parte terza
Gli anni novanta
Cohen pubblica The Future e una raccolta di poesie e canzoni, poi si rifugia su Mount Baldy per sperimentare la vita monastica
Leonard Cohen e la morte del «Cool»
deborah sprague, data intervista: novembre 1991; data pubblicazione: primavera 1992, Your Flesh (Stati Uniti)
Dopo il turbinio di attività del 1988, Cohen si allontanò di nuovo dai riflettori. Nel 1991 uscì un album tributo, I’m Your Fan, e in quello stesso anno il suo nome entrò a far parte della Canadian Music Hall of Fame. Tra il 1989 e il 1992, tuttavia, non effettuò nessuna nuova tournée, rilasciò pochissime interviste e non pubblicò nuovi album per quasi cinque anni.
La carestia musicale terminò il 24 novembre 1992 con l’uscita di The Future, disco che ricevette una discreta accoglienza e, l’anno precedente alla sua pubblicazione, Cohen riprese a parlare con la stampa.
Tra le varie interviste di quel periodo ci fu quella con Deborah Sprague, che paragona la prospettiva di intervistare Cohen alla scalata dell’Everest, o del Kilimangiaro. «È qualcosa di avvincente e insieme capace di incutere soggezione: un’impresa che sembra impossibile da affrontare senza una rigorosa preparazione» dice. «Immagini la mia sorpresa quando mi fu concesso di incontrarlo in un palazzone di uffici dall’aria tutt’altro che accogliente, per poi trovarmi di fronte uno dei musicisti più gentili, amichevoli e impegnati che mi sia capitato di conoscere in centinaia di interviste.
«Cohen fu molto sincero sulla propria percezione del mondo e di se stesso, nonché totalmente privo di malizia nel valutare il proprio posto nell’universo, come essere umano e come artista» continua Sprague. «Il suo fascino, traboccante, era chiaramente molto di più di una mera apparenza e l’interesse da lui manifestato per cose al di fuori della sua persona – incluse quelle riguardanti la vita di chi scrive – era decisamente genuino. Quando il suo agente di allora mi chiamò, verso la fine della giornata, per dire: “Il signor Cohen mi ha chiesto di riferirle che il tempo che avete passato insieme è stato molto piacevole e che lei ha un animo gentile”, mi sentii una giornalista affermata all’ennesima potenza, in barba a premi e buste paga.»
È stato il primo «nuovo Bob Dylan», il primo a diffondere nel rock l’idea che delle ragazzine impressionabili potessero accorrere in massa attorno a un tozzo provincialotto di mezza età a condizione che avesse una buona parlantina, l’uomo che ha reso i toni cantilenanti quasi commerciabili (aprendo la strada a figure minori, da Bob Smith a Barry White). Ebbene sì, Leonard Cohen ha aperto un bello squarcio nel ricco arazzo del rock, per essere uno che ha pubblicato solo otto album nel corso dell’ultimo quarto di secolo.
Come poeta della depressione, rimane ancora ineguagliato: per rendersene conto, basta leggere i testi tratti da un lp che doveva uscire nel 1990 ma che è ancora di là da venire. Le sue opere resistono persino nelle mani di quegli sfigati del movimento new-wave che hanno messo insieme I’m Your Fan, l’album tributo che gli è stato dedicato lo scorso anno. È vero, sembra che gente come John Cale, Nick Cave e, curiosamente, persino il gruppo lounge neozelandese Dead Famous People sia riuscita ad «arrivarci», ma per la maggior parte i musicisti pop coinvolti avevano ben poco a che vedere con la formalità, la dignità e l’abbandono che caratterizzano i brani di Cohen: è pur vero che pretendere che ci riuscissero sarebbe stato come chiedere a un liceale di «interpretare» Bukowski.
Dopo un inizio come poeta beat a Montréal (il suo primo libro, Confrontiamo allora i nostri miti, è stato pubblicato nel 1956), con una passione per la musica country durata fino all’uscita di Songs of Leonard Cohen nel 1967, ha girovagato per l’Europa, tornando dai suoi viaggi con impresso in mente – che fosse positivo o negativo – il concetto della bellezza nel fallimento: da lì vengono i «belli e perdenti» di Beautiful Losers, il suo romanzo più famoso. Negli ultimi venticinque anni ha alternato periodi di isolamento totale a momenti di, diciamo, isolamento moderato. Nonostante la sua carriera (caratterizzata anche da una collaborazione con Phil Spector, che nel 1977 arrivò a sottrargli le registrazioni di Death of a Ladies’ Man dietro la minaccia di una pistola) sia stata attraversata da una coscienza religiosa che, come poche altre nel mondo della musica, ha prodotto opere in grado di portare perfino qualcuno alla conversione, Cohen la definisce «modesta». Non credeteci nemmeno per un secondo.
sprague: Com’è nato il progetto dell’album-tributo?
cohen: In realtà io non ho niente a che fare con quel disco. Non sono stato informato del progetto né quando è iniziato né quando si è concluso. È nato tutto dal genio di Christian Fevret, redattore di una rivista rock di Parigi di cui nessuno riesce mai a pronunciare correttamente il nome. Una rivista che tiene alta la fiamma del rock and roll.
Quanto è difficile per te concedere le tue canzoni all’interpretazione di altri musicisti?
Sono uno di quei genitori contenti di lasciare un po’ di libertà alla prole: sarei felice anche se diventassero musica per ascensori. Non ho un forte senso della proprietà, forse anche a causa del mio passato da cantante folk, genere nel quale si dice che un brano si arricchisce con ogni diversa interpretazione. Lo trovo un segno di eccellenza. Sono rimasto molto colpito dal rispetto con cui i cantanti hanno trattato gli arrangiamenti o la resa delle mie canzoni: l’ho trovato molto gratificante.
Preferisci che la gente si attenga a un’interpretazione rigorosa della tua musica?
Mi limito a godermi il piacere che mi suscita sapere che c’è qualcuno che realizza una cover di una mia canzone. Ho avuto una carriera piuttosto modesta in questo mondo, perciò non ce ne sono state molte. Quando scopro che qualcuno ha fatto una cover di uno dei miei brani, la mia capacità critica entra in uno stato di animazione sospesa. Non sono qui per giudicare, ma solo per ringraziare.
Tu stesso sei noto per essere un abile interprete di pezzi altrui; pensiamo alla tua traduzione di [Federico García] Lorca. Ti viene naturale?
Purtroppo, è tutto frutto di un processo estremamente minuzioso. Avrei preferito essere pieno di talento, rapido e spontaneo e, invece il mio lavoro implica una buona dose di impegno. Non che questo ne garantisca la qualità, ma è così che funziona. Quanto alla traduzione della poesia di Lorca, mi ci sono volute 150 ore solo per ottenere una versione inglese che richiamasse – non potrei mai essere tanto presuntuoso da dire «replicasse» – la grandezza dell’originale. È stata un’esperienza lunga e faticosa: l’unico motivo che mi ha spinto a provarci era l’amore per Lorca. Da ragazzino lo amavo profondamente: ho persino chiamato mia figlia Lorca, per cui è chiaro che è una figura molto rilevante nella mia vita. Lei poi porta quel nome divinamente, ha un animo così eccentrico, peculiare…
Devi mettere lo stesso impegno anche nelle tue canzoni, perché, ammettiamolo, non sei propriamente prolifico.
Vorrei tanto saperlo. Vorrei tanto sapere da dove vengono le belle canzoni, perché ci andrei più spesso. Una volta mi capitò di assistere a un concerto di Dylan a Parigi, il giorno dopo ci incontrammo e ci mettemmo a parlare di lavoro, di scrittura. Aveva cantato anche una mia canzone, «Hallelujah», che gli piaceva, e mi chiese quanto ci avessi messo a scriverla. Io mi vergognavo a dirglielo. Pensai: «Mentirò, ma dirò che ci ho messo due anni» anche se in realtà ci è voluto ben di più. La conversazione proseguì e io lodai una sua canzone intitolata «I and I», chiedendogli quanto gli ci fosse voluto a comporla. Mi rispose: «Un quarto d’ora» e gli credo. Mi piacerebbe far parte di quella tribù. Hank Williams era in grado di scrivere intere canzoni in mezz’ora, o almeno così dicono.
Pensi che essere già oltre la trentina al momento del tuo esordio ti abbia portato dei vantaggi?
Non so se si cresce mai sul serio, ma sono stato formato in una scuola di scrittura che oggi nessuno ricorderà più, chiamata la «Scuola poetica di Montréal»: un pugno di scrittori senza un soldo in tasca che si curavano della poesia e ...