Lettera quarta
Sulla grazia e la libertà
Caro papa Benedetto,
dobbiamo onestamente riconoscere che l’insegnamento evangelico si è conservato solo nella mistica, che esprime però quell’esperienza dello spirito non esclusivamente cristiana, ma dell’uomo in quanto tale, e perciò esprimibile ed espressa di fatto anche in altre religioni, come pure nella grande filosofia, tanto antica quanto contemporanea.
Per comprendere il linguaggio mistico, la prima cosa da tenere presente è che esso evoca sempre Dio, non perché pretenda di conoscere una realtà che per principio ci sfugge – la più grande figura religiosa del cristianesimo moderno, Sebastian Franck, ad esempio, inizia il suo capolavoro, i Paradossi, proprio affermando che nessuno conosce Dio – ma perché vuole fare riferimento a quella esperienza di luce, beatitudine, che si esprime comunemente col riferimento a Dio. Non occorre ripetere quanto questo linguaggio possa generare equivoci: chiamare Dio un soggetto altro, distinto dal mondo, dalla natura, dall’uomo, pone infatti in una serie di contraddizioni. La frase in cui compare Dio come soggetto agente è di per se stessa contraddittoria: con la parola «Dio» si vorrebbe indicare l’Assoluto, che invece nella frase stessa dipende dalla finitezza del suo agire, o del suo essere, che dunque diventa relativo. Quando si fa intervenire Dio come soggetto altro, tutto è scontorto, falsato; e perciò non v’è teologia che non si mostri fallace.
Una volta tenuto conto di questo, possiamo comunque continuare a utilizzare il linguaggio mistico per descrivere l’esperienza evangelica dello spirito.
Il punto di partenza è la scoperta della duplice realtà dell’uomo, fatto di carne e di spirito, di corpo e anima, per cui ogni uomo è diviso in se stesso ed è come due uomini, un uomo interiore e un uomo esteriore. L’uomo davvero essenziale è quello interiore e invisibile, ma i due uomini non sussistono da soli: né il corpo senza l’anima, né lo spirito senza la carne possono essere chiamati veramente uomo. L’uomo prende il nome dal suo signore, cui, sottomesso, serve: se è distaccato e vive nello spirito uccidendo la carne, è chiamato uomo interiore, spirituale; se invece è rivolto all’esterno e vive per se stesso, per le creature di questo mondo e per la carne, allora si chiama uomo esteriore, carnale – scrive Sebastian Franck, usando, del resto, il linguaggio dell’apostolo Paolo, per il quale l’uomo esteriore, carnale, è l’uomo vecchio, quello che si deve abbandonare, in modo da non vivere più secondo esso, ma, rinnovati nello spirito, rivestirsi dell’uomo nuovo, che è fatto da Dio e per Dio.
L’uomo nuovo – prosegue Franck – è dall’eterno nato da Dio, prima che il mondo fosse. Noi tutti siamo dall’eternità, ma quando nasciamo nel tempo iniziamo a essere uomo esteriore, e solo quando rinasciamo da Dio diventiamo una nuova nascita, rivestendo l’uomo nuovo, l’uomo interiore. Esso non è carne e sangue visibile, ma un puro spirito, nato da Dio, spirito da spirito, giacché quel che è nato dallo spirito, è spirito. Quest’uomo non può peccare, né morire, né essere o agire contro Dio – altrimenti Dio dovrebbe essere contro se stesso, e lo spirito contro lo spirito.
L’uomo nuovo, l’uomo interiore nasce con la rinuncia a se stessi, l’abbandono e il rinnegamento di se stessi – l’unica cosa assolutamente necessaria – «odiando» la propria vita e la propria anima, in modo da uccidere quella volontà propria che è simboleggiata nel peccato di Adamo e che ci dispone all’orgoglio, alla violenza, all’ira. In noi stessi, infatti, è il nostro peggior nemico. Vincere se stessi è ciò per cui occorre la forza più grande.
Se rinunciamo completamente a noi stessi, rinneghiamo noi stessi, affidandoci nel distacco al Logos divino, esso si genera in noi: così avviene la rinascita, quando il Logos viene concepito e generato in noi.
Il Logos è lo spirito, che i cristiani identificano con il Cristo, e dunque con il suo santo spirito, che vive nel cristiano. Ma, come abbiamo detto, lo spirito santo non è altro che la luce dell’intelletto attivo, e dunque un universale non esclusivo di nessuna religione.
Il primo, in Occidente, a capire che è il medesimo insegnamento quello di Platone, di Buddha, delle Upanis.ad e della mistica cristiana, è Schopenhauer, il «mistico senza Dio». Nel suo capolavoro scrive infatti che
l’etica cristiana non solo conduce al più alto grado di amore verso il prossimo, ma anche alla rinunzia. Quest’ultima è già ben visibile in germe negli scritti degli Apostoli, ma tuttavia solo più tardi si sviluppa appieno e viene explicite enunciata. Troviamo che gli Apostoli prescrivono: amor del prossimo eguale all’amor di sé; carità, amore e benevolenza in cambio di odio; pazienza, mitezza, sopportazione d’ogni possibile offesa senza opporvisi; sobrietà nel cibo per mortificare il piacere; resistenza all’istinto sessuale, ove sia possibile, completa. Vediamo qui già i primi gradi dell’ascesi, o propriamente negazione della volontà.
La formula di Schopenhauer vuole indicare
proprio ciò che negli Evangeli si chiama rinnegar se medesimo e prender su di sé la croce (Mt 16, 24.25; Mc 8, 34-35; Lc 9, 23-24; 14, 26-27, 33). Quest’indirizzo si sviluppò presto sempre di più e diede origine ai penitenti, agli anacoreti, al monachesimo; il quale era in sé puro e santo, ma appunto perciò in nulla adatto alla maggioranza degli uomini, per modo che soltanto finzione e turpitudine poté venirne, dato che abusus optimi pessimus. Col Cristianesimo meglio sviluppato noi possiamo vedere quel germe ascetico aprirsi nel suo pieno fiore, negli scritti dei santi e mistici cristiani. Costoro predicano, oltre il puro amore, anche rassegnazione intera, volontaria, assoluta povertà, verace calma, completa indifferenza riguardo a ogni cosa terrena, morte della volontà individuale e rinascita in Dio, perfetto oblio della propria persona e assorbimento nella contemplazione divina. Di ciò si ha una compiuta esposizione nel capolavoro di François de Fénelon, Spiegazione delle massime dei santi sulla vita interiore. Ma forse mai lo spirito del Cristianesimo in questo suo sviluppo fu espresso con tanta perfezione e vigore come negli scritti dei mistici tedeschi, e quindi di Meister Eckhart e nel libro a ragione celebrato Die deutsche Theologie (la Teologia tedesca), di cui Lutero, nella prefazione che vi fece, disse di non avere da nessun altro libro eccettuati la Bibbia e sant’Agostino, imparato meglio che da questo, che cosa siano Dio, Cristo e l’uomo. I precetti e gli insegnamenti quivi impartiti sono la più completa illustrazione, inspirata dalla più intima e profonda certezza, di ciò ch’io ho presentato come negazione della volontà di vivere. È qui che bisogna imparare a meglio conoscerla, prima di sdottrineggiarvi su con la saccenteria ebraico-protestante.
Schopenhauer ritiene che l’etica risultante dal suo pensiero non sia affatto nuova e inaudita nella sua sostanza, se pur tale può parere nella sua formulazione. Essa coincide invece appieno coi veri dogmi cristiani, ed è anzi già in essi, sostanzialmente, contenuta e presente; così come in tutta precisione coincide con le dottrine e le prescrizioni morali, sebbene presentate anch’esse in tutt’altra forma, dei libri sacri indiani.
Il filosofo di Danzica si riferisce però non al cristianesimo dell’età moderna,
che ha dimenticato il suo vero senso, degenerando in uno scipito ottimismo, ma al Cristianesimo originario ed evangelico, e in particolare a quello sostenuto da Agostino, contro le stoltezze dei pelagiani, ossia principalmente alla dottrina che la volontà non sia libera, ma dall’origine soggetta all’inclinazione del male; che perciò son le sue opere sempre peccaminose, e non possono mai soddisfare la giustizia; che finalmente non già le opere, ma la fede sola salva; e codesta fede non nasce da proposito o da libera volontà; bensì per l’azione della grazia, senza il nostro concorso, viene a noi quasi giungesse dal di fuori.
E così prosegue:
Oggi una rozza e insulsa concezione rigetta come assurdo, o nasconde, ciò che è più genuinamente evangelico e, soggetta a quel borghesismo intellettuale pelagiano, che è appunto il razionalismo odierno, mette tra le anticaglie proprio i dogmi più intimamente ed essenzialmente cristiani, tenendo invece per fermo solo il dogma originato e conservato dal giudaismo, che è collegato col cristianesimo esclusivamente da un legame storico.
Il dogma originato e conservato dal giudaismo è quello di un Dio creatore, accettando il quale la dogmatica cristiana va incontro a «insuperabili contraddizioni ed oscurità», che sono quelle derivanti dalla necessità di mettere in accordo questo Dio-altro con l’uomo, per non dire a concezioni «rivoltanti», come la predestinazione, con le quali si rigetta ciò che è veramente cristiano e si torna al rozzo giudaismo.
È per questo motivo che l’insegnamento liberatore del distacco, della negazione della volontà, si trova espresso, più che in Occidente, nelle «antichissime opere della lingua sanscrita»:
Che quella grave considerazione etica della vita potesse colà raggiungere uno sviluppo ancora più ampio, e più risoluta espressione, è forse principalmente da attribuire al fatto che quivi essa non fu limitata da un elemento a lei del tutto estraneo, com’è nel Cristianesimo la religione ebraica, alla quale Gesù dovette per necessità, parte consapevolmente e parte forse inconsapevolmente, conformarsi e adattarsi: per modo che il Cristianesimo risulta di due elementi molto eterogenei, dei quali io l’elemento ch’è soltanto etico amerei di preferenza, anzi in modo esclusivo, chiamar cristiano; e vorrei distinguerlo dal dogmatismo ebraico ch’esso trovò innanzi a sé.
Schopenhauer vede con chiarezza come nel cristianesimo coesistano due cose eterogenee, anzi, contrapposte: l’elemento etico, ascetico, cioè il distacco dall’egoità e la liberazione che ne consegue, e il «dogmatismo», ovvero la superstizione, ebraico. La coesistenza è difficile, ma soprattutto esiziale per la prima componente, poiché il distacco non sopporta riferimento a oggettività predeterminate, a «verità» pseudostoriche (in realtà menzogne, frutto della potenza fabulatrice della religione come instrumentum regni), dalle quali scaturisce quella dipendenza e quella alterità dell’essere – di Dio, del Bene – che taglia via alla radice ogni possibilità di liberazione.
In modo tanto profondo quanto per certi versi profetico, il filosofo di Danzica prosegue scrivendo:
Se, come già spesso, e in particolar modo nell’età presente si è temuto, quell’alta e redentrice religione dovesse un giorno decadere del tutto, io troverei di ciò la ragione nel fatto ch’ella consta non già d’un elemento semplice, bensì di due elementi in origine eterogenei, e venuti a collegarsi sol per il corso degli eventi. La loro scomposizione, causata dall’intrinseca loro disuguaglianza e dal contrasto con la scienza e la cultura contemporanea, non mancherebbe di produrne lo scioglimento; ma in seguito rimarrebbe tuttavia integra la parte puramente morale, perché questa è indistruttibile.
Con grandissima lucidità, Schopenhauer riconosce che la volontà non può annientare se stessa da sola, ossia con un atto che sarebbe esso stesso comunque un atto di volontà, non libero, tutto rientrante nel dominio della naturalità animale, ossia della necessità. La malizia dell’ego è insopprimibile, sempre pronta a farsi viva, e perciò possibile anche nell’atto stesso del distacco.
La liberazione avviene attraverso la conoscenza, dunque sapendo, riconoscendo anche in questo caso tale malizia: come la lancia di Achille, che, colpendo una seconda volta nello stesso punto, guarisce la ferita che essa stessa ha inflitto, così, il riconoscimento dell’egoismo insito nell’atto di volontà converte la natura in grazia, fa passare da necessità a libertà. Noi sappiamo, infatti, che anche nel distacco è in qualche modo presente la volontà, ma accettiamo lietamente questa sottomissione alla necessità, riconoscendola serenamente.
È la conoscenza che libera: libera perché distacca. Su questa capacità distaccante della conoscenza si fonda il suo primato, come unanimemente affermano la mistica d’Oriente e quella d’Occidente. La Bhagavad Gītā recita perciò:
Anche se tu fossi il più grande peccatore tra i malvagi, potrai passare attraverso ogni peccato e superarlo con il solo mezzo della nave della conoscenza. Come il fuoco ardente riduce in cenere la materia che lo alimenta, così il fuoco della conoscenza riduce in cenere tutte le opere. In verità, in questo mondo non v’è mezzo di purificazione efficace come la conoscenza. La conoscenza è un sacrificio maggiore di ogni sacrificio materiale.
Facciamo attenzione a come la conoscenza viene qui descritta – nave per attraversare il peccato, fuoco per ridurre in cenere, purificazione, sacrificio per distruggere: tutte immagini che rimandano al fatto che conoscenza e distacco sono tutt’uno. Il distacco, in effetti, è operazione tanto morale quanto intellettuale: la possibilità di liberarsi dai legami del desiderio è indissolubilmente connessa con la capacità di mettere ordine, fare chiarezza nei propri pensieri, che vengono, nel distacco, compresi e perciò pienamente padroneggiati, mentre in precedenza ne eravamo per così dire schiavi. «La conoscenza distacca» afferma perciò Eckhart, al centro di una tradizione filosofica che va da Eraclito a Wittgenstein.
Ci liberiamo, dunque, dal determinismo e dall’egoismo intrinseco nel volere, solo riconoscendolo come tale. Perciò si può dire che la conoscenza salva, non in un senso mitico, ma in un senso assolutamente spirituale: quello spinoziano del fare chiaro e distinto ciò che è invece oscuro, riportando tutto al soggetto, e alla misura dell’umano. Qui occorre riconoscere che la tanto depr...