Aut Aut 359. La potenza del falso
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Informazioni sul libro

Interventi di: Pierangelo di Vittorio, Raoul Kirchmayr, Antonello Sciacchitano, Renato Moglia, Damiano Cantone, Massimiliano Roveretto, Alessandro Dal Lago, Serena Giordano, Boris Groys, Roy Menarini, Paolo Fabbri, Telmo Pievani, Marcello Ghilardi.A cura di Damiano Cantone

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788865763391

Il vero, il falso, il Dao

MARCELLO GHILARDI
1. Ogni tentativo di circoscrivere e riassumere in poche pagine la complessità delle teorie sul vero e sul falso che emergono dal dibattito interno alla tradizione cinese non può certo pretendere di essere esaustivo, data la varietà delle proposte e la pluralità di approcci che si riscontrano all’interno del percorso anche di singoli autori. Tuttavia è non solo utile, ma anche auspicabile, un confronto con le modalità e con i termini principali che il pensiero cinese ha impiegato per identificare diverse “forme” del vero e del falso. Va innanzitutto sottolineato come indagare le nozioni di “vero” e “falso” non significhi tout court avanzare delle asserzioni sulla presenza o meno di una teoria della verità. A proposito di questo concetto il dibattito interno agli studi sinologici è vivo e serrato. Secondo Chad Hansen, “i filosofi della Cina classica non avevano alcun concetto di verità. Ovviamente, per i cinesi (sia filosofi che uomini comuni) la verità di una dottrina faceva senz’altro la differenza, e in generale i cinesi rifiutavano de re proposizioni false e ne adottavano di vere. Ma non usavano un ‘concetto di verità’ quando riflettevano filosoficamente su ciò che facevano”.1. Questa tesi provocatoria è stata variamente discussa e criticata; ciò che ora interessa, però, è considerare in che misura siano state elaborate e utilizzate espressioni per indicare il vero e il falso senza la necessità di erigere un concetto o una teoria della verità.
La parola cinese che esprime questa nozione, zhenli
, è di conio recente: ha circa un secolo e mezzo di vita e nasce per tradurre il termine occidentale (truth, Wahrheit, verité). Il carattere zhen non compare nei Dialoghi di Confucio, né in Mencio o in altri testi fondativi per la cultura cinese come il Classico dei documenti (Shujing), il Classico dei mutamenti (Yijing), il Libro dei riti (Liji) o gli Annali delle Primavere e degli Autunni (Chunqiu). Si trova nel testo taoista Zhuangzi, ma senza possedere il significato di “vero” o di “verità”, che assume solo in epoca moderna. È il saggio a essere definito come zhenren
, cioè “uomo autentico”: il carattere zhen non significa dunque “vero”, bensì genuino, schietto, attendibile, puro.
Alcune traduzioni di testi taoisti in lingua inglese hanno proposto truth come parola per rendere dao
, più spesso reso con “Via”, “processo”, o più impropriamente “principio”.2. Ma se da un lato una versione simile può essere accettabile a livello operativo, intendendo “verità” e dao come nozioni che rivestono un ruolo analogo all’interno delle rispettive tradizioni – Raimon Panikkar le avrebbe definite “equivalenti omeomorfici” –, dall’altro bisogna anche riconoscere il rischio di una totale incomprensione delle istanze proprie del pensiero classico cinese, se si accogliesse in maniera immediata una tale proposta di traduzione. Con una resa di questo tipo, sarebbe difficile aggirare l’accusa di addomesticare la specificità e l’alterità cinese, ingabbiandola e inscrivendola di forza all’interno di categorie eminentemente occidentali.
Al tempo stesso non ci si può arrestare alla considerazione – pur supportata da elementi concreti – di chi sottolinea l’interesse soprattutto pratico dei pensatori della Cina classica. Secondo Donald Munro, “in Cina la verità e la falsità nel senso greco dei termini sono state considerate importanti solo di rado, in rapporto all’accettazione di una certa proposizione da parte di un filosofo; queste sono preoccupazioni occidentali. Per i cinesi è importante piuttosto considerare le implicazioni per il comportamento, in rapporto alla credenza o alla proposizione in questione. Che effetto provoca sulle persone l’aderire a una certa credenza? Quali implicazioni si possono trarre da una certa affermazione?”.3. Eppure anche accettare un primato della ragione pratica, un interesse più concreto e rivolto all’efficacia, non implica il fatto che non vi fosse alcuna sensibilità per questioni di ordine teoretico e semantico.
Le prospettive ermeneutiche rivolte allo studio del pensiero cinese tra l’epoca degli Stati combattenti (453-221 a.C.) e la fine della dinastia Qin (221 a.C.-206 d.C.) possono divergere fortemente rispetto alla rilevanza accordata alla questione della verità e della sua effettiva presenza o assenza in tale contesto. In linea generale si può sostenere che in quel contesto non vi sono teorie moniste della verità, mentre vi si può riscontrare un approccio pluralistico, come evidenzia Alexus McLeod: “Uno dei tratti principali delle teorie pluraliste consiste nel ritenere il predicato ‘è vero’ come espressione di diverse proprietà in diversi ambiti o discorsi […]. Un pluralista può sostenere, dunque, che ‘vero’ in una discussione di fisica o di metafisica, per esempio, esprime una proprietà di corrispondenza, mentre ‘vero’ in una discussione di etica o di estetica esprime una proprietà di coerenza con altre credenze e con la visione del mondo complessiva di qualcuno”.4. Per McLeod è fondamentale riconoscere nella tradizione di pensiero sviluppatasi nella Cina antica un pluralismo aletico che permette di intendere le affermazioni “è vero” o “è falso” secondo accezioni diverse – corrispondenza, coerenza, pragmatismo – che si alternano o si combinano in relazione ai differenti contesti discorsivi.
È questo il punto che qui merita di essere approfondito: troviamo modi diversi per dire “è vero”, “è falso”, senza che in Cina sia stata ipostatizzata una nozione di verità come idea trascendente o regolativa. Il pensiero cinese tende a sposare il corso della realtà, la dinamica del processo (dao), senza porre cesure tra immanenza e trascendenza, e senza moltiplicare argomentazioni logiche fondate sulla presenza di idee metafisiche. Ciò non significa che non vi siano forme di razionalità che evidenziano l’importanza del principio di non contraddizione, o che in alcune correnti non sia stato attribuito un ruolo notevole all’esercizio logico-argomentativo o alla presentazione di paradossi logici che fanno riflettere sulla natura del linguaggio. Nel Mozi (IV secolo a.C.), per esempio, si legge che in una disputa tra elementi contraddittori non si possono attestare entrambi i termini della questione, e questa idea è chiarita con un esempio: “Tra le due [asserzioni], ‘è un bue’ e ‘non è un bue’, bisogna che una sola sia valida” (Canone, A 74). Poche righe oltre, lo stesso testo sembra suggerire che la validità del “dire” (wei
) consista nel suo carattere di trasferimento (yi
), riferimento (ju
) o adeguata applicazione (jia
).
La Cina antica non ha dunque ignorato le regole della logica, e le ha anzi definite in modo non dissimile da come si trova...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Premessa
  3. Pierangelo Di Vittorio. Come pesci nell’acqua. Prospettive genealogiche sulla mediatizzazione del quotidiano
  4. Raoul Kirchmayr. Spettralità del falso. Hegel, Freud e al di là
  5. Antonello Sciacchitano. O contraddittorio o non dimostrato o… Per l’epistemologia del falso
  6. Renato Moglia. La verifica incerta
  7. Damiano Cantone. Una richiesta di innocenza per il falso. A partire dalla “mimesis” di Platone
  8. Massimiliano Roveretto. Lo specchio e il velo. Paradigmi del falso
  9. Alessandro Dal Lago, Serena Giordano. Giochi di verità. O il contributo dei cosiddetti falsari all’arte
  10. Boris Groys. Iconoclastia come strumento artistico. Strategie iconoclaste nel cinema
  11. Roy Menarini. Strategie del falso nell’epoca del post-cinema
  12. Paolo Fabbri. “Yes, we (Zombies) can”: attualità mordace del Non Morto
  13. Telmo Pievani. Ingannare e ingannarsi: le ragioni del falso in natura
  14. Marcello Ghilardi. Il vero, il falso, il Dao