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La condizione postumana. A cura di Giovanni LeghissaPremessaGiovanni Leghissa. Ospiti di un mondo di cose. Per un rapporto postumano con la materialità.Roberto Marchesini. Alla fonte di Epimeteo.Marina Maestrutti. Potenziati ma inadatti al futuro. Dal cyborg felice al cyborg virtuoso.Davide Tarizzo. Al di là del principio di realtà: sulla Vita Artificiale.Rocco Ronchi. Figure del postumano. Gli zombi, l'onkos e il rovescio del Dasein.Francesca Gruppi. Animal symbolicum e uomo toolmade. Hans Blumenberg tra umanesimo e postumanesimo.Fabio Minazzi "Salire sulle proprie spalle"? Simondon e la trasduttività dell'ordine del reale.Antonio Lucci. Primi passi nel Postum(i)ano.Francesco Monico. Premesse per una costituzione ibrida: la macchina, la bambina automatica e il bosco.Fabio Polidori. Di un sintomo e alcune appartenenze.VICINO/LONTANOStefano Moriggi, Raffaele Simone. Il sapere nella rete.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788865763674

Ospiti di un mondo di cose. Per un rapporto postumano con la materialità
Giovanni Leghissa

1. Forme della postumanità

Per lungo tempo, la riflessione filosofica ha articolato la questione della posizione dell’uomo nel cosmo come se questa potesse essere una posizione di assoluto e indiscusso privilegio. Privilegio nei confronti dell’animale non umano, e privilegio nei confronti della sfera popolata dalle cose materiali. Del primo aspetto, che merita una decostruzione a parte, non mi occuperò in questa sede.1 Cercherò invece di proporre valide alternative alla tesi secondo cui gli umani, in virtù della loro costituzione ontologica, siano in grado di porsi in un rapporto con la cosalità che renda questa o un ambito in cui ergersi quali padroni capaci di esercitare un dominio, oppure un ambito caratterizzabile come assolutamente esteriore rispetto all’umano che con essa si mette in relazione. Vorrei suggerire che il mondo delle cose e degli artefatti vada invece collocato sullo stesso piano in cui l’animale uomo esperisce la propria storicità, e identificherò in questa tesi una componente essenziale di una prospettiva filosofica di tipo postumanistico.
In apertura, vorrei evidenziare uno degli aspetti epistemologici apparentemente paradossali di tale tesi, poiché si tratta di un aspetto che mi pare caratteristico di qualunque filosofia del post-umano. Se da una parte si suggerisce di prendere congedo dall’idea secondo cui essere umani sia in sé e per sé un segno di distinzione o di superiorità, in virtù del quale si può guardare con sufficienza sia all’animalità di tutte le specie viventi (compresa l’animalità di homo sapiens), sia alla muta materialità delle cose, l’atteggiamento postumanistico non comporta tuttavia un abbandono, bensì una rilettura del principio secondo cui l’uomo sarebbe la misura di tutte le cose (Platone, Teeteto, 152a). Il paradosso qui evocato, dicevo, è apparente. Il motto protagoreo va in primis inserito nel quadro di un “darwinismo trascendentale” volto a collocare la teoria dell’evoluzione alla base di qualunque progetto enciclopedico.2 Fatto questo passo, diventa improponibile postulare una qualsivoglia superiorità dell’ente umano, tale da fargli occupare, rispetto agli altri enti, la posizione dell’osservatore privilegiato, distaccato, non partecipe – posizione di cui il soggetto trascendentale, per certi versi, è stato la proiezione fantasmatica. Il motto, allora, potrebbe venir così formulato: l’uomo, in virtù delle strutture cognitive di cui si è dotato nel corso della propria evoluzione biologica, si pone come il solo osservatore in grado di conferire senso a quell’insieme di fenomeni che le suddette strutture cognitive rendono visibili.
Presente già in un autore per molti versi estraneo al mainstream filosofico come Lorenz,3 questa linea di pensiero non comporta semplicemente un abbandono della prospettiva trascendentale, né comporta una ingenua naturalizzazione della stessa. Si tratta, più profondamente, di prendere sul serio il fatto che il mondo che appare a un rettile (tanto per nominare un vertebrato a noi filogeneticamente prossimo) non ha le stesse caratteristiche del mondo che appare a homo sapiens – pur restando, ontologicamente, lo stesso mondo.4 E, parimenti, si tratta di riconoscere che la scienza, se interpretata quale insieme di dispositivi che rendono visibile il reale (o, meglio, dispositivi che aprono, in modi diversi, campi di visibilizzazione entro cui collocare determinate classi di oggetti), non si pone al di fuori del processo che porta alla costituzione di homo sapiens, ma è parte integrante di esso – al punto che si potrebbero svolgere interessanti considerazioni sull’analogia istituibile tra le procedure con cui opera la scienza per costruire i propri campi oggettuali e il modo in cui le specie viventi si evolvono interagendo con l’ambiente che le ospita.5
Ora, l’osservazione preliminare appena esposta non è estranea al senso delle riflessioni che seguono, in quanto una filosofia volta a ripristinare il ruolo dell’oggettuale nel processo di costituzione dell’umano va di pari passo con quelle riflessioni sul costituirsi del sapere scientifico secondo le quali le teorie in base a cui costruiamo le ipotesi che guidano il processo della scoperta si collocano allo stesso livello in cui operano quei dispositivi tecnici senza i quali nessuna azione potrebbe avere luogo in un laboratorio di fisica o di chimica. Si tratta insomma di capire che non c’è soluzione di continuità tra un chopping tool preistorico, senza il quale l’uomo non si sarebbe evoluto fino al punto da articolare il linguaggio,6 e quanto serve a un fisico per svolgere il suo lavoro, dall’acceleratore di particelle all’equazione di Schrödinger – elementi, questi ultimi, che vengono qui posti sullo stesso piano, visto che la teoria pura è parte integrante di un insieme che comprende dispositivi tecnici, software per elaborare dati, codici, culture condivise da una comunità scientifica data, frammenti di altre parti dell’enciclopedia.7 Per dirla in modo ancora più chiaro: costruite dall’uomo, le teorie servono a migliorare la prassi adattativa; ma nessuna prassi costruttiva a livello teorico si può svolgere senza intrecciarsi con la manualità del costruire artefatti, e né l’una né l’altra prescindono dal fatto che l’interazione con l’ambiente è, prima di tutto, interazione con oggetti materiali.

2. Heidegger e Latour: il pensiero dell’oggettuale dalla filosofia alla sociologia delle reti

Per la verità, sono registrabili alcuni luoghi in cui la riflessione novecentesca sull’umano ha messo in luce, almeno parzialmente, in che senso ogni processo di individuazione risulti inconcepibile se si prescinde dal rapporto con l’oggetto materiale.8 A titolo di esempio, merita considerare innanzi tutto un paio di luoghi tratti dal pensiero di Heidegger, un autore la cui opera, complessivamente intesa, si colloca a metà strada tra una concezione umanistica tradizionale e quella che definirei come una posizione radicalmente postumanistica.
Si consideri innanzi tutto il saggio heideggeriano Das Ding, del 1950.9 Al centro delle riflessioni ivi svolte troviamo una brocca di terracotta. Immaginiamocela come una di quelle brocche per mescere l’acqua o il vino che si usavano nelle case di campagna, site vicino ai sentieri interrotti che si perdono nel bosco tanto amati dal filosofo della Foresta Nera. Questa brocca serve da pretesto per parlarci del senso della vicinanza, ovvero del modo in cui umani e divini da un lato, cielo e terra dall’altro, formino una quadratura (Geviert il termine heideggeriano) che racchiude il senso dell’essere. Il punto rilevante è che, per capire il senso di questa quadratura, si deve passare per la brocca – ovvero si deve fare esperienza della sua cosalità, del suo essere lì non solo per accogliere l’acqua o il vino, ma anche per presentificare il concreto manifestarsi del mondo, il quale, nel suo semplice darsi, manifesta l’essere quale non nascondimento.
Poesia di un amore non profano, intriso di quella sacralità che, nostalgicamente, i nemici della modernità, inorriditi di fronte al Masse-Mensch che popola le metropoli, attribuiscono ai gesti, supposti semplici e autentici, del vivere contadino? Forse tutto ciò gioca un ruolo non secondario nell’immaginario heideggeriano. Tuttavia, non è senza importanza il fatto che qui venga scelto e posto in primo piano un oggetto, un utilizzabile, un semplice artefatto, un prodotto della tecnica insomma, per dare forma a quel dire poetico e rammemorante che solo può farci intuire cosa significhi che l’essere, pur nascondendosi, si rivela nella concreta trama della storia, ovvero nel muto avvicinarsi di cielo e terra, mortali e divini. Il problema, però, è che questa storia per Heidegger non sarà mai la storia naturale – che stava invece al centro delle riflessioni di autori ben noti a Heidegger, come per esempio von Uexküll. Da vero umanista, incapace di pensare la storia dell’essere senza un riferimento, almeno implicito, al Geist,10 Heidegger colloca nella brocca il manifestarsi del Geviert, magicamente racchiuso in un semplice gesto quotidiano quale è il versare l’acqua o il vino, ma questo manifestarsi non rende l’uomo capace di esperire la propria mortalità quale evento naturale, biologico. Anzi, la retorica heideggeriana della brocca sembra piuttosto rafforzare l’idea secondo cui fare esperienza del mondo attraverso il muto commercio con gli oggetti porti i mortali ad accostarsi alla sfera del divino. Di conseguenza, in virtù di quella logica binaria che da sempre contrappone l’umano da un lato al divino, dall’altro all’animale, manipolare la brocca marca precisamente la distanza abissale tra gli umani e gli animali.
Ed è un peccato, si potrebbe dire, che Heidegger si sia fatto prendere la mano dalla poeticità che caratterizza la ritualità dei gesti rurali per descrivere il rapporto con la cosalità. Nella fase del suo pensiero che aveva accompagnato la stesura del capolavoro giovanile, quando vi era ancora una certa prossimità tra la ricerca sul senso dell’essere e la fenomenologia, Heidegger si era infatti accostato all’idea che non si possa dare comprensione del sé senza un rapporto con l’oggettuale, senza un perdersi negli oggetti che ci circondano. L’esempio che ci viene proposto nel fondamentale corso tenuto a Marburgo nel semestre estivo del 1927, dedicato ai problemi fondamentali della fenomenologia, ci riporta sempre al mondo rurale e artigiano, in quanto qui viene nominato un calzolaio. Di questi si afferma che “non è la scarpa, e tuttavia egli si comprende a partire dalle sue cose, comprende , il suo essere stesso”.11 Questo comprendersi a partire dalle cose, dagli oggetti che manipoliamo, è sì inautentico, ma solo passando per questo tipo di comprensione del sé riusciamo ad afferrare, poi, in che senso l’esserci sia trascendenza, sia cioè ontologicamente determinato dal proprio essere sempre presso le cose.12
Dall’avere un mondo di cose, le quali, lungi dallo stargli semplicemente attorno, sono precisamente ciò in rapporto a cui il Dasein fa esperienza di se stesso, Heidegger fa dunque dipendere tanto la comprensione dell’essere, quanto l’interpretazione più precisa di ciò che la tradizione filosofica ha pensato grazie a nozioni come intenzionalità o trascendenza. È vero che Heidegger, meno ancora di Husserl disposto a trasformare la fenomenologia in antropologia, ci permette di compiere solo un piccolo pezzo di strada, poiché molti tratti del suo pensiero – lo attesta la conferenza sulla cosa evocata poc’anzi – sono lungi dal testimoniare una piena rottura con l’umanesimo tradizionale. Tuttavia, proprio l’immagine del calzolaio ci può offrire un primo viatico verso una comprensione postumana del rapporto umano con le cose.
Se passiamo dalla filosofia alla sociologia, il quadro sembra decisamente migliorare. Dopo l’apporto teorico recato da Bourdieu, si è affermata una maggiore consapevolezza del fatto che la vita degli individui si snoda lungo percorsi costellati dalla presenza di oggetti, i quali hanno una vita loro propria, al punto che si è potuto parlare di una “biografia culturale delle cose”.13 A proporre nel modo più radicale l’idea secondo cui gli oggetti non sono inerti spettatori dei processi sociali, che vedrebbero coinvolti solamente attori umani, è stata l’Actor-Network-Theory (ANT), elaborata principalmente da Bruno Latour.14 L’ANT si è posta con chiarezza il compito di rendere visibile come la rete entro cui avvengono tutti i processi di socializzazione abbracci tanto umani quanto oggetti e altri esseri viventi. Tale opera di visibilizzazione non intende reificare le reti, anzi. Se così fosse, si ripeterebbe l’errore di tutte le teorie sociologiche che pretendono di spiegare le azioni degli individui ricorrendo alla finzione di una “società” supposta essere la causa di tali azioni. Per questo, anziché di società, Latour ci invita a parlare di “collettivi” – i quali appunto assemblano umani e non umani.
Il ruolo degli attori non umani che l’ANT si propone di descrivere consiste nel mediare tra luoghi, intesi come spazi di interazione e scambio, disposti lungo una superficie che né nasconde alcuna profondità, né rimanda a un livello superiore capace di surdeterminarla. Sarebbe improprio, infatti, considerare i luoghi come ciò che viene “tenuto assieme” da codici, documenti, informazioni, prescrizioni, norme, procedure, che verrebbero generate altrove, per esempio dentro contenitori fittizi come la cultura o le istituzioni. È bene insistere su questo punto: ciò che un attore fa non è incorniciato da un contesto, da una struttura, o da qualsivoglia insieme di entità estraneo all’azione e sovrapponibile a essa. Ciò che fanno e dicono di fare gli attanti (espressione, derivata dalla semiotica greimasiana, che Latour di solito preferisce a quella di attore), il modo in cui rendono conto del proprio operato, insomma l’insieme delle narrazioni condivise più o meno esplicitamente, assieme a enciclopedie, codici, prescrizioni, procedure e simili, circola entro lo spazio dell’interazione al medesimo livello dell’azione stessa. Ma quel che l’ANT invita a non per...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Premessa
  4. G. Leghissa - Ospiti di un mondo di cose
  5. R. Marchesini - Alla fonte di Epimeteo
  6. M. Maestrutti - Potenziati ma inadatti al futuro
  7. D. Tarizzo - Al di là del principio di realtà
  8. R. Ronchi - Figure del postumano
  9. F. Gruppi - Animal symbolicum e uomo toolmade
  10. F. Minazzi - “Salire sulle proprie spalle”?
  11. A. Lucci - Primi passi nel Postum(i)ano
  12. F. Monico - Premesse per una costituzione ibrida
  13. F. Polidori - Di un sintomo e alcune appartenenze
  14. Vicino/lontano