello che ci sta in mezzo. Questa lettura davvero vale il viaggio.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788865767344
Argomento
Storia

1. Bagagli e segreti

Tutti i bagagli nascondono segreti. Alcuni sono parte integrante dei bauli e delle valigie in cui sono rinchiusi, altri no. Alcuni appartengono alla storia, a una persona, altri a niente. Alcuni segreti vengono rivelati, altri rimangono nascosti, impenetrabili. E chiudiamo in valigia i nostri segreti perché le borse sono più evocative. Piene o vuote, lasciano intendere che c’è dell’altro. Una valigia chiusa – non per forza con la cerniera, semplicemente chiusa – è come un comodino o un armadietto dei medicinali; è inaccessibile. Qualcosa di privato, ma che portiamo in pubblico. Non si fruga nelle valigie altrui; se succede alla dogana ci sentiamo violati, come all’aeroporto quando il bagaglio imbarcato viene perquisito. In quel caso lasciano un pezzo di carta che testimonia l’avvenuta invasione, e troviamo le nostre cose in quella disposizione imperfetta che è la prova dello scompiglio.
In Un tram chiamato desiderio di Tennessee Williams, Stanley rovista nel baule di Blanche, scaraventando in giro per la stanza quello che trova. Questa violazione metaforica anticipa quella fisica – la prima di due aggressioni – e bistrattando i suoi effetti personali Stanley mette in chiaro che, in quella casa, lei non avrà segreti. Il baule di Blanche è allo stesso tempo bagaglio, accessorio e personaggio, una presenza ingombrante sul palco che rispecchia la sua stessa fragilità, ma, al contempo, la sua fisicità inossidabile. Contiene, fra le altre cose, testimonianze dell’ormai perduta dimora ancestrale Belle Reve. Il baule è Belle Reve sul palco, in una versione corrotta, e secondo Stanley le carte contenute nel baule sono in grado di spiegare cosa è accaduto in quel luogo ideale. Quando Stanley chiede di vederle (per assicurarsi di non essere stato escluso dalla presunta ricchezza ereditata dalla moglie), Blanche dice «Tutto quello che ho, è nel baule» definendo non solo i confini del baule, ma della propria vita. Stanley inizia ad aprire i vari scomparti, ma Blanche si mette in mezzo, tira fuori una scatola di latta e dice «a migliaia, ce ne sono, di carte, colla muffa di centinaia di anni», e inferocita gliela consegna. «Eccole qua, tutte qua sono le carte! Sono tutte per lei! Se le prenda, se le spulci, se le impari a memoria! È la fine migliore che possa fare Belle Reve: un mucchio di carta nelle sue mani pesanti, ed esperte!»1 La casa ora è un insieme di pile di fogli, e Blanche sa che chiunque li legga non potrà mai capire.
Per Blanche il baule è qualcosa di intimo. L’interiorità del baule è anche la sua. Nelle sue opere sull’idea di casa nella Londra georgiana, Amanda Vickery osserva che la privacy si estende non solo alla sfera personale, ma anche ai vari bauli, scatole, armadi e scomparti chiusi che abbiamo. Sebbene i servi non avessero quasi mai una stanza in cui dormire, figurarsi una camera privata, era concesso loro di avere dei contenitori chiusi a chiave in cui riporre gli effetti personali. Queste scatole, bauli e scrigni erano un modo per proteggere non solo gli oggetti, ma anche i loro segreti. Erano il loro spazio intimo in un mondo in cui poco o niente era veramente loro. Gli oggetti di valore si tenevano anche in tasca, in una borsetta, o dentro un medaglione.2 Alcuni contenitori erano più comodi di altri da portare con sé. Nel 1732, nella prima stesura di La carriera di una prostituta di William Hogarth, Moll Hackabout giunge a Londra con una scatola delle dimensioni di un grosso baule. Alla fine muore e il suo baule viene depredato.3
Nei gialli e nei thriller di spionaggio tutti sanno che le valigie sono l’emblema della segretezza, soprattutto quelle grigio alluminio. In un romanzo di John le Carrè, una valigia o una valigetta potrebbero tranquillamente contenere documenti top-secret, banconote non contrassegnate, gioielli rubati. In ogni caso, la riservatezza del contenuto ne sottolinea il valore. Quest’idea è oggetto di parodia in Il grande Lebowski (1998), quando Walter (John Goodman) sostituisce la valigia di alluminio piena di soldi con un’altra piena di panni sporchi («le mie mutande sporche… il bucato… la biancheria») e la scaraventa giù dal ponte. Il fatto che la valigia «sosia» sia priva di valore si inserisce alla perfezione in un film in cui il furto che innesca la (non) trama non è neanche avvenuto. In Scemo e più scemo (1994), una valigia che dovrebbe contenere del denaro si rivela invece piena di pagherò, che a detta di Lloyd Christmas (Jim Carrey), che ha speso tutto il contenuto, «valgono quanto i soldi». Lloyd crede anche che la valigetta appartenga a un certo signor «Samsonite», non cogliendo la differenza fra una marca e un monogramma.
I bagagli spesso contengono cose che non dovrebbero contenere. Come le merci di contrabbando. L’artista Taryn Simon ha trascorso cinque giorni e cinque notti (dal 16 al 20 novembre 2009) all’aeroporto John F. Kennedy di New York, fotografando oggetti trovati negli uffici della U.S. Customs and Border Protection U.S. (istituzione federale per la sicurezza delle frontiere) e della US Postal Service International Mail Facility (ufficio addetto alle spedizioni internazionali). Luoghi che Hans Ulirch Obrist, in un saggio introduttivo al catalogo degli espositori della Gagosian Gallery, definisce «uno spazio di contrabbando fra l’America e le altre nazioni».4 È nato così il progetto Contraband, definito da lui stesso «uno studio prolungato del transito planetario, della valuta internazionale che sono gli articoli proibiti, e soprattutto dell’ondata di merci di contrabbando che hanno invaso i mercati occidentali sulla scia dello spostamento di produzione nei paesi orientali in via di sviluppo».5 Le 1075 foto che Simon ha scattato evocano il progetto Lost Property – Tramway di Christian Boltanski (1994), in cui vennero raccolti 5000 oggetti perduti.6 I due lavori esplorano la storia e le storie racchiuse in oggetti spesso comuni e banali, di cui ci si può disfare a cuor leggero: coltelli, accendini, sigarette. Simon ha raccontato oggetti di lusso, come le pietre preziose, e oggetti senza grande valore, come le mele. E ancora, borse Louis Vuitton contraffatte e altre merci di contrabbando: medicinali per la disfunzione erettile, jeans, gioielli, camicie Lacoste e Ralph Lauren, telefoni. E alcuni memento mori che documentano un mondo animale violato e assente: carcasse e scheletri di animali, porcellini d’India morti, sangue di cervo, palchi. E, infine, ha fotografato articoli identificati con «non identificabile», rappresentazioni dell’ignoto. Ha distinto fra oggetti contrabbandati e oggetti spediti, affermando che la spedizione «offre un margine di anonimato» e un «desiderio di segretezza» che il contrabbando non può dare.7 Contrabbandare un oggetto, indossandolo o tenendolo in valigia, è un atto più intimo, poiché il corpo diventa parte del concetto di contrabbando. Non vengono fotografate persone; solo oggetti che rimandano a esse. Le fotografie sembrano esaustive, ma al contempo sottolineano l’impossibilità di esserlo. La stessa Simon ha iniziato a soffrire di insonnia e in quel periodo si è fatta soltanto una doccia.8 Questi oggetti vengono immortalati nella fotografia, che li rende immobili. Ma questa immobilità ci ricorda che sono caratterizzati dalla mobilità, dal loro movimento da un luogo a un altro, e dall’interruzione di questo movimento.
Talvolta i bagagli contengono proprio delle fotografie. Nel 2007 giunsero all’International Center for Photography di New York tre scatole di rullini contenenti 4500 negativi da 35 millimetri risalenti alla Guerra civile spagnola, foto scattate da Robert Capa, Chim (David Seymour) e Gerda Taro. Erano destinate a Cornell Capa, fratello minore di Robert e fondatore del centro. I negativi, dispersi dal 1939, erano stati ritrovati a Città del Messico fra gli oggetti personali dell’ambasciatore messicano presso il Governo di Vichy. Il ritrovamento confermò le voci secondo cui la valigetta in questione esistesse, ma che fosse stata smarrita durante la Seconda guerra mondiale.9 Quella valigetta custodisce una storia di violenza: immagini che parlano del passato, per il passato. Le fotografie non sono le uniche testimonianze della guerra rinvenute in una valigia. Il film del 2015 Suite francese è basato su Tempête en juin, il primo di due romanzi dell’autrice francese Irène Némirowsky, ritrovato dalle figlie in una valigetta e pubblicato nel 2004. Le ragazze, che avevano conservato gli appunti, non li esaminarono mai pensando che si trattasse dei suoi diari. Il romanzo narra l’occupazione nazista della città di Bussy in seguito ai bombardamenti di Parigi nel giugno del 1940, insieme alle storie dei rifugiati che, in fuga dalla città, cercarono rifugio a Bussy. Racconta anche una storia d’amore fra una donna francese e un soldato tedesco. Némirovsky aveva intenzione di scrivere una serie di cinque romanzi ma, essendo ebrea, nel 1942 venne arrestata e deportata ad Auschwitz, dove morì. Alla fine del film, fra i titoli di coda, scorrono gli scatti del manoscritto, quasi a ricordare come gli oggetti, a differenza dei soggetti, possano essere conservati e protetti in una valigetta.
Altre volte le valigie custodiscono storie più intime, personali. Nel 2015 in Olanda è stata rinvenuta una raccolta di «lettere morte» del Seicento contenute in un bauletto di cuoio. Il bauletto, con le sue 2600 lettere, venne presentato a un museo postale dell’Aia nel 1926, ma non fu mai esaminato. Le lettere, scritte in sei lingue, testimoniano la quotidianità di contadini, mercanti e aristocratici. Furono Simon de Brienne e sua moglie Maria Germain, direttori dell’ufficio postale dell’Aia nel 1926, a riporle nel baule per tenerle al sicuro, ma non vennero mai reclamate dai destinatari.10 Una lettera non consegnata è una lettera «morta». La sua vita dipende dal destinatario, dall’essere letta. Alla fine di Bartleby lo scrivano di Herman Melville scopriamo che il misterioso impiegato Bartleby lavorava presso l’Ufficio delle Lettere Morte. Il narratore fantastica sul loro contenuto – magari un anello destinato a una mano ormai deceduta, un titolo di credito, una concessione di grazia, qualche buona notizia – e tutte queste ipotesi fanno scattare l’esclamazione finale: «Ah, Bartleby! Ah, umanità!».11 Nel racconto di Melville, le lettere morte vengono bruciate, ma il baule rinvenuto le aveva tenute al sicuro per centinaia di anni. Non ha potuto riportarle in vita, ma è riuscito a preservarle.
Le lettere raccontano storie personali. Leggere la posta altrui, anche di persone morte da secoli, significa penetrare nella loro storia, nella loro vita quotidiana. Ma forse più a lungo un baule o una valigia resistono al tempo, più i segreti che celano diventano proibiti e avvincenti. Quel genere di segreti che Catherine Morland spera di trovare in L’abbazia di Northanger, satira del romanzo gotico scritta da Jane Austen. Ospite dell’abbazia, Catherine si imbatte in una «una grossa cassapanca, che si trovava in una nicchia accanto al caminetto».12 La vista della cassapanca in cedro e del lucchetto in argento ossidato stuzzica la sua immaginazione tanto da farla restare «immobile a guardarla meravigliata»: si accorge che le maniglie sono rotte, «forse prematuramente a causa di un oscuro atto di violenza».13 Il «misterioso monogramma» al centro del coperchio lascia intendere che non si tratta di una cassa qualunque, e Catherine sospetta che possa rivelare segreti oscuri sulla sua famiglia ospitante, i Tilney. Spinta dalla passione per i romanzi di Ann Radcliffe I misteri di Udolpho e Il romanzo della foresta, afferra il lucchetto «con mani tremanti» e lo solleva per qualche centimetro, quando viene interrotta dall’ingresso di una domestica e da Miss Tilney che, a differenza di Catherine, non prova un grande interesse nei confronti della cassapanca. Si limita a osservare: «ho pensato che qualche volta avrebbe potuto essere utile, per riporvi cappelli e cuffiette» se solo non fosse così difficile da aprire.14 Ma Catherine non si lascia scoraggiare. Dopo cena torna nella sua stanza (ovviamente durante un violento temporale), nota un antico armadietto nero e trova un allettante rotolo di carte «spinto nell’angolo più lontano della nicchia, quasi a volerlo nascondere».15 Catherine sa per certo che il rotolo contiene i segreti che desidera così ardentemente scoprire, quindi afferra «con mano incerta il prezioso manoscritto (le era bastata un’occhiata per distinguere che c’era scritto qualcosa)».16 Catherine legge prima il messaggio in codice sulla cassa, poi il misterioso documento. È una lettrice, un’interprete, e brama un testo che sia elettrizzante. A dire il vero, la sua immaginazione trasforma la stanza in una scena estremamente gotica:
A volte le sembrava che si muovesse la tenda intorno al letto, altre volte era la chiave della porta che oscillava, come se qualcuno tentasse di entrare. Sembrava che sordi mormorii serpeggiassero lungo il corridoio; e più di una volta le si gelò il sangue nelle vene al suono di gemiti lontani.17
L’ambiente in cui si trova Catherine è solo «in apparenza» quel mondo emozionante e minaccioso dei romanzi che divora, ma in realtà si rivela miserament...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Introduzione: il viaggio e i suoi oggetti
  4. 1. Bagagli e segreti
  5. 2. Il linguaggio del bagaglio
  6. 3. Fare i bagagli
  7. 4. Il mio bagaglio
  8. 5. Bagagli smarriti
  9. Note
  10. Ringraziamenti